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I lavoratori della vigna | Una parabola amaramente salvifica?


La parabola dei lavoratori della vigna (Mt 20, 1-16) mi ha sempre lasciato perplesso. Le prediche in chiesa e le spiegazioni a catechismo non mi hanno mai soddisfatto veramente. Non sono il solo, vero? Chi può affermare con sincerità di approvare senza riserve il comportamento del padrone?


Se non ricordate la parabola, lasciate che vi rinfreschi la memoria. Un tizio esce di casa la mattina e assume degli uomini affinché lavorino nella sua vigna per la giornata, promettendo a ciascuno di loro il compenso di un denaro. Nel corso della giornata il padrone della vigna si reca altre volte in piazza, ingaggiando nuovi lavoratori. Anche nel tardo pomeriggio il padrone assume degli uomini rimasti senza lavoro. A fine giornata si consuma il fattaccio. Il padrone fa distribuire le paghe cominciando dagli ultimi arrivati, e dà loro un denaro ciascuno. Al momento dei lavoratori del primo mattino, il padrone non fa eccezione e paga anche a loro l’equivalente di un denaro. Questi, naturalmente, si lamentano (come?! Ci paghi come quelli che hanno lavorato un’ora?!), ma il padrone non sente ragioni e risponde: «Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse convenuto con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene; ma io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te. Non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?»[1].



Che diamine: non solo il padrone è ingiusto, fa anche il furbetto e canzona i lavoratori: non hai forse convenuto con me per un denaro? Il padrone non tiene conto del merito, e reagisce con ira e acidità di fronte a chi, dopotutto, avanza una richiesta più che ragionevole.


Come viene spiegata tradizionalmente la parabola? Ricorrono in buona sostanza due ragioni[2] che dovrebbero giustificare il comportamento del padrone e placare le proteste dei lavoratori (o dei lettori). Ci si può appellare al mistero della giustizia divina, la quale risulta incomprensibile se si cerca di definirla a partire da concetti che caratterizzano la giustizia umana, come ad esempio il merito. Oppure si può invocare come giustificazione la grandezza dell’amore di Dio (di cui il padrone è immagine). La nota de La Bibbia di Gerusalemme sembra optare per questa seconda interpretazione: “Assumendo fino a sera operai disoccupati e dando a tutti un salario intero, il padrone della vigna dà prova di una bontà che va oltre la giustizia, senza, d’altra parte, lederla.”

Perché dovremmo rifiutare da un punto di vista logico le due spiegazioni? Innanzitutto, la prima, ricorrendo al mistero, non può per definizione essere una spiegazione. Se affermiamo che il comportamento del padrone si modella sulla base di una giustizia divina misteriosa, che eccede le nostre capacità di comprensione, stiamo semplicemente rinunciando a chiarire il suo comportamento.


Più interessante la seconda interpretazione, secondo cui il padrone si comporterebbe così perché la sua bontà e la sua generosità sono troppo grandi per limitarsi a calcoli meramente proporzionali e retributivi. Mi perdonerete se non me la bevo. Qualcuno mi saprebbe dire perché un padrone d’una bontà immensa si mostra così pignolo e severo con i lavoratori della prima ora? Se il padrone è davvero così buono perché non dà a tutti dieci, cento o mille denari? Pensate che io stia semplicemente provocando in maniera assurda? Ritengo invece di aver sollevato un punto cruciale e voglio spiegarvi il perché.


È importante notare che la resistenza alle due precedenti spiegazioni non muove in realtà da un piano logico, quanto piuttosto da un piano emotivo. Personalmente, almeno, credo di averla vissuta così. Non avversavo il presunto insegnamento della parabola per la sua illogicità; il fatto è che il trattamento ingiusto subito dai lavoratori della prima ora mi lasciava l’amaro in bocca. Dite che sbagliavo a reagire così? Mi fate notare che il padrone ha semplicemente rispettato i patti e che quei lavoratori non hanno nulla da recriminare, così come non ce l’abbiamo noi lettori? Ho il sospetto che mi stiate mentendo e che mentiate anche a voi stessi. I lavoratori subiscono un’ingiustizia, reagiscono ad essa in maniera ovvia e, dulcis in fundo, vengono redarguiti severamente.



Questa parabola ci spiazza e non credo che le spiegazioni tradizionali siano sufficienti per farcela comprendere e apprezzare. Notiamo di non essere i soli spiazzati dal finale: anche i lavoratori della prim’ora lo sono.


Ecco il passaggio interpretativo fondamentale. Siamo spiazzati come lo sono i lavoratori della prima ora. Questa circostanza suggerisce un fatto semplice ma di straordinario rilievo: tra tutti i personaggi della parabola, tendiamo naturalmente a identificarci con i lavoratori della prima ora[3]. Per caso qualcuno di voi si immedesima con i lavoratori dell’ultima ora? Con quelli che sono stati in piazza tutto il giorno, poiché nessuno li aveva scelti, e che alla fine si beccano il compenso di una giornata con solo un’ora di lavoro? Io non credo.


Conclusa la lettura della parabola, anche noi, come i lavoratori, mormoriamo: «anch’essi ricevettero un denaro per ciascuno. Nel ritirarlo però, mormoravano contro il padrone». Possiamo cercare di gridare le ragioni tradizionali per non sentire questo mormorio, ma la voce che mormora resta. L’interpretazione che propongo individua nel basso ma ben udibile mormorio l’inconfondibile voce dell’invidia.


I traduttori italiani hanno rilevato chiaramente il tema. In chiusura il padrone domanda retoricamente ai lavoratori della prim’ora se non sono forse invidiosi. Le traduzioni inglesi rendono con envious[4] e con bedgrudge[5] (sinonimo di invidiare) il greco ὀφθαλμός πονηρός (letteralmente, occhio maligno). Ne La Bible de Jerusalem si usa jaloux (avevamo già visto che in francese ‘geloso’ e ‘invidioso’ sono pressoché intercambiabili).


L’invidia gioca un ruolo di prim’ordine nel racconto. I lavoratori sono soprattutto scottati dalla seguente esperienza: istaurano una sorta di relazione comparativa tra un sé e gli altri per poi vedersi svalutati e non riconosciuti a fronte dei propri meriti.


Poniamoci la seguente domanda: perché mai, leggendo la parabola, noi dovremmo sentirci coinvolt* in qualche modo? Perché siamo portat* ad empatizzare con quei lavoratori? Il tema del lavoro, nella parabola, è ovviamente da intendersi metaforicamente. Il racconto descrive una situazione che, se non fossi allergico ad Heidegger, definirei esistenziale. La scena non rappresenta davvero un lavoratore, bensì un individuo tra altri individui. Precisamente viene descritta la situazione che vede l’individuo privato di un riconoscimento agognato, il cui valore si misura solo nel raffronto con il riconoscimento di cui godono gli altri. Questa, parafrasando Girard, è la situazione tipica dei soggetti desideranti che siamo[6].


Il denaro nella parabola ha la funzione di simboleggiare il riconoscimento altrui. Ricevere denaro significa soddisfare la nostra richiesta di risultare desiderabili. La soddisfazione causata dall’esser desiderati, tuttavia, non può prescindere dai flussi di desiderio che investono gli altri che ci stanno attorno.


Diciamola in termini chiari. Poniamo che ci sono Martino, Silvio e Sara. Immaginiamo una situazione S1 in cui Sara desidera Martino con un desiderio di intensità 7 e contemporaneamente desidera Silvio con un desiderio di intensità 8. Immaginiamo ora la situazione S2 in cui Sara desidera Martino con un desiderio di intensità 3 e Silvio con un desiderio di intensità 2. Quale situazione riteniamo preferibile, o maggiormente desiderabile, per Martino? Se guardassimo al desiderio netto “in entrata” dovremmo dire che in S1, rispetto a S2, le cose vanno meglio per Martino: in S1 viene desiderato 7 e in S2 solo 3. Tuttavia, se consideriamo il valore del desiderio “in entrata” rapportato agli altri flussi di desiderio in gioco, dovremmo concludere che per Martino è preferibile la situazione S2, nonostante in S1 venga tenuto in più alta considerazione da Silvia.


E noi, nella vita quotidiana, che tipo di valutazioni facciamo? Fossimo nei panni di Martino che situazione desidereremmo? Sarete d’accordo con me e soprattutto con Girard nel dire che riterremmo maggiormente desiderabile la seconda situazione. Ciò che importa non è la quantità di desiderio in sé, è lo scarto, il delta, che vogliamo vedere segnato rispetto alla desiderabilità nostra e quella altrui.


Il fine di questo racconto dal Vangelo di Matteo, io credo, è descrivere in maniera semplice e accurata una situazione esistenziale. Una situazione che - anche se siamo poco propensi ad ammetterlo - investe spesso la nostra quotidianità. Il redattore del testo descrive lo stacco tra la desiderabilità a cui aneliamo, ossia il desiderio altrui che vogliamo vederci riconosciuto, e la desiderabilità di cui pensiamo di godere effettivamente. La percezione di questo stacco ci porta poi a veder realizzato questo perfetto equilibrio di desideri nei nostri modelli, negli idoli o più semplicemente negli altri (i lavoratori dell’ultima ora). Questo è nient'altro che il seme dell’invidia.


Ecco perché non avrebbe avuto senso descrivere un padrone che largheggia con abbondanza nei confronti gli operai della prima ora! I lavoratori della prima ora si aspettavano un riconoscimento (un’attribuzione di desiderabilità), il cui valore reale diventa minimo nel momento in cui è comparato al riconoscimento che il padrone – colui il cui riconoscimento risulta particolarmente prezioso – elargisce ad altri.


A questo punto potrebbe sorgere un dubbio circa l’identificazione dei lettori con i lavoratori della prima ora. I lavoratori della prima ora meritavano veramente più di quelli arrivati dopo. È un dato oggettivo che essi abbiano lavorato di più. È importante capire che non è questo il punto. Nelle situazioni relazionali da noi vissute quotidianamente non sono le oggettive quantità di desiderio a importare; sono piuttosto i flussi di desiderio che il singolo pensa siano in gioco. Tornando all’esempio precedente[7], per misurare la soddisfazione di Martino non ci interessa per forza sapere quanto Silvio sia veramente desiderato da Sara, ci basta sapere quanto Martino pensi che Silvio sia desiderato da Sara[8]. Questo rende le nostre situazioni relazionali particolarmente volubili, complesse e caleidoscopiche.


Saranno pur ragionevoli le lamentele dei lavoratori, ma è il mormorio del lettore ad occupare il centro della scena. La situazione descritta nella parabola è sapientemente narrata proprio dal punto di vista di colui che mormora, di colui che si ritiene, con certezza oggettiva, degno di vedersi assegnato uno scarto di desiderabilità tra sé e gli altri, salvo poi rimanere scandalizzato nel momento in cui si infrangono le sue aspettative.


La parabola pare quindi magistralmente architettata in senso metatestuale. Il testo evangelico in esame non si chiude in sé; riesce a dire qualcosa su colui che si rapporta al testo, gli mostra le ragioni della sua istintiva immedesimazione con alcuni personaggi del testo.


La parabola punta a denunciare e a minare gli inferni edificati dalle nostre invidie. Viene messo sotto accusa il fatto stesso che noi mediamente pensiamo di essere il lavoratore della prima ora. La parabola ci vuole salvare da quell’inferno di condizione “esistenziale” – il sottosuolo di dostoevskiana memoria – a cui accennavamo prima, e da tutte le vie, i dispositivi e i meccanismi psicologici che ci conducono ad essa.


Ci sarebbe molto altro da dire. Credo sia necessario mettere in guardia contro altre interpretazioni “tradizionali”, le quali prendono le mosse dal così gli ultimi saranno i primi posto in chiusura della parabola. Inoltre, non siamo ancora riusciti a dire qualcosa sul comportamento del padrone e sull’idea di “regno dei cieli” che emerge. Ne parlerò tra qualche settimana nel mio prossimo articolo.


*****


[1] Cfr. La Bibbia di Gerusalemme, Matteo 20, 13-15.

[2] Non posso esimermi dal segnalarne qui in nota una terza: l’autorevole interpretazione di quei pappagalli neoliberali dell’Istituto Bruno Leoni. Un video tanto abietto quanto esilarante. Consigliato.

[3] Anche don Francesco Carensi nota una specie di immedesimazione.

[4] New International Version.

[5] English Standard Version.

[6] L’uso della prima persona plurale mi provoca sempre un poco di orticaria, ma non è facile farne a meno.

[7] Che quindi andrebbe corretto.

[8] Su questa opposizione essere/sembrare Girard insiste in maniera martellante sin da Menzogna romantica e verità romanzesca.

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