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Immagine del redattoreGruppo Studi Girard

Alfred Borden e Bruce Wayne di Nolan | Prestigio, teatralità e inganno

Aggiornamento: 22 ago 2023



L’invito a “non smarrire la strada”, con cui abbiamo concluso il commento di Insomnia, Nolan sa già che verrà interpretato idealisticamente; Girard direbbe: “romanticamente”. È quasi scontato. La oggi imperante concezione individualistica del soggetto come per magia fa sparire l’importanza della relazione modello-discepolo, di cui l’intero film parla, per suggerire che è in virtù della propria caparbia abnegazione, imponendosi un rigido ascetismo e affermandosi come monade incorruttibile, che si riuscirà a non smarrirsi. L’invito è riportato all’ideale superomista, troppo consolidato per non assorbire in sé qualsiasi visione non pessimistica, come se fosse l’unica alternativa.

Ecco, dunque, che Nolan torna alla carica, per certi versi ancora più feroce di quanto non fosse con Memento. In quel film lui era semplicemente e abbastanza esplicitamente decostruttivo (cfr. commento). Con Batman e The Prestige, invece, quella sua civetteria, che lo spinge sempre ad essere criptico, raggiunge un nuovo livello di raffinatezza strategica. Nolan arriva a fingere di abbracciare l’ideale superomista, così dittatoriale da appropriarsi del suo invito, lo lusinga, per farsi beffe della sua inconsistenza alle sue spalle.

Sparge scaltramente le tracce della sua decostruzione in modo tale che alla prima visione dei film siano praticamente invisibili. Sembra di assistere davvero all’elogio dello sforzo eroico del soggetto di costituirsi da sé, con le sue sole forze. E non è detto che rivedendoli l’impressione cambi. Spesso si è inevitabilmente spinti a porsi certe domande, ci si accorge che c’è qualcosa che non quadra, ma poi si cerca di rispondere in conformità alla “normale” concezione delle cose.

«Ora voi state cercando il segreto. Ma non lo troverete, perché in realtà non state davvero guardando. Voi non volete saperlo. Voi volete essere ingannati»

Ma se per caso si riesce a cogliere tutto l’insieme di tasselli, che compongono ben altro puzzle, di colpo l’apparente apprezzamento dell’ideale superomistico cede il posto alla più severa delle critiche.



Alfred Borden e Bruce Wayne di Nolan hanno alcuni interessanti elementi in comune. All’inizio delle vicende sono soggetti visibilmente incompiuti. Il primo è insoddisfatto e critico del lavoro degli altri, il secondo è uno sfrontato adolescente che parla di demolire la casa dei suoi, vuole vendicare con una pistola la morte dei genitori, a Rachel dice che forse dovrebbe ringraziare Falcone per aver ucciso il loro assassino…

Poi l’incontro con un modello. Ma in entrambi i casi l’unico messaggio che passa è proprio un invito alla più chiusa abnegazione. Alfred Borden mostra per la prima volta ammirazione per qualcuno, quando vede un mago cinese che passa l’intera vita a fingersi storpio per poter ingannare il pubblico con il suo numero di magia. Bruce Wayne incontra Ra’s al Ghul. Curiosamente pochi si sono insospettiti del fatto che il supereroe Batman è addestrato proprio dal cattivo, caso più unico che raro, quanto meno nelle trasposizioni cinematografiche, e di fatto invenzione del regista.

Da quel momento i due sviluppi delle storie presentano una duplice lettura. Una è quella “romantica”, in cui il soggetto si compie grazie al suo sforzo titanico di perseguire la propria strada a costo di dover accettare dei sacrifici. Alfred Borden e Batman alla fine escono vincitori dallo scontro con i loro rivali, un po’ ammaccati, ma vincitori. Questa lettura ha un solo (ma abissale) punto debole: non è minimamente capace di spiegare l’incredibile escalation, che in entrambi casi raggiunge livelli di ferocia inauditi, rivelando insistentemente una profonda vulnerabilità del soggetto così costituito.

La lettura, che potremmo girardianamente chiamare “romanzesca”, invece, ne è perfettamente in grado. L’ostinata negazione di rapporti mimetici con gli altri moltiplica, al posto di diminuire, le occasioni di scandalose intrusioni nella propria esistenza.

In The Prestige assistiamo a uno scontro, che degenera in un’esasperata proliferazione della tema del doppio mimetico in tutte le sue forme. Alfred Borden, desideroso di diventare il miglior mago del mondo, è ossessionato dal suo straordinario numero di magia, in realtà semplicemente basato sul continuo scambio di vite e di ruoli tra lui e il suo doppio-sosia. Robert Angier, desideroso di vendicarsi per la morte della moglie, è ossessionato dal suo doppio-rivale, che è Alfred, ma si lascia inconsapevolmente contagiare dall’idea del nemico che lui sia troppo straordinario, al punto da cadere nel suo inganno e rifiutarsi di accettare l’esistenza di un comune sosia dietro il grande numero: “troppo semplice”. Si sente sminuito, quando si arrende ad accettarne lui uno per competere con il rivale, invece è proprio in quel momento che lo imita di più, senza nemmeno accorgersene. Alla fine Robert si spingerà alla massima follia, quando per sconfiggere Alfred produrrà egli stesso fisicamente dei doppi di sé, estremizzando al massimo la logica sacrificale.

Quanto alla trilogia del Cavaliere Oscuro, abbiamo approfondito altrove (cfr. commenti al primo film, al secondo e al terzo) tutto lo sviluppo in ultima istanza mimetico delle rivalità, che si susseguono una dopo l’altra.



Ma allora la domanda è: come può il soggetto sembrare così forte e al tempo stesso essere così esposto alla rivalità mimetica con l’altro? Il segreto sta nel cogliere in cosa consista realmente questa presunta forza che lo costituirebbe.

Il termine “prestige” è emblematico. Come il corrispettivo italiano ha un doppio significato: indica sia il gioco di “prestigio” sia il “prestigio” di un soggetto. Alfred e Robert ingaggiano una gara a chi riesce a produrre il miglior “prestigio” (primo significato), perché da ciò dipende il loro di “prestigio” (secondo significato). Nel primo personaggio si ha addirittura una vera e propria fusione dei due significati, nella misura in cui il “prestigio” (primo significato) comporta un continuo scambio con l’altro del “prestigio” (secondo significato) del ruolo di “Professore”. Di fatto la posta in palio è tutta qui: pura apparenza, ma capace di suscitare quell’effetto sul pubblico di cui parla Robert appena prima di morire. Il soggetto non trova nessuna reale consistenza, ma si appaga dell’illusione efficace di averla.

Non è un caso che Nolan realizzi The Prestige negli stessi anni in cui lavora su Batman. L’ideologia superomista ci sprona a credere a tutti i costi che l’eroe mascherato sia più “vero” di gente come Alfred Borden, ma in realtà lo stesso meccanismo è semplicemente riproposto al di fuori del contesto riconoscibile di un teatro. Batman “volteggia e corre sui tetti di Gotham” per imporsi come simbolo, essere più che un uomo agli occhi degli altri, con gli unici strumenti che un maestro, di cui guarda caso nemmeno conosceva la vera identità, gli ha insegnato: teatralità e inganno. La sua difficoltà nell'instaurare una relazione autentica con la donna amata, Rachel, ha tratti chiaramente analoghi a quella che si riscontra in The Prestige. La sua consistenza come soggetto è legittimamente paragonabile a quella di un prestigiatore.

L’ironia decostruttiva di Nolan raggiunge l’apice con l’ultimo doppio-rivale del Cavaliere Oscuro: Bane. Dell’intera trilogia è il personaggio che più di tutti giganteggia davanti alla telecamera, imponente, carismatico, granitico. Eppure proprio lui, nella prima battuta in cui si rivela al pubblico, tolto il cappuccio, dichiara:

«Non interessavo a nessuno, finché non ho messo la maschera»

Ecco su cosa si fonda tutta la sua consistenza nel film: è solo una messinscena. Bane rompe la cosiddetta “quarta parete” con finezza, senza darlo a vedere, secondo lo stile del suo regista, che ci lascia nella prima scena un indizio sul senso della fine del cattivo, più di due ore dopo, quando probabilmente ce lo saremo dimenticato.

Durante scontro conclusivo Batman colpisce la maschera di Bane e lui è come se si dissolvesse. Stampa dei gran pugni, ma non riesce più a giganteggiare. Talia gli rimette a posto la maschera, ma ormai il “trucco” è svelato e lui è ridotto a un comune cattivo senza più alcun carisma. Vuole uccidere Batman prima che la bomba esploda solo per il rancore provocato dall’umiliazione subita (rivelando “sbadatamente” quanto sia profonda). Catwoman gli spara e la telecamera non si spreca nemmeno a indugiare su di lui, come se fosse morto un personaggio minore. Decostruita l’efficacia della maschera, il soggetto costituitosi con la teatralità e l’inganno non vale più nulla.



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