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Descrizione di una battaglia - Round 4 | Il grassone, l'orante e la soluzione finale

Aggiornamento: 6 mar 2020





Particolarmente importanti per la nostra analisi della "Descrizione" sono gli incontri con due personaggi che appaiono al protagonista nel delirio: il grassone e l'orante, di cui diremo separatamente.

Il grassone è a parere di chi scrive figura – o meglio, doppio – del protagonista stesso: creatura inabile alla soddisfazione del desiderio perché costretta in lettiga, "l'espressione ingenua di chi riflette e non cerca di nasconderlo". Doppio esegetico, se si vuole: non rivale concreto ma figura simbolica, come si conviene al regime onirico del racconto. Ecco cosa dice, rivolgendosi al monte che qui appare manifestamente come travestimento dell'istanza del mediatore: "Monte, non ti voglio bene perché mi fai pensare alle nuvole, al rosso del tramonto e al cielo che sale", ovvero mi medii il desiderio di queste cose, "che quasi mi fanno piangere perché non si possono raggiungere quando ci si fa portare in una piccola lettiga". Scandalo dell'irrealizzabilità del desiderio per insufficienza d'essere del soggetto desiderante: era la situazione del protagonista in rapporto al conoscente. Ne consegue il classico risentimento: "Ecco che non ti amo, monte in riva all'acqua, no, non ti amo".

Ulteriore conferma della coincidenza simbolica tra monte e mediatore è la frase seguente: "Questo discorso", ovvero l'accusa al monte che si è trascritta sopra, "gli sarebbe indifferente [...] se non parlassi ad occhi aperti. Altrimenti non è contento". Il monte, mediatore di desiderio e scandalo, vuole che il grassone, soggetto desiderante scandalizzato, tenga gli occhi ben aperti sugli oggetti del desiderio a lui suggeriti; alimentando in questo modo il desiderio stesso del mediatore, come si è visto nella prima parte del racconto. Il conoscente desiderava vedere il desiderio del protagonista per le donne allo stesso modo in cui il monte desidera che gli occhi del grassone scandalizzato restino aperti sopra la posta comune del desiderio. Antropizzazione del monte – proprio quello stadio terminale del delirio che il protagonista paventava, e che qui vediamo compiersi nel doppio-grassone.

Ostaggio del desiderio del suo mediatore, il grassone è costretto a ripetere "dieci volte" l'elogio del monte e del fiume e del cespuglio e di tutto quanto, nel paesaggio del delirio, assume la figura del mediatore succedaneo. Moltiplicazione dei mediatori. "Adesso però, ve ne prego, monte, fiore, erba, cespugli e fiume, concedetemi un po' di spazio affinché possa respirare"!

Il grassone e i portatori, sopraffatti dall'acqua del fiume che cercavano di guadare, sono annichiliti e annegati. Prima di sparire, il grassone dilata inverosimilmente lo spazio della narrazione e racconta al protagonista, spettatore di quella morte quasi rituale, la sua relazione con l'orante, secondo personaggio-chiave di questo mondo onirico di fuga, e alcune storie che l'orante raccontò al grassone.


L'orante è una particolare specie di devoto, che il grassone vede spesso in una chiesa che frequenta. L'orante sbatte rumorosamente la testa sul pavimento dell'edificio sacro, dopo aver girato "intorno gli occhi per vedere se fossero in molti a guardarlo". Il grassone è scandalizzato dal comportamento dell'orante, perché ne riconosce la matrice mimetica: prega sbattendo rumorosamente la testa per terra affinché tutti lo guardino e lo ammirino nella sua devozione; egli ambisce insomma a costituirsi mediatore per i devoti della chiesa, facendo spettacolo del proprio desiderio alla stessa maniera del conoscente della prima parte del racconto. È l'inizio di una seconda battaglia, gemella della prima, tra grassone e orante.

Il grassone si premura di ricordare al lettore che "il dovere di parlargli", all'orante, "non c'era affatto", così come il protagonista non era obbligato a seguire il conoscente nella passeggiata notturna. Peccato che in realtà questo bisogno esista, perché la mediazione tra i due è attiva! L'orante attira il grassone perché quest'ultimo vede in lui una figura del modo del proprio desiderio. Anche il grassone, infatti, ci ha parlato dello scandalo subito dal desiderio del monte – un collegamento oggettivamente debole, che tuttavia, con una certa dose di supponenza, preferisco attribuire alla scarsa perizia di Kafka narratore in questa fase che alla debolezza della mia interpretazione! Del resto, la parte del grassone e quella dell'orante potrebbero – e non sarebbe strano, dato il contrasto tra l'atmosfera onirica del primo e quella realistica del secondo – costituire due testi separati che Kafka volle unire un po' artificiosamente nella stesura del racconto maggiore. Anche in questo caso, imploro clemenza.

Il dialogo tra grassone e orante, durante il quale il primo domanda al secondo le ragioni della sua devozione così spettacolosa e volgare, è di una densità sorprendente. Lo si legga tutto dall'inizio alla fine, e si faccia per proprio conto il nostro lavoro: l'esegesi, a questo punto, dovrebbe essere più agevole. Ne forniamo dei campioni esemplari.

Il fatto che grassone e orante condividano la stessa "colpa", ovvero il desiderio mimetico, è testimoniato dal fatto che il grassone è scoperto dall'orante a parlare di un'innocenza eventualmente condivisa. "Lei ha detto: la nostra innocenza. Voleva dire che se io avessi dimostrato la mia, lei dovrebbe ugualmente dimostrare la sua?". Il grassone si dichiara "stizzito" dal modo di pregare dell'orante. Questi si giustifica dicendo che si diverte "soltanto ad essere guardato dalla gente, a gettare, per così dire, ogni tanto un'ombra sull'altare"; e poi, incalzato dal grassone: "Non è un divertimento, per me, è un bisogno: bisogno di farmi martellare un'oretta da quelle occhiate", bisogno di attivare il desiderio degli altri attraverso lo spettacolo del proprio desiderio, proprio come avevamo visto nella prima parte del racconto.

La spiegazione dell'orante è accolta e compresa immediatamente dal grassone, a ribadire l'identità della loro "colpa": "Adesso mi accorgo, perbacco, che fin da principio ho intuito in quale condizione siete", chissà perchè!

Nel resto del racconto i sintomi di derealizzazione aumentano, e il tema centrale dei discorsi dell'orante e del grassone sembra proprio essere lo scandalo di una realtà esterna motile e indefinibile, i cui contorni sfumano a seconda dei nomi che vi si vuole attribuire – non escludo che a questa altezza intervengano altri temi che in questa sede ci riguardano meno. L'instabilità della realtà percepita dai personaggi dipende, a mio avviso, dal condizionamento che il reale subisce ad opera della rete dei desideri mimetici, che a sua volta costituisce la matrice di tutti i momenti più stranianti e indecifrabili della narrativa matura di Kafka. La realtà sfuma nel delirio allucinatorio causato dal desiderio d'altri, e gli uomini si riducono a nient'altro che "figure di carta velina gialla", che si sentono frusciare quando camminano, oppure a creature fatte "soltanto di abiti ornati" che vivono in "case che hanno soltanto la porta", in una Parigi immaginaria, non troppo dissimile da quella di Proust.

Riportiamo soltanto la conclusione del monologo dell'orante, che è a tal punto tremenda da far piangere il grassone: "Si temono parecchie cose: che la materialità possa scomparire, che gli uomini siano davvero come appaiano nel crepuscolo, che non sia lecito camminare senza bastone, che forse sarebbe bene andare in chiesa e pregare gridando per essere guardati e diventar concreti", corsivo nostro. La sezione onirica si conclude quindi con la supplica del protagonista: "Per piacere, voi che passate, abbiate la bontà di dirmi quanto sono grande, misurate queste braccia, queste gambe". Lo svuotamento dell'egoità dipende dal ricorso sempiterno alla parola d'altri, chiamata qui a misurare la statura dei personaggi e restituire loro una pienezza d'essere perduta.


La quarta parte del racconto, nuovamente realistica, riporta la conclusione della battaglia tra conoscente e protagonista, tornati alle posizioni di partenza al termine del delirio di fuga, che per sua natura non poteva avere carattere risolutivo.

È il conoscente a guidare lo scambio: fa manifesto al protagonista il dilemma che l'ha portato a eleggerlo come suo mediatore – potremmo anche dire "misuratore", prendendo a prestito la semantica del finale della terza parte – ovvero a richiedere continue conferme del valore della sua Annetta – misurare Annetta significa misurare il mio valore come persona-seduttore – di modo che lui, il conoscente, potesse accondiscendere al fidanzamento senza ripensamenti. Val la pena riportare per intero il monologo con cui il conoscente definisce i termini del proprio dilemma:


<<Vede, in complesso ho ancora tempo, posso ancora troncare subito questo amore incipiente con un misfatto, o diventando infedele o partendo per un paese lontano. Infatti sono molto in forse se procurarmi questa agitazione. Non vi è nulla di sicuro, nessuno può indicare con certezza la direzione e la durata. Se entro in un'osteria con l'intenzione di ubriacarmi, so che sarò ubriaco per una sera; nel mio caso invece! Tra una settimana vogliamo fare una gita con gli amici se non ne deriva per quindici giorni una burrasca nel cuore. I baci di questa sera mi fanno venir sonno per far posto a sogni indomiti. Io resisto e faccio una passeggiata notturna, ed ecco che sono in continuo movimento, ho il viso freddo e caldo come dopo un colpo di vento, devo sempre toccare un nastro rosa che ho in tasca, sono in grande pensiero per me, ma non me ne posso occupare e sopporto persino lei, caro signore, mentre in caso diverso non le parlerei certo così a lungo>>

Appare evidente che il problema che spinge il conoscente a ricercare la mediazione e la conferma del proprio desiderio presso il protagonista è l'incertezza di questo stesso desiderio a fronte delle diverse possibilità che si aprono nella giovane vita del conoscente – potremmo dire: a fronte delle diverse possibilità di mediazione, dei diversi desideri che vengono suggeriti al conoscente dal complesso dei mediatori che si affacciano agli albori della società massificata. L'unione con Annetta, per quanto desiderabile, ipoteca il futuro del conoscente, sottraendogli altre possibilità di godimento e soddisfazione. "Se entro in un'osteria, so che sarò ubriaco per una sera", ma se mi fidanzo con Annetta... Un dilemma, quello tra l'unione matrimoniale e la vita libera, che tornerà profeticamente a condizionare la vita di Kafka in un futuro non troppo lontano.

La soluzione prospettata dal protagonista è estrema e radicale: "Lei dovrà uccidersi"; in un ribaltamento speculare della situazione iniziale, nella quale il protagonista paventava il proprio omicidio per mano del conoscente. Torna la doppiezza speculare dei rivali mimetici, anche in questa prima "soluzione finale" ideata dall'adolescente Kafka per risolvere il problema del proprio desiderio: una fuga assoluta, estrema, fatta di annientamento dell'istanza desiderante prima e del modello scandaloso poi – omicidio come espulsione dei motori gemelli del desiderio, il soggetto e il mediatore.

Soluzione estremamente letteraria, in senso deteriore, e quindi inconcludente: se ne renderà conto lo stesso Kafka, che dovrà dedicare il resto della propria carriera di scrittore a trovare una soluzione – una via di fuga – migliore e più risolutiva al dilemma del proprio desiderio. Significativa in questo senso l'incompiutezza della revisione del testo, che Kafka abbandonò all'altezza del quarto capitolo, proprio quando una conclusione si rendeva necessaria, ma il genio narrativo non aveva ancora trovato una risposta soddisfacente. Vien da chiedersi se questa risposta arrivò mai, stante l'incompiutezza di tutta l'opera maggiore.


Descrizione di una battaglia è un testo sorprendente, se si pensa che a comporlo è un ventenne alla sua prima prova letteraria. La densità dell'intreccio è quasi soffocante, e i saggi esegetici che ne ho dato non arrivano a renderle giustizia. Spero tuttavia di aver raggiunto l'obiettivo che mi ero prefissato: dimostrare l'attendibilità della lettura mimetica e prefigurare alcuni nodi cruciali dell'esperienza letteraria di Kafka – il desiderio compreso nella doppia mediazione, la ricerca della via di fuga, lo straniamento come figura del collasso mimetico – che io e altri svilupperemo, forse, nei prossimi articoli.

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