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Immagine del redattoreGruppo Studi Girard

Interstellar (2014) di Nolan | Lo sguardo si alza verso le stelle

Aggiornamento: 6 set 2021


«E io non posso essere il tuo fantasma adesso. Io devo esistere.»



Con Interstellar arriviamo alla fine del percorso. Dopo essere discesi con Inception (cfr. commento) fin nelle più patologiche profondità del subconscio, dopo aver esplorato il delirante e totalitario mondo del sottosuolo, dopo aver percorso i più bassi gironi dell’inferno, «preoccupati di far parte del mare del fango», risaliamo, usciamo a riveder le stelle, per la meraviglia alziamo lo sguardo verso il cielo, «sentendoci parte del firmamento».

Le prime scene del film ripropongono la storia di un uomo, Cooper, che non ha realizzato il suo sogno, ha perso la moglie, cerca di essere presente per i figli, ha un rapporto conflittuale con la realtà. Ma quest’ultimo aspetto viene rappresentato in maniera profondamente differente rispetto a Inception: niente più sotterfugi né misteriosi inseguitori, il vero problema ora riemerge dagli incubi e il mondo reale non lo falsifica più. Le rivalità mimetiche e la costruzione di artefatte catarsi sacrificali sono i sintomi di una costrizione del desiderio a ridursi a semplice bisogno primario di alimentarsi per sopravvivere in nome di un attaccamento alla terra, che ingabbia l’umano in una pragmatica economia di sussistenza. Emblematica è la relazione con il futuro: non un orizzonte che costituisce il presente come possibilità per il compimento di sé, ma una rassegnante scappatoia a cui rivolgere una fede immotivata che l’“anno prossimo” andrà meglio.

L’uscita dalle narrazioni oniriche porta ora a vedere che è la natura stessa a rispecchiare il disagio. La coscienza malata di cui Nolan si fa interprete (che sia la sua o no è in definitiva indifferente), sempre più prossima all’estinzione per la piaga sempre più grave delle patologie mimetiche, si ritrova assalita da polvere che ricopre tutto indifferentemente, da bufere che soffocano il respiro, annebbiano la vista, distruggono i campi di grano o di mais e insieme una dopo l’altra le possibilità di coltivare la propria esistenza; infine capisce che le dimensioni di spazio e tempo di questa terra stanno troppo strette.

Ma Cooper, modello di insaziabile esploratore della realtà per la figlia Murph e a sua volta discepolo della insopprimibile esuberanza di lei, riceve l’occasione di compiere la propria vita con una missione attraverso un viaggio interstellare verso altri pianeti di un’altra galassia, partendo dalla sua famiglia per salvarla. Ma se c’è un doppio legame tra l’impoverimento della terra e dell’umano, allora non si tratta solo di ritrovare il proprio mondo, ma anche il proprio sé.

La prima scoglio è la rivalità mimetica, a causa della quale il desiderio al posto di unire le persone le rende ostili e la controparte naturale è un pianeta, dove l’acqua al posto di favorire la vita la sommerge. Cooper si sente minacciato dall’amore di Amelia per Edmunds, uno degli esploratori che hanno inviato informazioni dai vari pianeti su cui loro sono già approdati, proprio lui che è mosso solo dall’amore per i propri figli. Finisce in un mondo, in cui al posto di esserci solo terra e polvere, come nel vecchio, c’è solo acqua e l’eccesso di gravità (proprio come di desiderio mimetico) accelera il tempo e produce un movimento ondulatorio che prima illude che la situazione sia sotto controllo, poi con una violenta ondata travolge tutto. Amelia è sempre stata solidale con Cooper, ma nel momento in cui bisogna scegliere in quale altro pianeta fare un ultimo tentativo, lui la umilia, per dirigersi non in quello di Edmunds, ma del grande dr. Mann.


Il secondo scoglio è la logica sacrificale. Nel freddo pianeta in cui approdano, Cooper e Amelia sono raggelati da crude verità che non si sarebbero aspettati. I grandi modelli, a cui avevano prestato fede, gli stimati professor Brand e dr. Mann, svelano le loro menzogne. Cooper, capro espiatorio insieme all’umanità malata e insalvabile sulla Terra, è letteralmente gettato verso un fondo, che non ha superficie, invitato nella sua agonia ad accontentarsi del ricordo dei volti dei figli. Resterebbe avvelenato dall’aria stessa che respira, se Amelia non accorresse subito in suo soccorso, senza alcun rancore verso di lui.

A proposito di logica sacrificale, è interessante notare come in questo film Nolan mostri il male senza disprezzo per chi lo compie, con sguardo rivolto a quell’umanità logorata fino all’esasperazione. Questi falsi modelli sono semplici uomini che hanno lottato con tutte le loro forze per anni e anni, ma alla fine sono dovuti crollare, soggetti che hanno creduto unicamente nella propria solidità finché sono caduti nella disperazione, figure già decostruite in altri film che ora si dimostrano inequivocabilmente assoggettate alla logica sacrificale, anche loro malgrado.

Il dr. Mann si era creduto pronto a morire per la causa, come un supereroe, ma in quella solitudine assoluta, senza la relazione con l’altro, senza il volto dell’altro, come lui sottolinea, alla lunga non ha retto. Dolorosamente consapevole della sua colpa, cerca conferme che anche Cooper è come lui, governato dallo spirito di sopravvivenza: cerca invano di ritrovare la propria umanità, provando ad affermare, nel sacrificarla, quella dell’altro. Ma poi deve arrendersi, non può che distogliere lo sguardo dal suo capro espiatorio. Ora non è più in grado di guardare in faccia nessuno.

In ultimo con lui appare chiaro che il tentativo di sopravvivere attraverso la logica sacrificale ha come conseguenza ultima la propria autodistruzione.



«L’unico modo che gli umani hanno trovato per andare avanti è lasciarsi qualcosa alle spalle»


La tendenza civettuola di Nolan di celare il senso dei propri film allo spettatore è infine ribaltata in Interstellar, dove il regista esce allo scoperto, si espone, anche al rischio di essere meno meticoloso nella sua costruzione cinematografica: ora le leggi stesse della fisica rivelano significati. Ma il Non-io smette di essere qualcosa di estraneo soltanto quando l’Io smette di esserlo per se stesso.

Nel terzo pianeta l’umanità potrà forse trovare una nuova casa, purché ritrovi se stessa. Il tragico dramma del Dr. Mann ha reso evidente un’urgenza: è il rapporto con l’altro che bisogna riallacciare per ritrovarsi. Ciò implica risolvere anche il rapporto rimasto conflittuale tra desiderio e dimensioni di spazio e tempo. Sfruttando una fionda gravitazionale, Cooper si lascia inghiottire dal buco nero per permettere ad Amelia di andare avanti e raggiungere il pianeta di Edmunds. Lui all’interno di Gargantua ottiene di rimettersi in contatto con sua figlia Murph grazie al “tesseratto”.

Non ci interessa qui discutere l’attendibilità della teoria che Nolan a questo punto recupera, né l’efficacia dal punto di vista estetico, soltanto quale sviluppo produca sul piano narrativo. Da quando spazio e tempo li aveva separati, padre e figlia avevano interrotto il loro rapporto, lei si era sentita abbandonata, poi anche lui aveva perso la speranza di mantenere la promessa di tornare da lei, ma nelle scene finali quel legame acquista un nuovo valore. Murph e Cooper scoprono che era lui il “fantasma” che aveva permesso a lei di guidare lui verso il compimento della sua vita e si rendono conto che in questa relazione lui può ancora consentire anche a lei di realizzare il suo sogno di trovare la soluzione per salvare gli abitanti della Terra, a cui il professor Brand non aveva potuto arrivare. I due completano la loro costituzione di soggetti attraverso una mediazione reciproca resa positiva dalla “vicinanza” data non nelle dimensioni di spazio e tempo, ma dell’amore, inteso non come sentimento, componente psicologica di un individuo, ma come “campo” in cui i desideri al posto di rivaleggiare per essere il centro gravitazionale, gravitano insieme per sostenersi a vicenda (1).

Ancora nell’ultima scena sarà Murph, giunta al termine del suo percorso grazie al padre, a indicare a Cooper quale dovrà essere la fine del viaggio che lui ha intrapreso grazie a lei. Quel definitivo distacco spaziale e temporale non inficia più il loro rapporto, ne è invece l’apice, che conclude Interstellar e il nostro percorso.


(1) Nei commenti ai film precedenti non abbiamo mai accennato al confronto con Nietzsche, ma la scena del “tesseratto”, in cui Cooper trova modo di mantenere la promessa fatta a Murph, è forse quella in cui più palesemente Nolan si rivela un critico e non un discepolo del filosofo tedesco. All’inizio della seconda dissertazione della Genealogia della morale Nietzsche coglie nel concetto di “promessa” una dinamica originaria ed essenziale per la costituzione della coscienza. Ma per lui è tutto malsano: la memoria che si fossilizza su un evento passato, la menzogna di poter garantire di saper mantenere la parola anche “contro il destino”, l’emergere di una coscienza gravata dal senso di colpa. Tutto apparentemente corretto, ma Nolan ha una piccola obiezione: Nietzsche dà per scontato che la promessa (e la coscienza) poggi sulla dimensione del tempo. E se invece poggiasse su qualcos’altro? E se fosse esattamente il segno di un rapporto che trascende il tempo?

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