La relazione di maestria è veramente l'architrave su cui si sorregge l'intero impianto narrativo di Ping Pong. È come se l'energia relazionale che lega tutti i personaggi di questa splendida narrazione avesse come centro segreto un dolore da condividere che immediatamente contribuisce alla costruzione dell'identità del prossimo: come se l'insegnamento, ossia il portare una parola che spinga chi la pronuncia e l'altro alla responsabilità, fosse una moneta in circolazione il cui corso venisse da tutti riconosciuto. Nei passaggi precedenti dell'analisi abbiamo visto come tale relazione di maestria possa emergere anche nel più profondo baratro della mediazione e nel dolore dovuto a competizione e sconfitte, laddove l'evento della differenza altrui si rivela come quell'alterità incoercibile, quell'infinità non riducibile alla totalità del discorso, che, con la sua superiorità, libera dalle maglie dell'orgoglio e del senso di colpa. Ora dovremo mettere propriamente a tema l'attività pedagogica e cercare di fare chiarezza, discriminando concettualmente, tra quelle questioni che, all'occhio esterno, potrebbero apparire parte di uno stesso indeterminato groviglio.
“La generazione dei sensei”
Per prima cosa occorre tenere sempre ben presenti alcuni punti essenziali per leggere nel miglior modo possibile le differenti sfumature che arricchiscono la relazione di maestria qui presa in analisi. In un suo precedente articolo, vade mecum fondamentale per un lavoro esegetico serio sulla società e la narrazione giapponese, Mattia Carbone ha illustrato precisamente quei concetti strutturali che legano desiderio mimetico, soggetto e dinamiche sociali (discorso valido per la contemporaneità ma che ha l'ampiezza della genealogia). Per il presente lavoro riteniamo essenziale ribadire un paio di annotazioni. La preminenza della differenza gerarchica non deve essere intesa come un annichilimento del flusso mimetico del desiderio; al contrario, essa ha valore nella misura in cui viene riconosciuta profondamente la natura mimetica e metafisica del desiderio. La valorizzazione della differenza è essenziale per limitare il rischio di eventuali crisi mimetiche dovute all'eccessiva pressione “orizzontale” della mediazione interna. Sostanzialmente possiamo quindi dire che vi è nella società giapponese una sapiente canalizzazione verticale del desiderio che, oltre ad essere una strategia difensiva per la tenuta di macro e micro-sistemi, produce una certa sensibilità (in un senso propriamente levinassiano) nell'accogliere l'evento della differenza altrui. Non che questa sensibilità elimini totalmente la possibilità dello scandalo, ma è come se patendo il dolore della differenza già s'inscrivesse la possibilità “altra” della maestria come superamento (assolutamente non teleologico) dello scandalo nelle relazioni e in me stesso. Un sapere eminentemente relazionale che non scaturisce da un soggetto che mette a sistema l'altro intenzionalmente, ma che, al contrario, mantiene come centro focale la rivelazione dell'altro: sia essa parola sincera -al limite, volto- che “da fuori” mi appella e ridesta o parola con la quale l'identico interpella l'altro compiendo un passo oltre i cancelli dell'Io, come condivisione di un silenzio e di un dolore che, pur nella loro indeterminazione, esprimono e comunicano il proprio segreto all'altro, l'alterità assoluta del segreto. Reciprocità incommensurabile della parola, della cura, del dono in un double bind che lega indissolubilmente responsabilità per altri e responsabilità per sé, in un dialogo sempre vivo.
Un altro punto che riprendo dall'articolo di Mattia Carbone e che risulta centrale per questo lavoro è la relazione oyabun-kobun nella sua specificità rispetto alla relazione sensei-discepolo. Oyabun-kobun è la forma generale con cui è da intendere la relazione senpai-kohai: senpai è la persona che potrebbe essere definita come un mentore, colui che per anzianità o per talento all'interno di un certo contesto traduce un ruolo simile a quello del genitore che protegge e permette la crescita del suo kohai, la persona che invece si dispone sotto la sua protezione. Tutto ciò non è niente di particolarmente esoterico: manga e anime di contesto scolastico o sportivo strutturano gran parte della tensione drammaturgica intorno a questo tipo di relazioni fra personaggi. Un interessante elemento che lega ulteriormente la figura del senpai a quella del genitore è il fatto che, alle volte, il senpai è propriamente colui che dona concretamente l'origine di un desiderio, di una passione, di un'attività alla persona che, a questo punto, si prometterà a lui come suo kohai. “Ping Pong – The animation” è un testo talmente concentrato sulla questione della maestria, sul passare del tempo come eredità e insegnamento da risultare un'opera che si muove agilmente tra il poetico e il fenomenologico. Tale relazione viene infatti esplorata nelle sue molteplici forme (rivelando così una certa spettralità polisemica della maestria).
Nei precedenti articoli abbiamo analizzato la figura di Manabu Sakuma: la sua vicenda ha drammaticamente evidenziato il dolore, il risentimento, la frustrazione che possono sorgere da un'ossessiva richiesta di amae (come amore passivo, come domanda di un riconoscimento costante) ed insieme da una deriva mimetica del proprio desiderio che si scontra sempre con il proprio limite e quello sancito dall'alterità d'altri (l'altro volto della differenza, infinità che non deve essere imprigionata in un'idealizzazione idolatrica). Accettare la soglia della differenza implica un profondo dolore; il ritiro dalla competizione, il tempo che ricostruisce e ricomprende trasformano Sakuma da insicuro kohai a maestro del suo modello-senpai. Questo ci permette di ribadire un concetto cruciale: maestria è relazione che si dà oltre la struttura. La differenza gerarchica non può quindi contenere i ribaltamenti incalcolabili dell'evento. Il calcolo, la circolazione del simbolico è sempre interrotta e, anzi, acquista il suo senso proprio a partire dal suo risvolto esterno: una reciprocità autenticamente dialogica che entra in risonanza col “fuori”, con l'altro e il suo segreto indefinibile, al modo di un lasciar-essere, dell'ascolto e del rispetto. Al punto da ipotizzare che il vero senpai o (e lo vedremo a breve) il saggio sensei è proprio colui che riconosce la maestria del proprio discepolo: rispondere responsabilmente alla domanda sincera del proprio kohai-discepolo custodisce il più profondo insegnamento sul sé e tale scorcio solo l'altro lo può aprire.
La storia di Kazama, invece, ha testimoniato quale destino di sofferenza e di disillusione possa incontrare un ragazzo che vede svanire tragicamente la promessa di una maestria donata. Il nonno di Kazama, infatti, direttore del liceo Kaio e amministratore della Poseidon, costringe il ragazzo ad irregimentarsi in un sistema da cui dolore ed emozioni devono essere necessariamente escluse per massimizzare i successi in una sorda ricerca della vittoria, totalmente fine a se stessa. Kazama sta per essere cannibalizzato da questa prospettiva auto-sacrificale e solo lo scontro con Peco gli fa riscoprire il senso stesso del gioco: l'abbagliante talento di Peco (autentico <<sfolgorio dell'esteriorità>>), infatti, il suo perenne volo in una trascendenza inviolabile e inappropriabile diviene puro campo di gioco e di condivisione, in grado di restituire il sorriso e la gioia ad un Kazama libero dalle catene, senza più l'ansia di cadere nel baratro. Maestria come rivelazione dunque, come incontro in mezzo alla competizione di due infinità.
Ma qual è concretamente la differenza tra la relazione senpai-kohai e quella tra sensei-discepolo? Riducendola ai minimi termini risulta essere sostanzialmente questa: senpai e kohai, essendo costretti a competere per il medesimo oggetto e addirittura giungere a fronteggiarsi faccia a faccia, si trovano immersi in un regime di mediazione interna (diviene quindi estremamente faticoso lo sforzo etico di un ritiro nella distanza per riscoprire la trascendenza altrui nell'immanenza, la mediazione positiva in tale contesto di pressione mimetica ha quindi propriamente la natura dell'evento); tra sensei e discepolo, al contrario, la definizione gerarchica dei rapporti appare più “giustificata” e dispone la relazione ai confini della mediazione esterna. Siamo ben consapevoli della fragilità di tale frettolosa differenziazione, ma è proprio intorno a questi confini facilmente penetrabili che verrà misurata l'azione della relazione di maestria: mediazione (negativa e positiva), seduzione, trascendenza (deviata e verticale), distanza, responsabilità, solidarietà dialogica sono parole che appartengono a diversi pensatori e che convergono vertiginosamente rendendo estremamente complessa una discriminazione decisiva. Analizzando i personaggi della “generazione dei sensei” potremo quindi sperimentare le forze contraddittorie che animano il cuore di tale relazione. Anche se la risposta misteriosa e ultima sul miracolo della maestria “Ping Pong – The animation” la donerà allo spettatore con la profondità dei due protagonisti: Smile e Peco.
La “generazione dei sensei” si compone di tre personaggi: Butterfly Jo (Koizumi) che è l'allenatore della squadra del liceo Katase le cui punte di diamante sono Smile e Peco, la nonna Tamura che gestisce la palestra di ping pong in cui hanno cominciato a giocare i due amici d'infanzia e Ryu Kazama di cui abbiamo accennato precedentemente. Quest'ultimo personaggio rimane a latere della narrazione. Centrali, invece, sono i primi due, in particolare Butterfly Jo. La “generazione dei sensei” forma una trinità speculare al triangolo corrente tra Smile, Peco e Dragon (Ryuichi Kazama). In effetti, come diverrà esplicito nella parte finale della serie, il triangolo Smile-Peco-Dragon riproduce esattamente il tempo della gioventù degli ormai anziani sensei: una dinamica iterativa feconda perché portatrice della differenza di cui è gravido il tempo. Lo spettatore può infatti apprezzare e ricostruire le dinamiche relazionali che animavano la gioventù di quei personaggi a partire dal portato di maestria che riverbera sulla generazione presente: un meccanismo drammaturgico oltremodo efficace in quanto le discontinuità, i rivolgimenti e le rivelazioni nel presente narrativo acquistano una potenza ancor più evocativa.
Già dal primo episodio inizia quel movimento tensivo verso l'altro, vero spirito della maestria. Koizumi nella totale anonimia della palestra in cui allena nota per la prima volta Smile e con qualche domanda intuisce l'unicità del rapporto d'amicizia che ha con Peco ed insieme la ragione del gioco totalmente passivo del ragazzo occhialuto. Tamura, invece, fingendo un certo distacco, già da subito rimprovera la superbia del gioco di Peco, la sua arroganza nello schiacciare il più debole col proprio immenso talento. Troviamo quindi come apertura originaria del sensei verso i rispettivi allievi-discepoli una elezione di cura immediata che non è assolutamente neutra, anzi concede un margine alla seduzione e all'erotico, e che non è esente, come vedremo, da ragioni biografiche. Ma è nell'episodio 2 che Koizumi inizia il suo percorso di sensei con Smile: <<non andare, Mister Tsukimoto, non andare più da Tamura. E non giocare più contro Hoshino [Peco] – Non vedo perché non dovrei farlo – Perché quando giochi contro Hoshino non ti impegni – Non è così – Allora lo fai inconsciamente>>. La parola di Koizumi risuona chiara all'orecchio di Smile ma è nel silenzio, che ancora deve affiorare, che si cela tutto il peso del suo dolore. Smile è una strana creazione mimetica: la crisi di Smile, infatti, la ragione della sua infermità emotiva, non è dovuta ad un surplus mimetico, ad un amae frustrato, ad un desiderio del desiderio dell'altro; al contrario, il suo blocco deriva dall'assenza di mediazione, è il suo maestro che lo ha abbandonato de-responsabilizzandosi, perdendo così la capacità responsiva di un tempo, togliendo smalto al suo luminoso talento. Era quella relazione che donava senso.
Koizumi, ovviamente, può solo presagire la profondità della crisi del ragazzo. Non rinuncia, tuttavia, all'ascolto dell'appello silenzioso che da tempo Smile soffoca in sé a causa della piena fiducia in Peco. Il tempo di questa attesa è infatti estremamente rischioso e occorre continuare a costruire se non si vuole vedere l'ancora fragile edificio spazzato via dalle intemperie. <<Mister Tsukimoto, a partire da domani ti allenerai con me ogni mattina alle 5. Ti manca la voglia di vincere, ed è un weak point che va corretto prima dell'inizio del campionato... E' una proposta di matrimonio la mia! - Non verrò mai a quell'ora del mattino! - No problem, sono un maritino devoto io!>>. Sono sufficienti questi iniziali scambi di battute per apprezzare tutto un certo lavorio dei concetti che si stratificano intorno alla questione della maestria: notiamo, in primo luogo, l'esigenza di generare una separazione, forzarla per far tralucere la distanza. Distanza da chi? Ovviamente dal modello originario. Smile deve allontanarsi da Peco per far sì che la sua alterità non inizi a diventare un idolo soffocante: solo la distanza può restituire l'apertura sulla differenza. Non solo, la separazione è anche clausola imprescindibile per ciò che Lévinas definisce nei suoi primi testi (Il tempo e l'altro, Dall'esistenza all'esistente) <<ipostasi dell'Io>> e che in Totalità e Infinito verrà tematizzato come ateismo originario dell'Io. Nella prospettiva di Lévinas, infatti, è solo la ricchezza di un Io che gode di se stesso che può riaprirsi come Desiderio metafisico verso l'alterità, un Desiderio che dona all'altro la propria pienezza, Bontà. Martin Buber in un piccolo quanto prezioso testo dal titolo Sull'educativo parla del bambino come di un <<evento di creazione>>, apparizione della singolarità portatrice di una potenza originaria.
Compito dell'educazione dovrà allora configurarsi come una responsabilità assoluta di difesa e cura della novità portata dalla potenza creatrice (dal talento, dal segreto) del singolo. - (Utilizzo il discorso di Buber per un'analisi più generale, tesa all'etico e al metafisico, rispetto al campo pedagogico cui sembra essere rivolta) -
* N.B. : per la bibliografia completa e le pagine citate rimando al pdf che unisce in un solo saggio i tre articoli in cui è diviso lo studio
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