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Immagine del redattoreGruppo Studi Girard

Platone e Aristotele | All’origine degli approcci al mito

Aggiornamento: 16 nov 2020


Nell’articolo Cos’è il mito abbiamo mostrato come una definizione piuttosto che un’altra del mito condizioni la sua lettura (anche se si tende a credere che accada l’opposto, che la definizione venga dopo la lettura). Dopo aver interrogato le definizioni è opportuno interrogare la loro origine.

È noto che nella Repubblica Platone “espelle” dalla sua città ideale la poesia. Nonostante in molti abbiano gridato allo scandalo, forse non si è mai preso davvero coscienza che il vero oggetto dello scandalo del filosofo era il mito. Ciò che andava “espulso” non era tanto la poesia, ma gli immorali racconti poetici incentrati sulle «contese di dèi ed eroi contro i loro congeneri e familiari» (Platone, Repubblica, ed. BUR, trad. it. di M. Vegetti, p. 415). È così che oggi il mito finisce per essere definito solo come «imprese di lotta contro forze avverse» (dizionario del Corriere della Sera). Abbiamo due prove eclatanti che sia il vero “espulso”: la prima è che Platone si è messo a scrivere lui stesso dei miti che fossero a “immagine e somiglianza” della sua filosofia; la seconda è che, se la poesia è stata immediatamente riabilitata a pieno diritto e senza difficoltà dal pensiero filosofico, alcuni aspetti dei miti hanno continuato a subire “espulsioni”, non essendo “degni” di essere accolti da esso.

Di fatto le strade dei narratori e dei pensatori si sono separate e mai più ricongiunte. Da un lato dopo Omero la tragedia greca riscopre il materiale mitico come luogo privilegiato, in cui è sondata in tutta la sua drammaticità la natura al tempo stesso meravigliosa e terribile (δεινός) dell’essere umano, e dall’altro Plutarco si dimostra diligente allievo di Platone nel raccontare i miti egizi, espellendo «i particolari più scabrosi» (Plutarco, Iside e Osiride, ed. Adelphi, trad. it. di M. Cavalli, p. 76). Proprio come il suo maestro, non solo non nega la sua azione espulsiva, ma lo considera un merito, vantandosi di non avere «degli dèi un’opinione così assurda e primitiva» (p. 77).

Insomma se Euripide incentrava volutamente i suoi drammi sulla realtà umana più tragica (pare che osò troppo e la scena di Ippolita che cercava di sedurre il figlio fu censurata a fronte dello scandalo del pubblico ateniese), Plutarco arrivava addirittura a rifiutarsi di raccontarle: più che separate, narratori e pensatori hanno intrapreso due strade proprio opposte.


Sia chiaro: dare la colpa per l’inadeguatezza delle nostre definizioni a un ateniese vissuto più di duemila anni fa, più che ingenuo, è semplicemente ridicolo. Platone non era uno studioso di miti, era un moralista e ragionava da moralista (giusto o sbagliato che sia). Il vero problema è che il suo approccio si è conservato tra i dichiarati esegeti di miti, sia tra i filosofi sia persino, almeno parzialmente, tra coloro che sono stati a tutti gli effetti studiosi.

Prendiamo due casi autorevoli e che di recente hanno offerto risultati importati e indiscutibili grazie a un metodo, quello comparativo, oggettivamente più rigoroso di tutti i tentativi che dai tempi di Plutarco cercano di decifrare i miti traducendoli, attraverso simbologie e allegorie più o meno arbitrarie, in cosmologie ad “immagine e somiglianza” dei loro sistemi di pensiero, più o meno filosofico. Dumézil e Lévi-Strauss fecero una scoperta fondamentale, quando dimostrarono che da un punto di vista strutturale i miti riflettono sistemi di differenze, ma quando osservarono che questi racconti fanno scaturire i sistemi da episodi drammaticamente violenti, li vediamo anche loro evocare la soluzione offerta dalle metafore, che permette di rifugiarsi nel sereno e tranquillo mondo delle idee. Ogni “scabroso” conflitto è solo un modo metaforico per descrivere l’opposizione tra funzioni sociali o concetti differenti.

Due osservazioni. La prima è che le strade continuano a restare profondamente separate, a un livello che non è affatto superficiale. Anche dopo l’epoca di Orlando, Artù e Lancillotto, J. R. R. Tolkien, C. S. Lewis, J. K. Rowling, G. R. R. Martin…, qualsiasi scrittore si sia ispirato sia pure vagamente agli antichi racconti, se anche ha abbandonato i toni tragici dei drammaturghi greci, casualmente nessuno ha rinunciato alla centralità proprio di ciò che tanto imbarazza gli studiosi, il conflitto. E non sono conflitti tra concetti, ma tra soggetti e magari all’interno dello stesso soggetto.

La seconda osservazione è che Dumézil e Lévi-Strauss sono spesso frettolosi nel concludere che i conflitti negli antichi miti sono solo metafore (in La guerra tra Asi e Vani è stato mostrato per un caso specifico come non sia sufficiente confutare lo storicismo, come se fosse l’unica alternativa). Il punto di vista di un filosofo nel corso dei secoli è stato quasi elevato a dogma auto-evidente, quando l’unica cosa evidente è solo il perpetuarsi di un atteggiamento scandalizzato.

Sarebbero tanti i passi da citare per entrambi gli studiosi, ne scegliamo uno emblematico tratto da Le sorti del guerriero di Dumézil, quindi un testo che si presterebbe a prendere seriamente in considerazione il tema in questione. Egli invece dei miti dichiara:


«alcuni sono tratti da fatti e azioni autentici più o meno stilizzati, abbelliti e proposti come esempi da imitare; altri sono finzioni letterarie che incarnano nei vari personaggi i concetti importanti dell’ideologia e trasferiscono nei rapporti tra personaggi i legami tra questi concetti» (G. Dumézil, Le sorti del guerriero, ed. Adelphi, trad. it. di F. Bovoli, p. 21)


Il criterio con cui distinguere i due tipi Dumézil incredibilmente non lo indica (sarebbe auto-evidente?), ma curiosamente viene dichiarato che il rimando ad azioni “autentiche”, cioè reali, è lecito pensarlo solo per quelle positive, degne di essere prese come esempi da imitare.



A questo punto la domanda si impone: ma davvero per studiare i miti, sondare la loro essenza in maniera seria e rigorosa bisogna “espellere” tutto ciò che è drammatico e scabroso?

Incredibilmente il primo pensatore che offre indizi per negarlo è un allievo di Platone. Nella Poetica Aristotele non parla solo di poesia, perché non può non parlare dei suoi argomenti. E nel riabilitare la prima, inevitabilmente offre una possibilità anche a loro (voluto o meno non ha importanza).

È forse una lettura poco ortodossa, ma potrebbe essere ricca di interessanti conseguenze quella che fa interagire due tesi tra loro all’interno del testo. Da una parte la tragedia è un’arte imitativa che deve descrivere nella maniera più verosimile possibile, ma dall’altro «non è possibile alterare i miti tramandati» (Aristotele, Poetica, ed. Einaudi, trad. it. di P. Donini, p. 97).

Naturalmente non è detto che Aristotele abbia ragione, ma poniamo l’ipotesi che effettivamente sia accaduto come lui indica: se ne dedurrebbe che restando aderenti al mito, come fa la tragedia, si esplora la realtà umana. Se ciò non è una coincidenza, significa che accade perché il mito per primo è essenzialmente un’esplorazione di essa. La narrativa lo avrebbe compreso e se il pensiero razionale lo riconoscesse e lo dimostrasse, le due strade si potrebbero finalmente ricongiungere. Il realizzarsi di questa possibilità sarà l’argomento del prossimo articolo.

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