di Lorenzo Cerani
Il saggio "Ripartire dal desiderio" (1) pubblicato per i tipi Minimum Fax nell'oramai lontano novembre 2020, accese il dibattito sulle principali testate giornalistiche di questo paese in merito all'idea di una rivalorizzazione del desiderio nel suo carattere politico e personale (due corni del dilemma per la Cuter inscindibilmente connessi), scatenando una ridda di recensioni e articoli su riviste sensibili alle tematiche di genere e più in generale dell'emancipazione sociale. Tutto questo ha certamente avuto il merito di portare alla diffusione di argomenti legati al pensiero femminista ad un pubblico molto vasto, certificando qualora ce ne fosse ancora il bisogno, l'attualità di argomenti che sono diventati sempre più la cifra del nostro tempo, oggetto di una "ontologia del presente" (2) di foucaultiana memoria. Il testo è stato salutato come un contributo efficace sulla vexata quaestio del desiderio femminile e dei rapporti di quest'ultimo con la politica, sul tema della sussunzione (per dirla alla Althusser) alla logica del Kapital della sfera dei rapporti intimi e di costruzione della soggettività femminile in linea con i regimi di verità neoliberisti, come un esempio di decostruzione di genere mostrandone i retroscena di produzione sociale, discriminazione razziale ecc.
E' indicativo, a fronte dei molti spunti presenti nel volume in esame, che il phylum del discorso intrecci indifferentemente episodi di vita vissuta che fanno assumere al saggio le sembianze del memoir, con capitoli incentrati sulla Theory più propriamente detta cercando stilisticamente di far procedere il discorso in parallelo con l'esperienza vissuta, radicandolo come in una praxis. In linea con l'ultima ondata femminista denominata intersezionalista, infatti, la Cuter cerca di incastrare i vari assi della discriminazione mappandoli nella realtà sociale che abitiamo allo scopo di riattivare la carica unitamente trasgressiva (rispetto al sistema di differenze socio-simboliche che ingabbiano nel costrutto sociale del genere gli individui e li dotano di maglie strettissime di prescrizioni varie) ed emancipante (nella direzione dell'abolizione del genere che l'autrice auspica possa seguire all'annullamento della classe in un attacco al cielo rivoluzionario generale) del desiderio.
Il desiderio è considerato come la dinamite extrapersonale (che quindi mette in crisi le nozioni metafisiche di soggetto/oggetto) capace di far esplodere le gerarchie sociali vecchie e nuove, la spinta centrifuga dall'ordine simbolico patriarcale in grado di scuotere dalle fondamenta le regole obsolete che autoriproducono quel sistema di rapporti di potere autoritari, la miccia della polveriera rivoluzionaria in grado di prospettare alternative ad un'umanità stanca di self-empowerment capitalistico. Come rifletteva F. Palazzi (3), il desiderio nell'ottica della Cuter assolve una pluralità di funzioni convergenti, smantellando di volta in volta la cultura fallocentrica, demolendo il capitalismo nei suoi aspetti femminilizzanti per la forza lavoro e nel suo pressing al consumo, decostruendo l'essenzialismo del genere a partire da una riconsiderazione in chiave materialistica dei bisogni sessuali, manifestando gli aspetti ineludibilmente conflittuali del desiderare e la sua impossibilità di domesticazione in norme asfittiche e moralistiche, in senso epistemico portando alla luce soggetti oppressi con le loro prospettive invisibilizzate offrendole all'analisi.
Esso rappresenta la crisi dello spettro valoriale di una società orientata ciecamente all'accumulazione economica, incapace di integrare le donne e relegandole in recinti professionali ben precisi destinandole a lavori di cura e mansioni contrassegnate da valutazioni sul loro essere più o meno propense all'accudimento e alle relazioni interpersonali in quanto maggiormente empatiche o sensibili (secondo i diktat culturali allineati rispetto alla produzione sociale della comunità di appartenenza). In breve, desiderare, con echi post-strutturalisti, sembra assomigliare ad un'attività spaesante, che instradando i suoi attori verso un itinere senza meta precisa li costringe ad un processo trasformativo dove sperimentano la precarietà delle costruzioni sociali e si abbandonano vitalisticamente al flusso di esperienze che ne destruttura l'identità preconcetta.
In questo senso, riallacciandosi al discorso marxista, la Cuter intende incorporare la sua rivitalizzazione del concetto di desiderio in una riflessione più generale sulla possibilità di una rivoluzione che annullando sterili contrapposizioni tra generi possa, in analogo allo xenofemminismo esplicitamente evocato nel testo, lasciare libero campo all'espressione del sé di ognuno. Via negationis (perché prescrivere rischierebbe fatalisticamente finire per essere schiacciati da normativismi repressivi), la Cuter pare preconizzare l'alba di un cambiamento sociale a partire da una presa di consapevolezza ottenuta facendo esperienza del materiale esplosivo della forza desiderante che si agita in ciascuno, facendo prendere liberamente corpo a quel nugolo di pulsioni che si agitano sottopelle e indirizzandole ad una socializzazione incurante di regole repressive che troppo spesso e specie nella stagione neoliberal le imbavagliano. Una rivoluzione del sentire, esteticamente concepita come il pendant socialista necessario per strutturare una futura immagine dell'umano all'altezza delle aspettative e in grado di superare, dialettizzandole le manifestazioni retrive della nostra cultura in fatto di sessualità, rapporti di genere e produzione materiale della società. Una rivoluzione del desiderio, potremmo riassumere stringendo il concetto in poche parole, al servizio di un cambiamento dei rapporti di genere (nella cancellazione del gender nella sua valenza storicamente discriminante rimpiazzato con il rigoglio di orientamenti sessuali proteiformi, alieni rispetto all'ordine simbolico binario) e nella liberazione del potenziale energetico di un desiderio altrimenti sacrificato e negletto in forza di rapporti di dominanza.
Per fare un controcanto alla linea argomentativa della Cuter, potremmo riavvolgere il nastro del nostro breve intervento, ritornando alle osservazioni di Palazzi in materia: il punctum dolens consiste nel fatto che le funzionalità del desiderio per l'autrice sono tante e assai variegate.
In particolare Palazzi si sofferma sulla difficoltà di conciliare la prospettiva non tanto politicamente impegnata di un Lacan (il quale parlando del desiderio sulle orme platoniche come di una nostalgia verso un oggetto inafferrabile di cui si vanno cercando surrogati) con le prospettive comuniste dischiuse dalle analisi anche dotte della saggista. Come elaborare una forma di desiderio politicamente connotato che possa fare da volano per l'impegno sociale se questo non punterà mai ad un approdo definitivo, producendo una cattiva infinità senza sbocchi? Palazzi pare suggerire che sia preferibile adottare la prospettiva della schizoanalisi, perché più compatibile col progetto di una società più giusta di là da venire e soprattutto in rottura rispetto al paradigma platonico e poi freudiano del desiderio come mancanza che paralizzerebbe la pensabilità di nuovi assetti sociali.
Ma forse non è nemmeno questo il problema principale per chiunque voglia proporre una concezione materialisticamente fondata tanto della sessualità quanto dell'antropologia filosofica e farne la pietra angolare per una critica sociale in grado di riconsegnare all'uomo alienato le risorse che gli sono state confiscate dagli spiriti animali dell'economia. Forse, più semplicemente, il problema della linea argomentativa della Cuter si situa a valle delle sue considerazioni, ne rappresenta il presupposto inaggirabile, la precondizione che programmaticamente non viene tematizzata nel corso dell'analisi perché troppo ovvia di modo da sfuggire facilmente alla presa della lente d'indagine.
Assumendo la valenza positiva del desiderio contro rappresentazioni della sessualità della donna bollate come sessuofobiche e biopoliticamente repressive (su questo punto la Cuter critica con acrimonia il MeToo in alcune sue sclerotizzazioni rinfacciandogli di non aver saputo integrare alle critiche all'ordine patriarcale alcun progetto comune), la sua dimensione amorale nel senso di essere in spregio alle valutazioni moralistiche più desuete, il suo significato proattivo, il rischio è di scivolare sull'intralcio della sua imprevedibilità.
Accettando la scommessa di desiderare in quanto infrange i legami sociali nel loro carattere cristallizzato rispetto ai regimi veritativi più comuni, per la Cuter (come per Palazzi che nell'articolo sopraccitato finisce per rettificare alcune cose rimanendo d'accordo sul discorso complessivo) l'individuo sarebbe in grado di spingersi oltre rispetto alle forze capitalistiche esperendo forme di disalienazione (non nel senso che si libera in toto dai rapporti di forza ma che è in grado di aprire in quelle maglie rigidissime uno spiraglio per scoprire qualcosa su di sé e sugli altri). Per la Cuter e Palazzi, in definitiva, desiderare diventa sinonimo di esprimere una ribellione o una resistenza funzionale (potenzialmente) al disvelamento delle trame oppressive in un tessuto sociale.
Ma la domanda che entrambi dovrebbero porsi prima di procedere allo smontaggio raffinato dei luoghi della produzione materiale della nostra cultura con le loro logiche di violenza muta e di sovrasfruttaamento della donna e dei generi non abbastanza allineati all'ordine simbolico binario è se il desiderio abbia davvero una dinamica potenzialmente rivoluzionaria come dicono. Per la Cuter, Palazzi o Deleuze, in accordo con una rivalutazione filosofica antimetafisica della materialità dell'esistenza, del corpo concepito alla stregua di Nietzsche come una "grande ragione" (4) censurata dalle credenze religiose ebraico - cristiane non si fa problema del desiderio in sé, non si cerca di recuperarne le logiche sottese (ammesso che ve ne siano di profonde) ma si accetta il dato iniziale (il fatto cioè che si verifichi l'espressione di una pulsione nei suoi effetti sociali) mantenendo in penombra il resto. In altre parole, rimane, forse, non sufficientemente tematizzato il carattere proprio del desiderio, la sua logica, la sua dinamica interna caratteristica.
Per questi ricercatori dovremmo riattivare la carica desiderante del nostro agire, rispolverare la sua cifra di rivolta, puntare ad una concordia almeno sul piano ideale con i nostri desiderata, in aperta opposizione al senso fascistoide della Legge, del Padre lacaniano o di chi per lui. Ma il desiderio così caratterizzato è veramente il desiderio oppure solo il parto di una fantasia troppo spinta, il castello di carta su cui regge una narrazione che mostra la corda nel momento in cui si confronta con l'effettualità del desiderio, con i propri effetti sul piano della realtà sociale? Si può innocentemente desiderare sfruttando la potenza del desiderio come antidoto nei confronti di una società ammantata di leggi che comprimono la libertà di autodeterminazione dei singoli?
Per capirlo forse ci può essere utile richiamare l’attenzione su un volume cospicuo uscito nel lontano '61 per i tipi Plon parigini: stiamo parlando del saggio a metà tra la critica letteraria e la speculazione di antropologia filosofica "Menzogna romantica e verità romanzesca" (5). In questo studio seminale sul fenomeno della mimesis nei suoi agganci con la grande letteratura moderna, R. Girard considerava il desiderio alla luce della pressione imitativa e come attraversato da una tensione che lo conduce progressivamente (attraverso imitazioni successive su altri oggetti che incatenano al modello il soggetto desiderante rendendolo cronicamente insoddisfatto) al bisogno inevaso di una "pienezza d'essere" intensificando quella che girardianamente si definisce una vera e propria "malattia ontologica". Il desiderio, incardinato sull'imitazione di un modello in vista dell'ottenimento di un dato oggetto perché tale modello lo desidera, modello presente o meno che sia (l'imitazione può essere interna o esterna dove per interna non si delimita solo dal punto di vista fisico la distanza tra modello e discepolo che può essere vicina in senso psicologico) conduce per sua stessa natura al conflitto tra modello e discepolo, essendo l'uomo un animale intrinsecamente imitativo e l'ominizzazione dovuta ad un sovrappiù di mimesis rispetto all'animale (6). Il desiderio non ha una sua realtà, non mira ad un oggetto particolare, non può esaudirsi una volta per tutte, non mira a liberarci come per la Cuter: il desiderio è mosso da un'Alterità che, in quanto alter rispetto a me, mi incatena ai suoi desiderata voluti proprio perché lui li vuole. E i desideri sono contagiosi, dacché essendo l'umano imitativo ed essendo l'imitazione il segreto di pulcinella della cultura e dell'apprendimento (vedesi in campo neuroscientifico le acquisizioni dei neuroni specchio) essi portano sempre più persone a scontrarsi per rivalità sugli stessi oggetti del desiderio, frutto del modellarsi degli uni rispetto agli altri inseguendo una pienezza d'essere che si nega sempre.
Più tardi, proseguendo nel solco di queste analisi (7), Girard aggiungerà che il conflitto rivalitario per la sua portata autodistruttiva all'interno del consorzio umano necessiti di interventi periodici di allentamento delle tensioni endogene spiegabili nella storia umana attraverso il ricorso a capri espiatori su cui concentrare la violenza contagiosa effetto delle spinte imitative. Questo perché per Girard, approfondendo le sue analisi degli anni precedenti, l'intera cultura è pervasa di doppi vincoli o double bind in senso batesoniano, ognuno imita e ingiunge all'altro che se ne fa mediatore di non imitarlo, la società è integralmente imbastita di reti imitative a doppio vincolo che portano il singolo da un lato a sentirsi pressato a conformarsi al modello e dall'altro irretito dall'obbligo di non farlo che lo trascina verso di questi. L’unico scampo a questo carattere vittimario delle culture umane sarà per il Girard dalla pubblicazione di “Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo” e proseguendo con gli studi successivi la riscoperta della religione ebraico-cristiana come dispositivo critico capace di desacralizzare la realtà sociale e mostrare l’autentico volto della violenza.
In nessun caso il desiderio lasciato in balia di se stesso porta ad un qualche sbocco positivo, in quanto assecondandone la dinamica esso finisce per consumare le comunità che vi si abbandonano, ingenerando conflitti potenzialmente suicidari, quindi non dialettici come vorrebbero Cuter, Palazzi, ecc. Allo scenario auspicato dall'autrice di "Ripartire dal desiderio", quello cioè di un'umanità riconciliata con se stessa e in grado di superare le differenze arbitrarie e le contrapposizioni di genere sterili in nome di un rinnovato diritto al godimento e all'espansività di sé subentrerebbe il tetro carnaio degli eroi greci dell'"Iliade", che Girard interpreta come lo scannarsi violentissimamente inseguendo per imitazione l'oggetto del desiderio del prestigio militare, kydos (8).
Quando poi la Cuter si fa promotrice di una difesa del desiderio nel suo significato conflittuale, polemologico, finisce per attestarsi tra i romantici, per dirla secondo le linee della teoria mimetica girardiana: nella sua rappresentazione del desiderio quello che più conta è l'afflato di rottura dell'ordine prestabilito, la ricerca di un senso ulteriore che risignifichi una realtà sociale scomoda, la mera pulsione sessuale che entra in rotta con i codici culturali più solidi. Se è pur vero che difendendo la valenza relazionale del desiderio e di come questo rompa il carattere apparentemente sostanzialistico della soggettività senza far valere una concezione dell'io autofondata e solipsistica la sua idea tende a romanticizzare e idealizzare la tensione desiderante, questo cedere all'impulso che agita il nostro io (che però non porta a nulla). Come per le macchine desideranti deleuziane, per Cuter il desiderio è una forza istituente la società, ha una sua capacità produttiva di significato che se abbracciata porta al cambiamento, ma forse la teoria antropologica girardiana ci permette di gettare uno sguardo più critico su questi utopismi riconoscendone l'intimo carattere irrazionalistico.
Una possibile replica a quanto sostenuto fin qui potrebbe essere che staremmo spalleggiando l’ordine patriarcale, agitando il fantasma di un desiderio incoercibile e avente collateralità fatali per il puro gusto di mettere in discussione una riflessione femminista critica, al che risponderemo umilmente che non è nostro interesse smontare una critica in parte perfettamente condivisibile allo sfruttamento di genere e in nome di una maggiore uguaglianza, a patto però di riconsiderare i termini della discussione (oltreché il fatto che è proprio l’uguaglianza o la parità a infuocare il conflitto col venir meno delle differenze a detta della teoria mimetica). In particolare se è vero che annullando la forza rivoluzionaria del desiderio si rischia di fossilizzare il dibattito in una postura neotradizionalista, quella cioè di chi ammette che la società debba difendersi da spinte centrifughe in senso autoimmunitario con deriva tanatologica (per dirla alla Esposito) è altrettanto vero che non sia possibile, forse, fuoriuscire dalle sue dinamiche postulando che il desiderio sia privo di quel carattere inesauribile che porta per ciò stesso alla rovina chi vorrebbe vederlo trionfare liberamente. Forse il nodo sta tutto nell’idea di celebrare “l’apoteosi del desiderio” (9) anziché avvedersi del suo carattere intimamente contraddittorio, del suo saldarsi a modelli di cui prendiamo a prestito i desiderata, per sconfinare assurdamente nel proposito pericolosamente a rischio fallimento di un ritorno improbabile nel giardinetto dell’infanzia dove sia pensabile un godimento senza responsabilità, o peggio, un nichilistico godere per godere (si potrebbe rievocare il rischio di un “amore liquido” baumaniano) in un bagno di solitudine individualistico.
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(1) Cfr. E. Cuter, Ripartire dal desiderio, Minimum Fax, Roma, 2020.
(2) Cfr. I. Kant, M. Foucault, Che cos'è l'illuminismo?, Mimesis, Milano-Udine, 2012.
(3) Cfr. F. Palazzi, Sulle orme del desiderio. Intorno al libro di Elisa Cuter https://www.menelique.com//elisa-cuter/
(4) Cfr. F. W. Nietzsche, Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno (1883-1885), Adelphi, Milano,1965.
(5) Cfr. R. Girard, Menzogna romantica e verità romanzesca. Le mediazioni nel desiderio e nella vita (1961), Bompiani, Milano, 2021.
(6) Cfr. R. Girard, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo (1978), Adelphi, Milano, 2017.
(7) René Girard, La violenza e il sacro (1972), Adelphi, Milano, 2017.
(8) René Girard, op. cit., pp. 212-216.
(9) René Girard, Il risentimento. Lo scacco del desiderio nell’uomo contemporaneo (1996), Cortina, Milano, 1999, p. 95.
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