Nel mondo antico l’arte era pressoché costretta dalle circostanze a mettersi al servizio del mito. In un contesto in cui la religione era il sostrato comune del gruppo umano che si riconosceva come un’unica comunità (secondo alcune teorie era proprio il fondamento originario di essa), era inevitabile che il suo linguaggio e quello dell’arte fossero strettamente intrecciati.
In compenso meno scontato è il fatto che, man mano abbandonata la credenza nei miti, essi non hanno mai smesso di essere materiale apprezzato e fonte d’ispirazione. Il rapporto si è praticamente invertito, nella misura in cui quelle narrazioni si sono messe al servizio dell’arte, che con i propri capolavori ha dato lustro ad alcune in particolare.
Semplice forza dell’abitudine? Sarebbe una considerazione severa e probabilmente in ultima istanza infondata sostenere che l’arte non sarebbe stata capace di rinnovarsi.
Più opportuno è sottolineare che alcuni miti, pur non essendo più oggetto di un credo religioso, si sono conservati molto vivi nell’immaginario popolare. Non serve essere degli esperti per conoscere la storia del tallone di Achille. Se si considera che è vecchia di migliaia di anni, il suo successo come “meme” popolare (per l’argomento cfr. Imitare le imitazioni) è quasi impareggiabile. L’iracondo e prestante Pelide ormai “influencer” millenario quasi non ha rivali.
Da ciò scaturisce una seconda domanda: fagocitando il mito, l’arte si è lasciata influenzare in maniera passiva (della serie: è ciò che mangia) oppure si è appropriata con consapevolezza di quel potenziale espressivo per parlare al suo pubblico con un linguaggio famigliare?
Propendere per la seconda ipotesi sembra facile, invece benché l’intenzione degli autori sia quasi sempre stata quella, ciò non comporta che ci siano sempre riusciti. Sebbene l’idea di arte rimandi a un imporsi del razionale nel dare forma a un materiale, i fatti mostrano che a volte è stata più decisiva una certa incosciente invidia per il successo popolare delle narrazioni mitiche.
L’autore si tradisce per il modo grossolano con cui mette mano al racconto. La sbrigativa voracità dà l’illusione di aver cambiato a propria immagine ciò che si è fagocitato, invece accade l’esatto contrario: esso resta sullo stomaco e piega ai propri schemi.
Nell’articolo Miti per noi, con a tema la tendenza a “ripulire” le narrazioni di una certa scomoda violenza, erano state prese in considerazione le due versioni hollywoodiane più recenti della storia di Eracle (altro millenario “influencer” di grande successo). Altri casi, non solo cinematografici, mostrerebbero un procedimento analogo: il rifiuto di essere complici della brutalità porta verso un’esasperazione tanto grossolana, quanto però subdola, proprio perché si insinua grazie alla cortina di fumo della superficialità col solo scopo di intrattenere, ad abbracciare una visione rozzamente manichea. In un’epoca in cui il mito non deve più giustificare alcun sacrificio rituale-religioso, paradossalmente (ma René Girard in Portando Clausewitz all’estremo non è sprovvisto di spiegazioni) è diventato l’ancora più fanatico invito ad abbracciare la logica sacrificale. È esattamente la radice ultima ciò che l’arte ingenuamente mantiene occultato, invece che denunciarlo: esiste una violenza giusta.
Meno sbrigativa, ma non abbastanza per non tradire una certa invidia come vero motore della produzione artistica, è stata la mossa di insistere pesantemente su una “purificazione morale” del racconto. Il successo di questa tendenza ha radici antiche e si affermò come moda nell’invenzione di fiabe nel contesto della Francia seicentesca. Nel secolo scorso l’incontrastata ascesa dei canoni disneyani l’ha imperiosamente imposta come unica modalità degna per riproporre ancora certe storie nel nostro mondo “buono”. Persistere sulla via dell’occultamento, meglio studiato, ha reso solo più subdolo ciò che comunque in ultima istanza si insinua lo stesso. Mostrare la strega invidiosa di Biancaneve, inseguita dai nani dopo il malvagio delitto, che muore senza essere minimamente sfiorata, è semplicemente l’apice dell’ipocrisia. Infatti fu il preludio di una delle storie più mitiche, in senso girardiano, che siano mai state proposte dall’animazione. L’uccisione di Mufasa da parte dell’invidioso fratello Scar fa precipitare nella crisi più nera la savana, il suo linciaggio ad opera delle perfide iene riporta la prosperità. Tutto questo condannare così grossolanamente l’invidia ne tradisce un’altra: quella per il successo delle condanne (1), di cui proprio certi tra i miti più cruenti erano la documentazione più evidente.
Infine la strategia più astuta di tutte e proprio per questo la più subdola: ironizzare sul “buonismo” discriminatorio dei due precedenti approcci per proporre soltanto un’inversione di ruoli. È la grande “rivoluzione” di Shrek, tanto di facciata quanto apprezzata dal pubblico nauseato da quasi un secolo di imperialismo narrativo della Disney. È stata indubbiamente la più gattopardiana delle trovate: si cambiano le maschere del buono e del cattivo per non cambiare l’happy end costruito sull’eliminazione del secondo. Grazie al tanto appariscente scambio, per un altro ventennio la stessa struttura narrativa di sempre, fondata sull’imprescindibile (per un invidiabile successo garantito) logica sacrificale, ha potuto essere riproposta con rigenerata efficacia agli spettatori convinti di aver assistito a un rinnovamento dei soliti schemi.
Cosa concludere allora? Che aver fagocitato il mito ha avvelenato l’arte, condannandola a non avere altra possibilità che convivere con certi stereotipi?
Questa è esattamente la principale menzogna del cinismo ironico, oggi imperante, passato di moda tentare di dare un aspetto “buono” a certe narrazioni. Quel tentativo, per quanto goffo, almeno intuiva che i miti in quanto linguaggio universale, meme e modelli, performanti il pensiero di tutti, artisti compresi, devono essere salvati dalla violenza di cui sono dipendenti. L’errore era di pensare che il problema fosse solo morale, di evitare un’intossicazione, invece è innanzitutto antropologico, nella misura in cui se quei racconti sono espressioni umane, cioè danno voce a qualcosa di umano, significa che l’umano è già intossicato, già dipendente dalla logica sacrificale. I miti non hanno inventato la violenza: da ciò risulta che cercare di cancellarla da essi, con lo sguardo terrorizzato del personaggio lovecraftiano che scova inquietanti spoglie di un orribile passato non del tutto defunto, non è la vera soluzione al problema, è inevitabilmente fallimentare. Essi la descrivono e di ciò non c’è da aver paura: proprio questo fatto in sé è il primo passo per non esserne più succubi, perché introduce la possibilità di interrogarla, da ciò molte altre.
Quindi il mito fagocitato (a questo punto sarebbe meglio dire: accolto) dall’arte, cioè da un linguaggio elaborato in maniera, almeno parzialmente, sempre consapevole e libera, può essere una speranza. Rende questa possibilità concreta proprio quell’amore per la mimesi (cfr. di nuovo Imitare le imitazioni), che sprona sempre a cercare modelli, sia negativi che positivi, sia nella realtà che nelle rappresentazioni artistiche.
Esistono modi di raccontare che incentivano la riflessione. La straordinaria capacità del Bernini in Apollo e Dafne e Il Ratto di Proserpina di immortalare in un’istantanea il movimento, che invita a “re-stare” a osservare il dramma già in atto, eppure non ancora compiuto, è esattamente un suggerimento a fermarsi a “ri-flettere”.
Esistono modi di raccontare che incentivano la ricerca di una salvezza. Il genio di Andersen non si evince solo dalla sua profonda comprensione della tradizione fiabesca, perché ne allargò lo spettro di possibilità narrative, mettendo in evidenza l’urgenza di indagare vie di uscita dalla logica persecutoria ed esplorando nuove strade. Con la sua semplicità di linguaggio si è inserito in quel condiviso patrimonio di fiabe, diventandone a sua volta parte. Difficile valutare quanto egli sia riuscito a essere “influencer” tra le generazioni successive e forse non è nemmeno così rilevante: egli non ha fatto proselitismo né ha offerto soluzioni definitive, ha dato semplicemente degli spunti, semi che se vengono coltivati, allora possono dare dei frutti.
(1) A questo proposito i recenti casi di autocensura da parte della Disney, lungi dall’essere un cambio di rotta, sono in realtà lo sviluppo successivo del processo avviato fin dagli albori: è esattamente lo stesso atteggiamento con cui sono state riproposte le fiabe quello che ora viene applicato a sé.
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