La radicale differenza tra Andersen e la Disney, sostenuta nell’articolo Il mito fagocitato dall’arte, nel riproporre al pubblico moderno e contemporaneo racconti mitici e fiabeschi, trova la più eclatante conferma nella storia della sirenetta. Svolgeremo qui un confronto con l’obiettivo di stabilire non quale delle due versioni sia più “bella”, ma quali siano le logiche di fondo che le strutturano e danno loro significato.
L’inizio di entrambe è in assoluta continuità con tutte le fiabe del mondo, vecchie e moderne: ci vengono presentate tante sorelle e una di loro, la più piccola, si distingue dalle altre.
«Era una bambina strana, molto tranquilla e pensierosa» (H. C. Andersen, Fiabe, Mondadori, Milano 2012, p. 68)
Questo ci dice lo scrittore danese. Ariel della Disney è simile, ma non identica, è “strana”, ma tutt’altro che tranquilla e pensierosa.
È legata a questa la prima differenza fondamentale a livello di trama, visto che solo la versione cinematografica la sviluppa a partire da un conflitto. Il padre di Ariel incarna il divieto – non avere mai contatti con il mondo umano – che la figlia dal carattere esuberante viola costantemente.
È interessante constatare la somiglianza tra le due versioni perché risalta la diversità: anche la protagonista di Andersen è affascinata dal mondo umano, ha la statua di un giovane nel suo giardino e desidera risalire la superficie del mare, ma tutto ciò non provoca alcun conflitto. Anche le altre sorelle infatti sono curiose e man mano che compiono quindici anni risalgono la superficie (nella fiaba la regola dice di aspettare quell’età e la più piccola in questo è ubbidiente). Non sono dunque i suoi interessi a rendere strana la protagonista, ma proprio il fatto di essere così pensierosa. Ciò che la caratterizza è una certa insoddisfazione.
Per questo motivo l’incontro con il principe e il suo salvataggio, pur essendo un episodio pressoché identico nelle due versioni, assume un significato completamente diverso. L’innamoramento diventa l’apice di quanto introdotto in precedenza: in un caso esaspera il conflitto fino al punto di non ritorno, nell’altro enfatizza al massimo l’insoddisfazione che diventa manifesta infelicità.
I due drammi sembrano simili, invece sono completamente diversi. In entrambe le versioni si comincia a parlare di quale esistenza sia migliore, se “in fondo al mare” o “sopra”, ma in quella della Disney è superfluo rispondere all’interrogativo, perché conta esclusivamente il desiderio rivolto all’amato. In Andersen invece il tema dell’innamoramento, legandosi a quello dell’infelicità, allarga lo sguardo sulla finitezza della vita: le sirene vivono molto più a lungo degli uomini, ma non hanno un’anima immortale.
«“Allora io devo morire e diventare schiuma del mare e non sentire più la musica delle onde, o vedere i bei fiori e il sole rosso! Non posso fare proprio nulla per ottenere un’anima immortale?” “No” rispose la vecchia [sua nonna] “Solo se un uomo ti amasse più di suo padre e sua madre, e tu fossi l’unico suo pensiero e il solo oggetto del suo amore, e se un prete mettesse la sua mano nella tua con un giuramento di fedeltà eterna; solo allora la sua anima entrerebbe nel tuo corpo e tu riceveresti parte della felicità degli uomini. Egli ti darebbe un’anima, conservando sempre la propria”» (pp. 77-8).
Apparentemente simili eppure radicalmente differenti, i due drammi conducono a due risoluzioni in cui si osservano all’opera logiche non solo distinte, ma perfettamente opposte.
L’esito disneiano, benché più recente, è tra i più tradizionali. Il conflitto con il padre si risolve grazie al subentrare di uno nuovo, più opportuno.
Che la presenza di Ursula sia necessaria per permettere al padre di riconciliarsi con la figlia è evidente nella scena in cui lui si sacrifica al suo posto per liberarla dalle grinfie della strega del mare. È la logica sacrificale che guida tutte le scelte narrative: a sua volta Tritone viene salvato con l’uccisione di Ursula.
Qualcuno a questo punto dirà: cosa c’è di strano? Tutte le fiabe hanno bisogno della morte dell’antagonista per finire bene. Le antiche narrazioni sono sempre state pronte a giustificare una certa violenza (anche particolarmente brutale) se rivolta ai “cattivi”, ma c’è davvero il bisogno? Andersen, che conosce bene la logica nascosta dietro questo presunto “bisogno” per raggiungere il lieto fine, non si lascia governare da essa.
Abbiamo visto che fin dall’inizio propone un dramma, ma respinge il conflitto: all’infelicità della protagonista non corrisponde un colpevole, né il padre né altri. L’innamoramento introduce una domanda sulla propria esistenza in relazione all’alterità, non una pretesa sulla realtà che soddisfi il proprio desiderio.
Eppure di nuovo abbiamo una scena apparentemente simile: la sirenetta, trasformata in donna dalla strega del mare, rischia di morire perché il suo principe ha deciso di sposare un’altra. In questo caso a offrire la soluzione sacrificale sono le sorelle con la complicità proprio della stessa strega: hanno barattato i loro capelli in cambio di un coltello, con cui la protagonista deve colpire al cuore l’amato per salvarsi e tornare sirena. Lei entra nella stanza degli sposi addormentati e guarda il principe «che in sogno pronunciò il nome della sua sposa; solo lei era nei suoi pensieri, e il coltello tremò nella mano della sirena» (p. 87). Quale tentazione credere che l’amato sia vittima di un sortilegio, che l’altra sia in realtà una “cattiva”!
Andersen ne è consapevole, al punto che sa che proprio quella è la sfida decisiva, quella in cui la tradizione fiabesca e tanta narrativa è da sempre inciampata. Invece la sua versione non avvalla un romantico autismo. La sua sirenetta non cede alla menzogna: getta via il coltello e muore.
Niente lieto fine? In realtà non è tutto finito, perché la protagonista raggiunge le “figlie dell’aria”:
«Se per trecento anni interi continuiamo a fare tutto il bene che possiamo, otteniamo un’anima immortale e possiamo partecipare all’eterna felicità degli uomini» (p. 88)
Ancora un allargare lo sguardo, fino a scorgere un orizzonte completamente nuovo, che introduce la possibilità di una letizia senza fine.
Lo scrittore danese fa tremare le fondamenta su cui si sono sempre costruite le fiabe. Dioniso, cioè il mito, nella figura della sirenetta (1) rinuncia alla conclusione sacrificale e si incammina per la via della redenzione.
(1) L’ipotesi che con questo personaggio Andersen parli di un dramma personale non contrasta con questa lettura, anzi sarebbe una conferma di quanto sostenuto in un altro articolo: le vicende vissute sono state la fonte della profondità di sguardo dello scrittore, che viene trasmessa alle sue fiabe.
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