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Il mostro nei miti | Vittime e violenza - Caso 1: i Ciclopi di Omero

  • Immagine del redattore: Gruppo Studi Girard
    Gruppo Studi Girard
  • 36 minuti fa
  • Tempo di lettura: 5 min

Tra tutti i personaggi dei miti il mostro è forse quello su cui oggi più urge una seria riflessione, per il fatto che le prese di posizione sono più contrastanti e problematiche. Da un lato in un’epoca in cui si afferma di non credere più alle narrazioni mitiche, il giornalismo ancora utilizza il termine per descrivere fatti di cronaca particolarmente gravi, quindi per descrivere la realtà empirica e non una qualunque. Dall’altro in un mondo in cui si punta all’inclusività, alcuni vorrebbero che il concetto fosse espulso dalle stesse narrazioni di fantasia.

Ma chi è il mostro nei miti?

Invece che cercare una risposta semplice, che sintetizzi le molteplici casistiche e catarticamente offra la possibilità di assumere una posizione risolutiva nei confronti della questione, vogliamo impegnarci a rendere conto, addentrarci e sviluppare la complessità di questo personaggio, superandone lo scandalo. Per raggiungere questo obiettivo molto ambizioso, ci porremo nello studio dei miti su un piano diacronico, riconoscendo quindi che se si è arrivati a porre il problema oggi è perché c’è stata anche – e forse innanzitutto – un’evoluzione interna a cui sarebbe azzardato non dare importanza.

Già in articoli precedenti ci siamo occupati, sebbene non fosse mai l’argomento principale, di mostri, utilizzando l’approccio girardiano che assume un punto di vista archeologico e decostruisce i racconti per scovarne l’origine e il fondamento nel meccanismo del capro espiatorio. Ma ora vogliamo integrarlo con quello ricoeuriano che assume un punto di vista escatologico ed esplora l’autocoscienza di chi racconta per cogliere quali sono state le tappe fondamentali che hanno portato a quella attuale. Se in un precedente articolo è stata argomentata la complementarietà dei due punti di vista sul piano teoretico, ora dopo ulteriori letture in cui si è verificato con casi concreti (Andersen, Tolkien, Isayama) che alcuni miti sono effettivamente attuali nel senso che mostrano un’autocoscienza radicalmente nuova, si può effettivamente adottare l’approccio ricoeuriano, applicando il suo punto di vista sul piano diacronico.

Non si tratta di convincerci che Tolkien o Isayama abbiano volutamente recuperato elementi di uno come Omero oppure che egli abbia volutamente inaugurato un “movimento letterario” o una “scuola di pensiero”, di cui tutti e tre si riconoscerebbero esponenti. L’ipotesi è quella esattamente contraria: semplicemente tutto ciò che abbiamo trovato di interessante in Tolkien e Isayama, invece che portarci a mettere da parte gli autori precedenti, ci porta a mettere in luce e a far risaltare una serie di elementi, che senza il loro successivo e imprevedibile sviluppo avrebbero potuto rimanere in ombra all’interno delle loro opere; ciò persino in un caso storicamente molto lontano come quello di Omero.

Infatti proprio dal padre della letteratura (mitica) occidentale vogliamo ripartire, approfondendo come primo caso di mostro i suoi Ciclopi.


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In un vecchio articolo già abbiamo analizzato la frase che presentava Polifemo e che subito tradiva come il meccanismo del capro espiatorio fosse il motore nascosto della mostruosità di questo individuo, ma ora vogliamo ampliare la lettura del testo per far emergere cosa è esso stesso a dire a proposito dei suoi personaggi.

Innanzitutto un fattore che gli autori successivi insegnano a non sottovalutare è che in questo mito il mostro non è un soggetto singolare, già pare si parli di Ciclopi come di una “specie”. E con dei tratti caratteristici che non si limitano a essere solo fisici. Eppure ciò non sembra ancora funzionale ad attribuire dignità ai suoi membri, in quanto irriducibili a essere considerati semplici “anomalie” da epurare, dal momento che questa “specie” è descritta unicamente in termini negativi: i Ciclopi né seminano né arano, non hanno né assemblee né leggi (la negazione greca οὔτε ricorre due volte sia nel verso 108 sia nel 112 del IX libro, quasi a scandire il ritmo di quella che sul piano retorico è indubbiamente un’incalzante sequenza di accuse). Si caratterizzano dunque soltanto per essere “in-civili”, oltre che per essere fisicamente rappresentati “meno-mati” di un occhio. La logica sacrificale pare essere ancora padrona di ogni componente della narrazione.


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Passando alla vicenda di Polifemo, essa non lascia spazio al dubbio a proposito del fatto che il mostro è tra tutti i personaggi il perfetto innesco e catalizzatore della violenza. Quella che egli esercita si caratterizza per essere particolarmente “malvagia”: in questo caso non viene rispettato l’ospite (quindi più precisamente empia); ma anche “oscena”: il Ciclope invece che essere un “mangiatore di pane” (nel testo σιτοφάγος), è antropofago. Forse soprattutto il secondo aspetto è in realtà il più distintivo, nella misura in cui il termine “mostro” richiama l’attenzione più al forte impatto visivo che non al concetto di cattiveria. A tal proposito è da sottolineare che in effetti c’è un tratto dei membri di questa “specie” che non li definisce in quanto inferiori agli esseri umani: questi personaggi sono superiori per quanto concerne la stazza fisica.

La violenza che invece mostro subisce si caratterizza per essere giustificata. Eppure la vicenda di Polifemo è particolarmente interessante, perché per ragioni di trama egli non dev’essere eliminato, altrimenti non resterebbe nessuno in grado di spostare il masso che tiene chiuso l’antro. Per uscire da questa storia, Odisseo deve infliggergli una violenza che lo renda incapace di continuare a esercitarla, ma lo tenga in vita.

Ciò apre a una possibilità che sarà poi sviluppata già con tutta la tragedia greca: pur non essendo certo messo in discussione che la violenza sul colpevole della storia è stata giustificata, anche a lui è data possibilità di parlare di sé, non solo in quanto colpevole, ma anche in quanto punito. Il mostro mette in mostra la propria violenza, ma a un certo punto anche quella che subisce.


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Polifemo si rivolge al più bello dei suoi arieti e interpreta il fatto che proprio quello sia l’ultimo a uscire dall’antro, invece che il primo come suo solito, come un segno di dispiacere nei suoi confronti che è stato accecato. Forse ciò viene narrato soltanto per aumentare la suspense, visto che nascosto sotto il vello di quell’ariete c’è proprio Odisseo. Forse lo scopo è soltanto quello di ironizzare nei confronti del Ciclope che fraintende completamente il motivo del comportamento dell’animale. Di fatto però si dà un momento in cui il mostro si mostra non più ostile a tutti, ma alla ricerca di solidarietà da parte di qualcun altro.

Ciò viene ribadito quando Polifemo si rivolge al padre. Lui che inizialmente aveva rivendicato che i Ciclopi non si preoccupano degli dèi, ora si avvale del fatto di essere figlio del dio Poseidone per chiedere a lui di vendicarsi della violenza subita. E quello esaudisce la sua richiesta.

L’episodio con il mostro lungi dall’avere un esito catartico è in realtà quello che mette in cattiva luce anche l’eroe Odisseo, che sarà costretto a un ritorno estremamente travagliato in patria. È proprio l’episodio che mette in mostra gli eterni cicli di vendette.

Molte opere hanno appianato il dramma rendendo invece risolutiva la dipartita del mostro. L’ironia è che altre narrazioni per contro hanno proposto un ribaltamento, mostrando come giustificata e catartica quella del rivale del personaggio mostruoso. Così il circolo vizioso del botta e risposta si è ripresentato sul piano della storia della letteratura. È nella consapevolezza di questa dinamica che pertanto riteniamo che gli autori che hanno segnato una crescita dell’autocoscienza siano coloro che hanno continuato ad affrontare il dramma, sviluppandolo sempre di più.

 
 
 

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