Il desiderio mimetico, nelle sue modalità più estreme (mediazione interna), conduce alla follia. La follia è in genere preceduta da una fase di sdoppiamento della personalità. Il soggetto desiderante, sotto l'azione scismatica del desiderio mimetico, si sdoppia in osservatore e osservato, cioè in un giudice desiderante, allettato dal desiderio d'altri, e un imputato accusato di insufficienza rispetto al desiderio di cui è stato investito. Un'altra modalità del doppio è quella per cui il mediatore/rivale, nella doppia mediazione, diviene tanto simile al soggetto desiderante che la misura della loro differenza è persa, e si verifica una commistione psicotica tra gli io dei due attori del triangolo.
Già all'inizio della battaglia, poco dopo essere uscito dall'appartamento dove si svolgeva la festa, il protagonista si meraviglia perché si era figurato "che, portato fuori dalla società, il conoscente sarebbe impazzito dalla gioia"; è invece lui, il protagonista, a gioire per il fatto di essersi sottratto agli sguardi scandalosi degli altri invitati, disattivando così la forza mimetica del desiderio del mediatore, come abbiamo visto sopra. Ma la percezione di una doppia mediazione in atto favorisce la perdita della differenza egoica tra mediatore e mediato, così che il conoscente si costituisce come doppio del protagonista, e i pensieri dell'uno si confondono con quelli (immaginati) dell'altro. Derealizzazione e delirio vanno a braccetto. "Si delira sempre in due", dice Girard in un saggio molto importante per il nostro lavoro, dove il nostro si confronta con l'Anti-Edipo di Deleuze e Guattari. Perché è il desiderio dell'altro, scandaloso e irrealizzabile nella sua pienezza demoniaca, a condurre gli uomini alla follia, alla non-coincidenza di sé con sé. Così avviene anche per il nostro protagonista.
È a questo punto che il protagonista si accorge di una "terza possibilità di perire", ossia di una terza via di fuga dallo scandalo del desiderio del mediatore. "Non ero costretto a farmi pugnalare", ovvero a subire il rifiuto del mediatore, come abbiamo visto, "né a scappar via", ovvero a far precedere il rifiuto del mediatore da un rifiuto del protagonista, che preservi la primazia orgogliosa. "Potevo semplicemente sollevarmi in aria"!
Follia pura: librarsi libero nell'aria, come spettro incorporeo, abbandonare il campo di battaglia chiamandosi fuori dalla contesa nel delirio, annichilendo la rivalità e il campo di battaglia stesso attraverso la derealizzazione del reale. È la strada che il protagonista sceglierà di percorrere.
Seguono un ultimo moto di protesta, dopo l'ennesima allusione del mediatore ai suoi affari di donne, che rilancia la rivalità ("Fuori le storie! Non voglio sentire più nulla a pezzi e bocconi. Mi racconti tutto dal principio alla fine"); un'ultima umiliazione volontaria ("Non c'è bisogno che abbia paura di me, è veramente superfluo"); e un'ultima razionalizzazione ("La sua fortuna sta tutta in una ragazza e non è neanche sicuro che essa porti un abito bianco"). Poi il delirio: il protagonista si chiama fuori. Monta in spalla al conoscente, si libra sopra il terreno, dialoga con gli alberi e gli astri. Completa derealizzazione. Si fugge in una specie di foresta, dove il protagonista incontra un uomo mostruosamente grasso in portantina. Il conoscente, pietra dello scandalo, è prima ridotto a cavalcatura muta e stolida, poi abolito per tutta la durata del delirio. L'esito della doppia mediazione è appunto il delirio, ma sempre attraverso il fenomeno del doppio, ovvero la perdita di differenza tra soggetto desiderante e mediatore, tra maestro e allievo, tra rivale e rivale. Nel racconto del giovane Kafka tuttavia il delirio è piuttosto perseguito che subito, è una via di fuga intrapresa a scapito di uno scacco reiterato: è "il modo migliore di proteggerti". Qui si potrebbe discutere su uno scarto rispetto a quello che potremmo definire il realismo psicologico del racconto, pienamente realizzato fino a questo punto, a favore di un abbozzo di "teoria della fuga" che prefigura i grandi racconti della maturità. Il protagonista diviene qui un teorico della terza via, della salvezza dal desiderio mimetico orchestrata attraverso la raccomandazione pragmatica: "lascialo dire e divertiti a modo tuo"; cioè, fanne letteratura? L'unico divertimento autentico, in senso etimologico, che la vita concesse a Kafka?
Quello della fuga è un tema cruciale nell'opera di Kafka: Deleuze e Guattari ne hanno parlato con dovizia, associandolo non a caso a un desiderio in qualche modo compromesso. Alla luce della natura manifestamente mimetica del desiderio del giovane Kafka, è possibile aprire nuovi spazi di lettura per le opere della maturità.
Addormentatosi, il protagonista si frega le mani per la gioia di non dover ascoltare le parole di una voce lontana, che è con tutta probabilità quella del conoscente. Nel delirio allucinatorio, egli è libero dai demoni-mediatori che lo tormentavano – dei quali si può davvero credere che il conoscente non fosse che l'ultimo e più lancinante esemplare. Il luogo del delirio è "bello e", soprattutto, "solitario: non ci vuol molto coraggio per viverci", liberi dal confronto mimetico con gli altri. "Qui infatti ci sono soltanto monti e un grande fiume e io sono ancora abbastanza intelligente da considerarli inanimati". Il delirio, in altri termini, non è subìto fino alle sue estreme conseguenze, fino al completo disorientamento del soggetto nel brodo di significazione panica che il mondo esterno rappresenta per lo psicotico – sarebbe interessante studiare in che misura la sintomatologia tipica della psicosi è presente nei personaggi di questo racconto. Ancora una volta sembra delinearsi un progetto di fuga controllata nel delirio; progetto il cui effetto collaterale più manifesto – e forse necessario – è la spersonalizzazione, o meglio la disumanazione del protagonista. "Quando la sera inciamperò da solo sulle salite attraverso i prati, non sarò abbandonato più del monte", non sarò, cioè, più umano di un monte nel subire le conseguenze dell'abbandono d'altri, "salvo che me ne accorgerò", a differenza del monte. "Ma anche questo passerà": verrà cioè il momento in cui l'ultimo sintomo d'umanità, l'autocoscienza, abbandonerà il protagonista, che potrà quindi accedere alla piena disumanazione. Anche in questo movimento estremo possiamo riconoscere una prefigurazione dei vari divenir-animale e divenir-macchina dei racconti della maturità. Disumanazione come extrema ratio di fuga e salvezza dal desiderio mimetico: un possibile filo rosso per tutta la narrativa kafkiana?
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