«Fatti, non ricordi» (Leonard Shelby)
Se in Following sono già espressi i propositi di una problematizzazione e una decostruzione del concetto di soggetto attraverso un rimescolamento, un’indifferenziazione della sequenza temporale degli eventi, in Memento (2000) l’idea è portata all’estremo. Ridurre questo film a un semplice discorso sul tema della vendetta significa essere estremamente parziali. Il punto da cui partire è l’esplosione del soggetto e della sua temporalità. Nolan produce una vera e propria polverizzazione di quelle che dovrebbero essere pure e incorruttibili condizioni di possibilità di una narrazione artistica.
Nelle prime scene lusinga il filosofo fenomenologo. Il film sembra avere il nobile intento intellettuale di decostruire dei trascendentali per far emergere una serie di strutture che le precedono. Leonard Shelby non può far affidamento alla propria memoria, ma poco male. A Teddy spiega che la vera conoscenza si fonda sull’immagine e la scrittura.
Nei ricordi intervengono troppe componenti psicologiche, pronte a modificarli e reinterpretarli. I ricordi sono soggettivi. L’immagine fotografica, invece, fissa l’accadimento. La scrittura lo definisce in maniera risolutoria. Ecco, allora, qualcosa di oggettivo. Ecco dei fatti.
«Ci vuole metodo», ripete orgogliosamente Leonard. Proprio un bravo rigorista-filosofo. La prima parte del film sembra rendergli merito. C’è l’obiettivo che lo motiva ed è la vendetta contro il misterioso John G. che ha stuprato e ucciso la moglie, ma il punto è che qui il soggetto sembra riuscire a costituirsi, nonostante la massima difficoltà. Grazie soprattutto a quelle scritte indelebili sulla sua stessa pelle. La scrittura prende carne e il soggetto trova corpo. Non sembra poi esserci tutto questo bisogno di un’impalpabile temporalità.
«Sei un patetico mostro. Posso dire quel cazzo mi pare… Tu te ne scorderai… e saremo grandi amici… o forse addirittura amanti» (Natalie)
Invece anche questa volta il film si sta facendo beffe di noi. Le immagini, la scrittura lusingano il nostro spirito rigorista-filosofico, ma la triste verità è che possono essere manipolate come qualsiasi altra cosa. Non sono loro la vera soluzione alla crisi del soggetto in atto. Nemmeno loro sono condizioni sufficienti per costituirlo.
Ci eravamo illusi che questo fosse un protagonista vero. Invece ora ci appare ancora più in balia degli altri e della trama degli eventi rispetto a quello di Following, non avendone la minima consapevolezza. Lui sa solo chi era, ma non chi è adesso, osserva correttamente Teddy.
Da un certo momento del film in poi assistiamo alla dissoluzione totale della sua credibilità come soggetto. È polverizzato. I suoi metodi, i suoi tentativi di contrastare il proprio annichilimento al cospetto dei vari tentativi di manipolarlo ci appaiono ora goffi o arroganti.
È, dunque, questa la conclusione di tutta la decostruzione? Una semplice constatazione che il soggetto è in ultima istanza senza scampo, non ha vie d’uscita?
Ma Nolan dopo aver smontato i tentativi rigoristici-filosofici di immaginare la sua costituzione, dopo averlo gettato nella crisi più profonda, alla fine si fa beffe anche dell’ultima soluzione intellettualista che resta, il nichilismo. Proprio nel finale in cui sembra più dichiarato che esistono solo interpretazioni e prospettive, ci viene sbattuto davanti agli occhi un fatto.
Adesso possiamo finalmente parlare della vendetta. Adesso siamo pronti ad affrontare seriamente il tema.
«Il mondo è pieno di John G. da trovare» (Teddy)
Pensavamo che l’elemento tragico fosse dato dal fallimento anche di Leonard Shelby, che vorrebbe essere un soggetto, ma non lo sarebbe. Ci sbagliavamo. Nel finale dimostra di essere davvero il protagonista della storia, ancora più manipolatore degli altri della propria storia. Questo, lungi dal rasserenarci, ci mette di fronte a uno scandalo ben più tragico.
La vendetta qui finge soltanto di essere l’intellettuale obiettivo di un individuo, che cerca grazie ad essa di organizzare la propria esistenza e prova a costituirsi a partire dal “pensiero” di essa. Un anticipato evento futuro, connesso all’ultimo ricordo del passato e in mezzo la difficoltà di percepire il tempo. Se ad agire fosse solo il pensiero, esisterebbero solo le sue interpretazioni. Invece tutto ciò è solo la finzione attraverso cui si cela, nella dimenticanza, il reale motore che già sin dall’inizio ha fondato e costituito quel soggetto concreto capace di mettere in atto tutta la messinscena: il meccanismo del capro espiatorio.
Una violenza già compiuta nei confronti di una vittima, la cui vera colpevolezza è irrilevante, e sempre ritualmente da rinnovare è ciò apre quello spazio all’interno del quale al soggetto pensante è data la possibilità di agire: fissare immagini, incidere segni grafici, stabilire obiettivi da raggiungere, interpretare, creare il bisogno di ricordare, che è solo l’altra faccia di una dimenticanza, la quale non si presenta come una necessità, solo perché è già sempre avvenuta. In una parola produrre cultura (e arte) e sé come protagonista di essa.
Nolan non è certo il primo a scoprire l’esistenza del meccanismo sacrificale e a parlarne. Nell’ambito del cinema c’è chi ne ha sfruttato il potere catartico in contesti particolarmente espliciti, come quello degli antichi giochi gladiatorii (cfr. il commento a Il gladiatore), o chi invece ne ha denunciato l'invadenza in contesti particolarmente cannibaleschi, come quello della moda (cfr. il commento a The neon demon), ma ci sia concesso di sostenere che la decostruzione portata all’estremo in questo film permette di sottoporci la questione a un livello di problematicità con pochi precedenti. Qui è preso di mira il soggetto in quanto tale, si potrebbe dire l’io nella forma più pura, l’io trascendentale, la nostra interiorità e il fondamento ultimo di tutta la nostra cultura.
E lo scandalo più grande è soprattutto un altro: l’efficacia. Si tende a deplorare il meccanismo del capro espiatorio solo nella misura in cui produce effetti nefasti. Nolan, invece, come René Girard sul piano teorico, ci costringe a constatare ciò che è più difficile ammettere: la sua straordinaria forza generatrice. Non solo il suo soggetto, ma il film stesso si costituisce intorno ad esso. È il suo inizio, la sua fine, la fonte dei suoi colori.
Ma non ne è succube. Questa non è una di quelle narrazioni che si compiace di sfruttare con complice astuzia il suo potenziale catartico a proprio vantaggio. Questo è un film che confessa apertamente la propria colpa.
Si espone alla condanna pur di offrirci un ammonimento. È relativamente facile condannare la violenza nella misura in cui fallisce nella sua pretesa di essere realmente fondativa. Infatti si tende a fingere che sia sempre così. Ma se misconoscere non è più ammesso, la vera sfida è decidere di rinunciarvi quando, invece, lo sarebbe.
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