Sia che lo considerino un merito o un motivo di rimprovero, molti ricordano Tolkien come lo scrittore che ha assimilato l’antica metafora militaresca della “lotta” del bene contro il male e riproposto con tanta efficacia nell’ultimo secolo da renderla uno dei più stereotipati ingredienti di buona parte della narrativa a lui successiva, specialmente (al punto da indurre a credere che ne sia un elemento essenziale) quella di genere fantasy. Sicuramente egli ha ereditato una certa tradizione, anche e soprattutto cristiana, che risale a San Paolo, eppure a una lettura attenta del racconto della Guerra contro Morgoth nella regione del Beleriand della Terra di Mezzo ci si accorge che il tema finisce per essere problematizzato in maniera radicale. Questo tentativo degli scrittori cristiani di utilizzare un linguaggio famigliare a popoli fondamentalmente guerrieri con cui erano in contatto e di “redimere” i loro miti, reinterpretandoli invece che provare a cancellarli, per quanto promosso da un’intenzione apprezzabile, cela innegabilmente il rischio che accada l’esatto contrario: che sia il Cristianesimo a ridursi a una delle tante religioni che venerano la guerra.
Non si tratta, quindi, solo di smarcarsi da un rozzo manicheismo che separa in maniera assoluta buoni e cattivi, sottolineando per esempio che personaggi come gli Orchi sono Elfi così ridotti dal Nemico. È l’immagine stessa di una “battaglia” contro il male, che con la scusa di essere solo metaforica, evoca nel contempo qualcosa di brutale e impulsivo, a tradire nel suo lungo successo nella storia della letteratura una seduzione sospetta.
L’arrivo dei Noldor dal Reame Beato è visto dagli Elfi del Beleriand come la venuta degli emissari (“emissaries” nell’originale) dei Valar per salvarli ancora una volta da Morgoth, quando la realtà è che i discepoli si sono allontanati contro il desiderio dei loro ripudiati maestri, mossi unicamente dalla sete di vendetta e dalla brama di riprendersi i Silmaril. Interessante capovolgimento della dinamica della Genesi, in cui è Dio, ancora presentato nel ruolo di punitore, a compiere il gesto di espellere, Tolkien narra invece di un fuga, che è esattamente il gesto con cui si vuole rompere il legame positivamente costituente con i Valar, per gettarsi deliberatamente in una Guerra, che esigerà molto più del sudore della fronte e senza alcun orizzonte che lasci intravvedere una risoluzione salvifica.
Durante l’interminabile susseguirsi di battaglie inconcludenti gli Elfi dello scrittore inglese sembrano comunque aspirare ad essere la rappresentazione dei buoni la cui lotta è rivolta contro il maligno, eppure senza che sia mai confutato che una distinzione tra bene e male esiste, loro malgrado finiscono per essere molto più simili ai tanti personaggi degli antichi miti, sprofondati in ingloriosi cicli di vendette continue (si prendano come esempi emblematici le diverse versioni del caso famoso con il nome dei Nibelunghi e quello dei Tantalidi, i cui personaggi più noti sono gli ultimi discendenti, Agamennone, Egisto e Oreste).
Ma ciò non è frutto di una visione ideologicamente pessimistica. Accade quando il rapporto maestro-discepolo, che era all’origine dell’armonia, viene definitivamente soppiantato da quello tra rivali. Come la vicenda di Fëanor e Morgoth rivela in maniera emblematica, anch’esso plasma i soggetti, inconsapevoli, loro malgrado, alimentando sia la brama per gli oggetti contesi sia l’odio tra contendenti in un circolo vizioso senza fine.
Nella dinamica di reciproca influenza le intenzioni più o meno buone o malvagie perdono di rilevanza e ad emergere prepotentemente in primo piano è il sempre più esasperato botta e risposta delle due parti. Allora si può comprendere perché le battaglie, una dopo l’altra, non indirizzino mai a un lieto fine la travagliata storia degli Elfi, ma tradiscano una continua oscillazione (simile a quella narrata nell’Iliade, in cui dèi ed eroi invertono continuamente la posizione di vantaggio dell’uno o dell’altro fronte). Tanto più forti sono le alleanze per stringere Morgoth in una morsa, tanto più terribili sono le sue macchinazioni per ribaltare la situazione. Quelle istigano queste, che incentivano quelle e così potenzialmente all’infinito.
Eppure a ben guardare bisogna anche riconoscere che Tolkien non si limita nemmeno a ereditare l’amara lezione degli antichi miti (abbiamo citato quello dei Nibelunghi, dei Tantalidi, dell’Iliade…), senza aggiungere nulla. Respinta l’ingenua santificazione della guerra, si potrebbe dire che nell’abbondare del peccato interviene un sovrabbondare di grazia.
I Noldor, partiti per motivi del tutto egoistici al punto da spingerli a spargere sangue innocente, involontariamente diventano davvero il baluardo degli Elfi del Beleriand. Dopo la Battaglia Gloriosa, che inaugura la Lunga Pace, mantenuta con un assedio, che tiene il nemico prigioniero nella sua roccaforte di Angband, la regione si arricchisce di magnifici regni e proprio in giorni così favorevoli avviene l’incontro con gli Uomini, che in essi vengono accolti.
Anche in questo caso si instaura un rapporto maestro-discepolo. Si assiste dunque a una sorta di passaggio di testimone da Ilúvatar ai Valar, fino agli Eldar che devono istruire i nuovi venuti. Nominati nella lingua degli Elfi, «the Edain of old learned swiftly of the Eldar all such art and knowledge as they could receive, and their sons increased in wisdom and skill».
Occorre però precisare che la relazione non è più così verticale come in precedenza: benché gli Elfi si presentino certamente come maestri e non sia un rapporto alla pari, nella Terra di Mezzo sono più consoni legami di amicizia che di vero e proprio discepolato. D’altra parte i Noldor non sono gli inviati dei Valar, come questi lo sono di Ilúvatar. Ciò renderà ancora più semplice per Morgoth spezzare il legame tra loro e indurre al tradimento.
Dopotutto una pace fondata su un assedio non avrebbe mai potuto durare per sempre. Segue la sconfitta nella Battaglia della Fiamma Improvvisa, con la comparsa di Glaurung, padre dei draghi, tra i ranghi di Morgoth. La più mostruosa delle macchinazioni fa da contraltare a tutto ciò che di bello e magnifico è stato realizzato dagli Elfi, perché ciò che è stato ottenuto per mezzo della guerra, prima o poi con la guerra trova la sua fine. Quella sconfitta sarà solo il preludio del grande disastro, la Battaglia delle Innumerevoli Lacrime.
Se l’impossibilità di salvezza dal male attraverso la rivalità è dovuta al fatto che proprio questo rapporto, sia pure di contrapposizione, produce un contagio reciproco, se la rivalità plasma i soggetti, deteriorandone l’interiorità, allora può riaccendere ragionevoli speranze soltanto una nuova relazione che sappia farli rifiorire nella loro intimità. Il realizzarsi di questa possibilità in un contesto che per molti motivi non la favorisce minimamente è di certo la massima manifestazione di un sovrabbondare di grazia.
La prolissa analisi del tema della guerra è stata necessaria proprio per mostrare che la storia d’amore tra Beren e Lúthien, un Uomo e un’Elfa, non è una parentesi romantica, ma delle vicende del Beleriand è il punto di svolta. E non è nemmeno una risoluzione romantica.
In effetti di “romantico” questa storia non ha assolutamente nulla. L’amore non rifulge affatto come cieca passione che dissolve le differenze (al pari invece dell’odio tra Elfi e Orchi), ma come momento di intimo incontro tra due personaggi così diversi da avere due destini separati, mortale lui e immortale lei. Infatti non è un amore che esalta fino alla divinizzazione il suo oggetto, in ultima istanza per esaltare e divinizzare se stesso (come quello cortese), benché Lúthien sia un’Elfa, né è definito da un’attrazione fisica che si intensifica tanto più il suo oggetto è proibito (come quello più “moderno”), benché Beren sia un Uomo. Si realizza in un accompagnarsi ciascuno verso il proprio destino ed è così che improvvisamente nella storia si comincia a intravvedere all’orizzonte la possibilità di una risoluzione salvifica.
Tolkien sviluppa questa narrazione, recuperando un tema già presente in alcune fiabe antiche, ma scarsamente ripreso nella letteratura, proprio perché inadeguato per raccontare di un amore romantico. Sottoposto dal padre di Lúthien, Re Thingol del Doriath, alla prova quasi impossibile di recuperare dalla corona di Morgoth un Silmaril, Beren fallisce quasi subito; avendone il presentimento, Lúthien fugge dal Doriath e con l’aiuto del cane Huan riesce a liberarlo dalla prigionia nelle segrete di Sauron; da quel momento è insieme che i due affrontano la prova. Essa quindi si presenta non come lo strumento per esibire l’appassionata dedizione di uno dei due per il proprio amore, né come l’ostacolo che li tiene distanti e, mantenendo insoddisfatto il loro desiderio, lo conserva, ma al contrario come la circostanza attraverso cui condividono paure, gioie e dolori e si prendono cura l’uno dell’altra.
Insieme riescono a giungere al cospetto di Morgoth. Se le armi provocano sempre una risposta armata, la danza e il canto di Lúthien, bellissima e indifesa, assopiscono il terribile nemico, che abbassa la guardia, vittima della propria posizione di forza:
«Thus he was beguiled by his own malice, for he watched her, leaving her free for awhile, and taking secret pleasure in his thought»
È il caso di soffermarsi sull’apparente contraddizione a cui si assiste in questa scena: come è possibile che l’Elfa risvegli un desiderio erotico e al tempo stesso faccia cadere Morgoth nel sonno? Chiaramente lei mira soltanto al secondo risultato, allora perché Tolkien segnala anche questo primo effetto?
Egli sembra ironizzare proprio sul fatto che tanto l’amore che nel ridurre il suo sguardo alla “pura” corporeità si crede massimamente concreto e reale, quanto quello cortese che nel concentrare il suo sguardo alla “pura” spiritualità si compiace del pensiero di sé come di un idolo, sono essenzialmente onirici.
La scena prosegue con Beren che riesce finalmente a sottrarre a Morgoth ciò a cui i figli di Fëanor, uniti solo dall’odio, possessori di grandi eserciti, nemmeno erano riusciti ad avvicinarsi: un Silmaril.
Ma l’avido desiderio di Re Thingol di ottenere il gioiello ha costretto l’eroe della storia a mettere le mani su qualcosa a cui troppe brame sono rivolte, perché egli non paghi a caro prezzo il fatto di essere l’unico ad averlo preso. Accade infatti che Carcharoth, il Lupo di Angband, divora l’agognato Silmaril, lasciando Beren monco.
Dopo essersi riconciliato con Thingol, l’Uomo affronta di nuovo il Lupo ed entrambi trovano la morte: è un amaro successo per il Re del Doriath ottenere infine il gioiello.
Lúthien in quel frangente, in cui sembra crollata l’ultima speranza, è come se riprendesse la Grande Musica degli Ainur, che nell’armonia aveva originato il Mondo, ad essa si aggrappasse, intonando un nuovo canto, quasi volesse aggiungerlo ad essa, perché non vada perduta la ritrovata esperienza nella Terra di Mezzo di come la diversità possa essere complementarietà attraverso la condivisione:
«Lúthien wove two themes of words, of the sorrow of the Eldar and the grief of Men, of the Two Kindreds that were made by Ilúvatar to dwell in Arda, the Kingdom of Earth amid the innumerable stars»
Di nuovo la grazia agisce. L’Uomo torna alla vita e le Due Stirpi si congiungono, grazie alla difficile scelta di Lúthien di abbracciare lo stesso destino di Beren. Ma non c’è di colpo, “per magia”, un lieto fine. Il compito di cambiare le sorti della Terra di Mezzo è affidato alla loro discendenza.
***
Indice
Beren e Lúthien. Della guerra, delle innumerevoli lacrime e dell’amore
I figli di Húrin. Comprendere la tragedia, comprendere il male
The Lord of the Rings. Molteplici personaggi, una sola alternativa a Sauron
The Lord of the Rings. Le dinamiche che determinano la fine del conflitto
Comments