È forse quasi impossibile commentare un film come Inception (2010), perché questo non è un film, è la decostruzione di un film. I film hanno un senso, questo decostruisce il concetto di senso. I film attraverso la trama comunicano idee, questo ha una trama che parla di come si costruisce una trama per “innestare” idee.
Con Inception lo stile criptico di Nolan diventa più giusto definirlo labirintico, come lui stesso ci indica. Quella “civetteria”, così l’abbiamo definita, all’opera fin nei primi film (cfr. commento a Following), in cui il senso viene tenuto morbosamente nascosto, finché lo spettatore non esibisce il suo desiderio di scovarlo, e che a partire da The Prestige e dal primo capitolo su Batman raggiunge, abbiamo detto, un “nuovo livello di raffinatezza strategica” (cfr. il loro commento), probabilmente a causa di un’ostilità vissuta in forma patologica verso i concetti da decostruire, qui arriva all’ultimo atto: vuole parlare di se stessa. Al pari di Memorie dal sottosuolo non può che essere massimamente sincera e massimamente menzognera, mentre dà sfoggio di sé e al contempo si nasconde dietro un’incalzante sequenza di eventi.
Inception è un film ai limiti del delirante. Ma se sembra il prodotto di un delirio di onnipotenza del razionalismo, che pretende che la ragione sia capace di manipolare il subconscio, è perché deve celare il molto più scandaloso delirio di onnipotenza del mimetismo, che si vanta di conoscere i meccanismi con cui edificare o sbriciolare mondi e rapporti umani con una semplicità così sconcertante da far dubitare dei confini tra sogno e realtà. A dispetto della volutamente ingannevole assenza di toni cupi, Inception tradisce una visione del mondo ben più tragica di film come Matrix, in cui la minaccia è “esterna”, “estranea”, un’intelligenza artificiale che tiene schiavi noi esseri umani, perché ci priva delle risoluzioni accusatorie offerte dalla figura del “cattivo” (intollerabile per i fan del manicheismo supereroistico) o dal “sistema che è sbagliato” (intollerabile per l’élite dotta della critica cinematografica): il dramma è tutto umano, profondamente umano (troppo umano).
Ma proviamo ad addentrarci nel labirinto della trama. Assistiamo a un proliferare di mondi, ma anche di paradossi che sembrano cercare di nascondere i limiti in realtà ristretti dello sguardo rivolto su un’umanità, che a dispetto della sua conclamata creatività quasi onnipotente e onnicomprensiva non fa che ripete sempre autisticamente le stesse dinamiche.
Le prime scene sono tutte esasperatamente paradossali. Il protagonista Cobb spiega a Mr. Saito i rischi che si corrono quando si sogna e le difese del subconscio si abbassano: un “estrattore” può carpire i segreti nella mente del dormiente; e lo racconta perché… vuole carpire i segreti di Mr. Saito, mentre stanno condividendo un sogno. Gli svela che è lui il miglior estrattore perché… vuole che Mr. Saito si fidi di lui. Mr. Saito ha capito di essere in un sogno condiviso, ma… crede comunque di avere tutto sotto controllo. Solo che quando si sveglia non sa… che non è tornato alla realtà. Scopre di essere stato in un sogno nel sogno, eppure… ne è contento: il suo avversario è stato all’altezza.
Chi ha manipolato chi? L’estrattore o la sua presunta vittima che dice di averlo sottoposto a un test?
La costruzione di mondi onirici all’interno dei quali ingabbiare il rivale in fondo non è altro che una forma particolare ed estrema della più estesa competizione tra soggetti nella lotta per il totale controllo dell’altro. Ed è proprio questo l’aspetto più problematico, perché indifferenziatore: se di per sé questi sogni appaiono come semplici “copie” (in senso platonico) della realtà, quindi teoricamente distinte, i tentativi di imporsi sul proprio rivale invece si imitano tra loro in un senso che cancella ogni differenza tra soggetti e anche tra sogno e realtà, essendo tutti essenzialmente uguali (anzi, più espliciti proprio nella dimensione onirica, in cui si mostra con la massima enfasi l’oppressivo totalitarismo – così come l’opera di riduzionismo, mascherata dai paradossi, perché il macrocosmo sia compreso in un microcosmo – dell’ego).
Una volta usciti dalla “copia” di realtà infatti, non si esce affatto dalle dinamiche di controllo e sotterfugio nei confronti degli altri: Cobb nasconde all’amico Arthur il motivo dell’apparizione della proiezione onirica di sua defunta moglie Mal durante il sogno condiviso, uno della sua squadra lo tradisce e lo consegna a Mr. Saito, ma Mr. Saito vuole collaborare con Cobb e consegna il traditore a coloro per i quali aveva lavorato. Nel groviglio di piani e contro-piani per stringere in pugno la situazione, ciò che permette alla trama di procedere, invece che bloccarsi in un vicolo cieco, è un “atto di fede”, un patto tra Cobb e Mr. Saito senza garanzie che venga mantenuto.
Ma in verità dietro questo presunto gesto di affidamento si nasconde il massimo impegno di controllo sulla realtà, come Cobb sa bene, lui che di “atto di fede” già ne aveva fatto uno con la moglie Mal… Poi si scoprirà quanto persino con lei, soprattutto con lei aveva fatto uso della sua abilità manipolatrice. Con Mr. Saito accade uguale: non c’è in gioco nessuna fede (in questo film le cose rivelano la loro vera natura nei sogni e sono falsate nel mondo reale), ma lo sforzo di cambiare la realtà secondo la propria volontà. Cobb dovrà innestare in Robert Fischer l’idea di disgregare l’impero economico del padre morto, concorrente di Mr. Saito, gettandolo in un sogno nel sogno nel sogno, e Mr. Saito farà sparire con una sola telefonata (roba da sogno) le accuse secondo cui Cobb avrebbe ucciso Mal.
Quanto tutto ciò celi qualcosa di tremendamente patologico è denunciato dal mentore di Cobb, quando questi va da lui perché gli indichi una discepola da trascinare nella sua impresa, poi anche da Arianna stessa. Ma lei resta comunque invischiata, prima perché viene sostanzialmente drogata in maniera mimetica dal fascino che esercita il potere di creare mondi, poi quando comincia a intuire che tutta l’invidiabile abilità creativo-manipolatoria del suo maestro sorge da un’imitazione malata che reitera in maniera ossessiva e in verità del tutto incontrollata la realtà e il proprio passato, perché si offre di essere lei ad aiutarlo a uscire da quel labirinto di delirio.
Grazie anche ad Eames, che assume il ruolo del padrino di Fischer, Peter Browning, l’innesto riesce, Cobb risale tutti i sogni con Arianna e Mr. Saito mantiene la promessa.
Fine dei paradossi? Chiediamo a quella trottola che gira se siamo usciti dal labirinto delle menzogne oniriche o no, quale sia il senso di tutta questa costruzione cinematografica.
Non interroghiamoci sulla colpa di un marito che dopo aver realizzato il sogno di invecchiare insieme alla moglie, o meglio dopo aver vissuto con lei il compimento della promessa d’amore coniugale come null’altro che un lungo sogno, le ha innestato l’idea che la morte è l’unica via per fuggire da un mondo illusorio e tornare alla realtà vera, provocando così il suo effettivo suicidio; la colpa di un uomo che tanto alla fine è scagionato. Non interroghiamoci sull’artificio che ha spinto Fischer a far propria l’idea che bisogna sbarazzarsi del modello del padre per inseguire il sogno americano del self-made man; la macchinazione di un uomo che è invece disperatamente desideroso di rivedere i volti dei propri figli. Perché intravvedere un sotterraneo spregio verso tutte le concezioni dell’uomo romantiche, gnostiche, individualiste (così in voga nell’arte), quando tanto il film non ha tinte così cupe?
Lasciamo che a mediare il nostro sguardo sia la telecamera (come per Fischer i suoi “amici”?), mentre si sofferma sulla trottola che gira, lasciamo che sia lei a darci (innestarci?) un’idea sul film.
Osserviamo fiduciosi questo sacro oggetto. La trottola non può mentire, è un totem senza macchia, un paladino della verità, l’Harvey Dent di cui noi, il pubblico reale, abbiamo bisogno. E quella gira, gira, gira…
Stava per fermarsi? Non si è visto bene. Ritorniamo indietro e interroghiamo il sacro totem di nuovo…
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