di Ludovico Cantisani
I cinema in tutto il mondo hanno cominciato a riaprire, e, dopo che la scorsa estate il messianico Tenet di Nolan aveva fallito a riportare il pubblico in sala, il “blockbuster” americano che si è trovato a ricevere il curioso titolo di maggior incasso nell’era post-Covid è stato l’atteso monster movie Godzilla vs. Kong; questa è una curiosa coincidenza, perché già decenni fa il primo King Kong, datato 1933, era stato il primo, grande nuovo incasso per una Hollywood fiaccata dalla Grande Depressione.
“Pochi anni fa, i giornali americani annunciarono il ritrovamento di un dinosauro ben conservato nello stato di Utah, aggiungendo che l’esemplare era sopravvissuto ai suoi simili ed era di vari milioni di anni più recente di tutti gli altri finora noti. Queste notizie, come la moda fastidiosamente umoristica del mostro di Loch Ness o i film del tipo King Kong, sono proiezioni collettive del mostruoso stato totale. Ci si prepara ai propri orrori con l’abitudine al gigantesco. Nell’assurda inclinazione ad accettarlo, l’umanità, che versa nell’impotenza, cerca disperatamente di acquisire alla propria esperienza ciò che irride ad ogni esperienza. Ma l’idea di questi animali preistorici tuttora viventi o scomparsi solo pochi milioni di anni fa, non si esaurisce qui. Il desiderio della presenza di ciò che è più antico, non è che la speranza che la creazione animale possa sopravvivere all’ingiustizia che ha subito ad opera dell’uomo, e magari all’uomo stesso, e produrre una specie migliore, destinata finalmente a riuscire”. Questo passo, tratto dall’aforisma n° 74 dei Minima Moralia di Adorno, dà dei primi, interessanti spunti verso quella che si potrebbe essere una sorta di reinterpretazione archetipica di King Kong come mito moderno e delle sue implicazioni.
La storia di King Kong è una di quelle trame che il cinema ha imposto alla memoria collettiva, con quattro film principali (nel 1933, nel 1976, nel 2005 e nel 2017) e numerosi altri sequel, spin-off e rifacimenti apocrifi che hanno reso una mostruosa scimmia gigante uno dei personaggi più “saccheggiati” di tutta Hollywood. I film del ’33, del ’76 e del 2005, quelli che in fondo sono rimasti di più nella memoria collettiva, seguivano tutti e tre lo stesso canovaccio, una versione più avventurosa de “La Bella e la Bestia”: una spedizione di uomini raggiunge un’isola sospesa nel tempo, l’Isola del Teschio, dove vivono ancora dinosauri e altre bestie preistoriche; in mezzo agli uomini si distingue una donna bionda, Ann Darrow, che viene rapita dalla popolazione locale per essere offerta in sacrificio – ciò già è interessante – al loro dio; questo dio si rivela essere un gorilla dalle dimensioni ciclopiche di nome Kong, che della donna però si innamora; gli uomini fanno di tutto però per salvare la donna e, già che ci sono, portano Kong, ribattezzato all’occidentale King Kong, in America per esibirlo in un freak show in grande stile; King Kong, portato alla civiltà in catene, al momento dello show si ribella e, salito sull’Empire State Building o, nel remake del ’76, sulle Torri Gemelle, costringe gli uomini ad ucciderlo mediante l’ausilio di aeroplani militari; l’unica a piangerlo è Ann Darrow, che con il “mostro” aveva instaurato davvero un legame emotivo.
Che Godzilla vs. Kong, un film di mostri a sfondo apocalittico, uscisse ai margini di una pandemia globale era decisamente imprevedibile; l’originale King Kong del 1933, diretto in coppia dai registi Merian C. Cooper ed Ernest B. Schoedsack, invece era pienamente consapevole dei tempi in cui veniva realizzato e distribuito, tanto da mostrare, nei suoi primi minuti, tutte le difficoltà della vita, soprattutto delle donne, nella New York della Grande Depressione, con un gusto realistico decisamente azzeccato per rendere più facile la “sospensione dell’incredulità” verso i mostri che gli spettatori incontrano non appena la storia del film entra nel vivo. Chi è familiare con la visione di Girard sulla crisi sacrificale e sull’emergere del capro espiatorio che la risolve non avrà difficoltà a rintracciare, soprattutto nel King Kong originale, diversi elementi che possono essere ricondotti ad una lettura girardiana. Le dinamiche dell’indifferenziazione come preludio alla crisi si possono riscontrare già nelle immagini delle donne in fila verso la mensa dei poveri ai tempi della Grande Depressione – crisi essa stessa, crisi economica – che aprono il film, ma anche in quelle brevi scene in cui, nel film originale, Kong scambia altre donne per Ann Darrow e, accortosi dell’equivoco, semplicemente le uccide.
A ben vedere, nella trama “classica” di King Kong – che l’ultimo remake, a cura di Jordan Vogt-Roberts, ha saputo innovare con interessanti echi sulla guerra del Vietnam (vedi qui) sono due le figure sacrificali, e almeno una di esse assolve a una funzione sostanzialmente espiatoria: da un lato, King Kong, com’è chiaro dal finale, ma dall’altro lato la stessa Ann Darrow, che gli indigeni di Skull Island sono determinati a voler sacrificare, colpiti e – direbbe Girard – “polarizzati” dal biondo della sua capigliatura. Fra i due “amanti” di questa curiosa fiaba mostruosa c’è quindi una relazione, se non di mimesi, quantomeno di simmetria: al termine di una celebrazione, della messa in scena di un sacrificio ritualizzato, Ann Darrow viene esposta al dio Kong, che, a differenza di quanto accaduto alle precedenti indigene, decide di risparmiarla, di portarla con sé nella sua tana; nel mezzo di un pacchiano show, che imita e parodia i rituali dell’Isola del Teschio edulcorandoli con flash, coriandoli e nastri rossi, Kong si libera, facendo esplodere la sua rabbia repressa di “selvaggio contro la civiltà”. E non può essere un mero caso se in un noto romanzo uscito anch’esso nei primissimi anni trenta, Il mondo nuovo di Aldous Huxley, in un contesto stavolta fantascientifico anche “John il Selvaggio”, figlio di regolari cittadini della società distopica che fa da sfondo al libro ma cresciuto per errore in una riserva indiana, viva anche lui un arco, molto simile a quello di King Kong, di trasferimento nella civiltà, esposizione, attrazione, presa di coscienza, distacco e, nel suo caso, suicidio finale.
La forza trainante del successo di King Kong – la capacità che il film ebbe di risollevare i botteghini dopo la Grande Depressione, e la duttilità con cui il personaggio, da “documento” chiaro di una precisa crisi economica e sociale, si è evoluto e trasformato nel variare delle epoche continuando ad essere in un certo senso “attuale” – va trovata nella pregnanza con cui ha saputo cogliere e mettere in scena certe sensazioni tipiche di un frangente storico ma sempre condivisibili, perché riflesso di certe condizioni d’essere dell’uomo. Un film come King Kong è, innanzitutto, una fantasia di fuga: né primo né men che meno ultimo di una lunga serie di film hollywoodiani ambientati in luoghi esotici e vagheggiati, con una rappresentazione degli indigeni dell’Isola del Teschio che ha causato non pochi dibattiti e problemi al film originale nell’epoca del Black Lives Matter, il film evidentemente doveva cogliere e soddisfare una fantasia particolarmente presente nell’audience del 1933, che, per usare le parole di Adorno, “versava nell’impotenza” sociale ed economica. Prima di ogni altra cosa, King Kong è un mostro, un monstrum, ed è cosa nota che, in latino, il termine monstrum, similmente al termine sacer, avesse uno spinoso, doppio significato, tanto di “portento”, “prodigio”, “miracolo”, quanto di “orrore”, “nefandezza”, mostro per l’appunto. È stato un pensatore come Emil Cioran a spiegare con disarmante chiarezza, ne L’inconveniente di essere nati, il fascino dei mostri su un piano culturale, estetico ed emotivo: “un mostro, per quanto orribile sia, ci attrae segretamente, ci perseguita, ci ossessiona, rappresenta, ingigantiti, i nostri privilegi e le nostre miserie, ci proclama, è il nostro portabandiera”.
Il mostruoso inevitabilmente polarizza, attira a sé gli sguardi ma anche la repulsione, incarna una forza della natura non ancora domata, certamente anteriore a ogni civilizzazione e all’umanità stessa, ammirabile, invidiabile, ma al tempo stesso, proprio perché indomita, terribilmente pericolosa per ogni equilibrio sociale. Quel che è più saliente, ai fini di una lettura girardiana di King Kong e, in generale, del cosiddetto “cinema dei mostri”, è che ogni monstrum porta con sé quell’indifferenziazione che Girard vedeva presente nell’imminenza di ogni crisi sacrificale: il mostruoso è l’indifferenziazione, la perdita dei confini, il gigantismo, il mondo animale accresciuto, deificato e al tempo stesso umanizzato – la liminarità. In un’epoca storica come quella dei primi anni trenta, con gli effetti della crisi del ’29 ancora ben lontani dall’essere scomparsi, King Kong era – poteva essere - la perfetta rappresentazione di una agognatissima, cieca ribellione verso tutti i vincoli sociali, politici ed economici che caratterizzavano l’Occidente di quegli anni, e che nello stesso periodo facevano immaginare a uno scrittore come Aldous Huxley una società ipercontrollata, al tempo stesso utopica e distopica: King Kong era la rappresentazione di questo desiderio di ribellione, di fuga, di violenza, ma al tempo stesso la dimostrazione della sua inutilità, del suo ineludibile fallimento. King Kong muore, in una “rappresentazione profana” che, se non altro per l’elevazione a cui si assoggetta Kong salendo sull’Empire State Building o sulle Torri Gemelle, non può non avere un vaghissimo eco cristologico, sacrificale quindi, espiatorio. Il passante di turno ha un bel dire che “è stata la bella a uccidere la bestia”: è l’impossibile contatto fra l’Assolutamente incivilizzato e la Civiltà dei riflettori a causare la morte dell’animale, a invocare l’intervento degli aeroplani. Di film in film, mantenendo ostinatamente le stesse regole di base della storia almeno fino al 2005, il mitologema di King Kong si è saputo rinnovare, cambiando sicuramente sottotesto ma preservando una sottostruttura archetipica di fondo immutata; e così si arriva fino al successo di Godzilla vs. Kong, che finora ha totalizzato ben 400.000 milioni di euro nei botteghini di tutto il mondo.
King Kong quindi è la reazione ad ogni crisi, il suo esorcismo, la sua rappresentazione. Il remake del 1976 aveva nel sottotesto tematiche ecologiche, richiami alle lotte studentesche contro le multinazionali che in quegli anni avevano iniziato ad attecchire; Kong: Skull Island del 2017 era ambientato negli ultimissimi giorni della Guerra del Vietnam, con un gruppo di marine incaricati da un’agenzia governativa di nome Monarch di fare un’ultima operazione sull’Isola del Teschio. Cosa ancora più saliente, ma da noi già analizzata in altra sede, è come il personaggio di Godzilla, de facto la risposta giapponese a King Kong, incarnasse ed esorcizzasse lo shock culturale dei giapponesi nei confronti dei bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki e la paura ancora presente a causa del prosieguo dei test atomici fra gli atolli del Pacifico, continuando ad evolversi anche nei remake americani a sfondo nuovamente ambientalista che poi sono sfociati nel crossover Godzilla vs. Kong, che qui in Italia arriverà ai primi di maggio. Ma al di là dei molteplici – troppi – remake, sequel e derivazioni di ogni sorta dal film originale del 1933, l’archetipo di King Kong fu oggetto di una significativa rilettura da parte di uno dei “maestri del grottesco” del cinema europeo del Novecento, Marco Ferreri. Uscito nel 1978 sull’onda del successo del King Kong di De Laurentiis, premiato a Cannes con il Gran Premio della Giuria, tutto il suo Ciao maschio ruota intorno alla dissonante immagine del cadavere di King Kong lasciato sulla shoreline di New York, accanto al quale Gérard LaFayette (Gérard Depardieu) trova un cucciolo di scimmia cui si affeziona.
Fra le opere meglio riuscite del suo autore, Ciao maschio più che seguire una vera trama si compone di scene e bozzetti “impressionistici”, che, anche grazie al personaggio dello sfortunato pittore Luigi Nocello, interpretato da un inedito Mastroianni, sembrano voler rappresentare per situazioni l’irrecuperabilità del rapporto tra i sessi, la crisi di un modello maschile compatto e l’avanzare di un modello femminile aggressivo, in una chiara parodia del mondo femminista degli anni settanta. Il cadaverico King Kong rappresenta allora i resti in decomposizione di una virilità ormai decaduta, sterile, irrecuperabile; il personaggio di Gérard Depardieu viene stuprato in un teatro Off-Off-Broadway da un gruppo di attrici; il personaggio di Marcello Mastroianni, stanco dei troppi rifiuti in amore, si suicida impiccandosi; la scimmietta che LaFayette trova nei pressi del cadavere di King Kong sembra aprire una porta per una paternità egoistica e unilaterale, senza concorso del femminile, ma alla fine del film l’animaletto, soprannominato Cornelio, viene divorato dai topi e l’uomo muore in un incendio mentre l’attrice che l’aveva violentato mette al mondo una figlia. Alla luce della lettura attuata da Marco Ferreri si può allora reinterpretare King Kong come esponente di un maschile – o forse, per meglio dire, di una mascolinità – difficilmente riconducibile entro schemi sociali; una mascolinità selvaggia, che solo l’emozione, e non la norma, può domare, ma che proprio l’emozione, l’attaccamento per Ann, porterà inevitabilmente alla morte: interessante rielaborazione del double bind. Del resto, per restare all’interno di questioni “di genere” in senso lato, non sarebbe difficile rileggere la relazione che si crea fra King Kong e il protagonista maschile di turno già innamorato di Ann Darrow alla luce di quanto scriveva René Girard in Menzogna romantica e verità romanzesca a proposito dei personaggi “rivali in amore” per la stessa donna; ma forse è più fruttuoso mantenersi all’interno del solco di un King Kong come documento di una crisi.
King Kong, dunque, come reazione alla crisi del ’29, rappresentazione grottesca e in sé stessa esorcizzantesi di una fantasia di potenza ed evasione che fa bene il paio con quel “disagio della civiltà” di cui Freud, nello stesso 1929, iniziava a trattare. Tuttavia, soprattutto nel King Kong originale datato 1933, il primo grosso film hollywoodiano ad uscire dopo il “Giovedì nero”, è possibile cogliere anche un altro piano in cui è inscritto questo senso di crisi: un piano squisitamente metacinematografico. Il King Kong di Merian C. Cooper ed Ernest B. Ernest B. Schoedsack è stato infatti uno dei primissimi film della storia del cinema a rappresentare, nel personaggio di Carl Denham, un regista cinematografico, alle prese con la difficoltà del suo lavoro, con lo scarso coraggio, a suo dire, degli operatori di macchina, con la superficialità dei produttori.
Tratto tipico di ogni crisi è mettere allo scoperto le strutture a fondamento del mondo. Questo è il senso dell’apocalisse, ma non solo. L’immaginario di King Kong, archetipo filmico che ci accompagna da quasi nove decenni, è, da un certo punto di vista, un prodotto privilegiato in termini di rappresentazione della crisi. Da un lato, in tutti i film di King Kong è palese e quasi infantile l’opposizione fra il “selvaggio”/esotico e l’urbano/“civilizzato”; dall’altro lato, nel film originale del ’33 il metacinema, il quale diventa rivendicazione di sé ed esaltazione dell’industria di cui si fa parte, dell’industria, quindi, che di fatto crea questi mostri e questi archetipi; dall’altro lato ancora, ciò che è più importante ai fini di una lettura girardiana dell’opera, il mostruoso come indifferenziazione, il mostruoso come polarizzante ambiguità sia terminologica che esistenziale, il mostruoso come intrinsecamente reietto e - quindi - sacrificale. In tempo di peste, un archetipo di questo tipo si fa particolarmente pulsante e, se già i film standalone su King Kong lo vedevano spesso e volentieri scontrarsi con mostri preistorici, Godzilla vs. Kong, secondo scontro fra i due principali monstra del cinema mondiale dopo un pittoresco film giapponese datato 1962, rappresenta un affascinante caso di collisione tra due archetipi, nel vero senso della parola. Il mostruoso, la deformazione, l’indifferenziazione – il ritorno a forme e mentalità preistoriche – sono elementi sotto la base del vivere umano, che la creatività “scatena”, simboleggiando nei mostri immaginari al tempo stesso un desiderio di gigantismo e il terrore di un’inafferrabilità, di un’esclusione: e se Ishiro Honda, il creatore di Godzilla, affermava che “la tragedia dei mostri è di essere troppo grandi e potenti per essere accettati dal genere umano” e film ben più maturi come The Elephant Man di David Lynch ribadivano lo stesso assunto di base, non è provocatorio inserire il cinema dei mostri, e tutto l’immaginario che vi sta dietro, all’interno di un discorso sulle strutture sociali, sui meccanismi di ostracismo ed esclusione, sulla – ciò che forse è un’autentica ossessione della nostra epoca, nel discorso pubblico – discriminazione, in qualunque senso e direzione essa si muova.
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