Questo articolo è parte di un saggio ben più ampio in corso di scrittura che verrà progressivamente pubblicato sul blog. Gli obiettivi del saggio sono diversi: una critica all'interpretazione girardiana del pensiero di Clausewitz; proporre la filosofia politica di Carl Schmitt e le sue ricostruzioni genealogiche di alcuni concetti politico-militari come possibile alternativa; scegliere la soglia in cui le teorie di Girard e Schmitt si avvicinano per distinguersi con più forza, mantenendo come base di lavoro Clausewitz, come snodo da cui divergere con prospettive ermeneutiche differenti.
Figurare una diversa teoria del partigiano si sarebbe rivelato completamente inutile e incomprensibile senza l’inquadramento delle differenti posizioni escatologico-antropologico-politiche contenute nel pensiero di Girard e Schmitt. L’introduzione aveva l’obiettivo di restituire (in misura chiaramente parziale) al lettore due sensibilità straordinariamente affini per ciò che concerne temi, figure e problemi (del resto entrambi affondano le radici del loro pensiero in un cattolicesimo rigoroso e problematico ed insieme nel pessimismo antropologico-politico) ma, al contempo, profondamente differenti per quanto riguarda l’orientamento escatologico che traccia il solco entro il quale assume senso una concreta prospettiva storica e umana.
Il viaggio decostruttivo in Teoria del partigiano sarà piuttosto accidentato perché presuppone un’ampiezza di sguardo in grado di contenere e comprendere molteplici livelli argomentativi. Alcuni snodi della ricostruzione del discorso potranno sembrare delle deviazioni ma il cuore del ragionamento rimarrà costantemente ancorato alla problematica interpretazione del pensiero di Clausewitz ed insieme al ruolo tanto religioso-escatologico quanto storico-politico della figura del partigiano.
Nel primo capitolo di Portando Clausewitz all’estremo Girard sostiene che «Il terrorismo è lo sbocco finale di ciò che Clausewitz identificava e teorizzava con la denominazione “guerra dei partigiani”: una guerra che ricava la sua efficacia dal primato della difesa sull’attacco, e che si giustifica sempre come mera risposta a un’aggressione, dimostrandosi così basata sulla reciprocità» (1). Secondo Girard, il destino di tale filiazione deriva semplicemente dalla natura mimetica del partigiano e, originariamente, dal sofferto desiderio di dare una forma strategico-tattica alla scandalosa superiorità di Napoleone (ovviamente quando Clausewitz ne parla nel Vom Kriege si riferisce in particolare al periodo storico delle campagne napoleoniche).
L’intuzione di Girard, che riassume con la rapidità d’un battito d’ali la ricostruzione genealogica offerta da Schmitt nella sua Teoria del partigiano, è fin troppo abbagliante: travolti dalla luce emessa perdiamo completamente qualsiasi riferimento e l’accidentata genealogia di una figura assolutamente complessa ci viene restituita con l’armoniosa semplicità di un salto mortale. Lavorare intorno agli snodi cruciali (ma molto spesso nascosti e silenziosi) del processo ricostruttivo impostato da Schmitt intorno alla biografia di Clausewitz e intorno all’evoluzione storico-politico-militare del partigiano -la quale porta sempre con sé un determinato concetto di inimicizia e di ostilità- risulterà particolarmente utile per mettere in prospettiva il tutto lasciando emergere ancor più drammaticamente la precisa funzionalizzazione, ossia il ruolo recitato, della figura del partigiano all’interno del grande affresco di indifferenziazione e intensificazione della violenza occorso nella storia delle relazioni internazionali e intrastatuali degli ultimi due secoli.
Tanto per Girard, in termini assoluti e assertivi, quanto per Schmitt, anche se in maniera più problematica e potenzialmente feconda perché aperta ad altre prospettive, il partigiano, nell’arco storico che dalle guerre rivoluzionario-napoleoniche conduce alla deterrenza nucleare e alle guerre di decolonizzazione, assolverebbe la funzione intermedia tra il combattente regolare e il terrorista agente nella forma nichilistica dell’attentato: in sostanza, egli sarebbe l’emblema dell’accelerazione mondiale verso una violenza sempre più suicidaria, portatore e agente di un’ostilità assoluta che deforma lo statuto della politica e delle relazioni internazionali e che, biunivocamente, determina ed è determinato dall’evoluzione tecnologica nell’ordine della tattica militare.
Sia nella sua filosofia della storia che nella sua filosofia della guerra è quindi ascrivibile a Girard il totale misconoscimento del potenziale positivo/rivelativo della figura del partigiano. Agli occhi di Girard egli esiste solo per la sua risposta dialettico-polemica all’avversario: una figura quindi che viene sterilmente ridotta alla mimesi nello schema dell’azione reciproca, peraltro già meccanicamente incanalata verso gli esiti nefasti e apocalittici dell’indifferenziazione indotta sia dal lato della tattica militare sia da quello del suo riflesso giuridico-politico.
La posizione difensiva, per Girard, rientra esclusivamente in una strategia per differire e ri-potenziare l’urto; di conseguenza, il partigiano viene rimesso e costretto ad una logica fondamentalmente passivo-aggressiva. La difesa viene emblematicamente letta dal pensatore francese come la precisa antitesi del ritiro, ossia la postura che Cristo assume/incarna per convertire la dialettica mimetica aprendo così uno spazio di relazione magistrale che capovolga radicalmente, fino al drammatico esito della croce, la logica spietata dell’imitazione reciproca (Girard parla in tal senso dell’emergere di un modello razionale oppure di una mediazione intima quale autentica conversione del modello mimetico assimilabile perlopiù al modello-ostacolo). Stupisce che Girard sembri selettivamente dimenticare il fatto che non si dia rivelazione senza scandalo: laddove però scandalo non indica in questo caso l’ostacolo che separa e allontana dal soggetto desiderante l’oggetto del desiderio mediato ma designa precisamente quella forma di stallo in grado di mostrare e denudare il desiderio del soggetto nella sua povertà, nella sua impossibilità di realizzarsi dentro il cerchio della mediazione interna, nel suo nichilistico gioco: una volta decaduto il sistema di segni configurante la pre-comprensione mediata dell’alterità, l’altro, con la sua nuda presenza, può richiamare il soggetto alla responsabilità, ossessionando e perseguitando la chiusura idealistica del cogito col segno di una ferita non ricucibile.
Come accade tutto ciò? Non potendo diffondermi intorno alle categorie “esposizione” e “volto”, cifra dell’etica di Lévinas (2), rispondo secondo uno schema immediatamente riconducibile alla tattica militare: l’altro, scandalosamente, mi resiste e, paradossalmente, mi resiste anche nel caso in cui la mia comprensione, il mio godimento, la mia violenza finiscano per negarlo brutalmente o relegarlo nel Neutro più indifferente e indistinto, richiedendo l’abiura della sua esistenza.
Resistendo, l’altro si sottrae a qualsiasi pretesa di funzionalizzazione che il soggetto manifesta: unicità irresistibile, il volto altrui si dona come traccia etica di un Dire che custodisce una differenza non circoscrivibile o semantizzabile nella chiusura ontologica di un discorso.
Senza la resistenza dell’altro non vi può essere alcuna rivelazione per il soggetto.
Nel dispiegamento temporale che tale resistenza produce, il soggetto, esposto dal/al volto altrui, è costretto a vedersi, inquietato dalla medesima coscienza che meditava di assorbire Altri nel proprio conatus, gonfiando il sogno di perseverare nel proprio essere. Il discorso che pre-comprende l’altro per meglio negarlo vorrebbe che quest’ultimo fosse un puro mezzo, parcellizzato e distribuito all’interno di una funzione costituita teleologicamente. Ma l’altro che resiste è appunto scandalo per l’azione del soggetto, svela l’offesa che il soggetto arreca per malizia o negligenza e, silenziosamente, obbliga a non eludere (o tuttalpiù eludere colpevolmente) il comandamento “tu non ucciderai” (da decifrare come un “tu non negherai la mia esistenza”): il soggetto, restituito alla propria fragile creaturalità, riconoscerà, nell'incarnata finitezza altrui, la sua, dunque la propria, moralità. Rivelazione, quindi, che si dà nella forma di una mediazione immediata: un toccare che è sempre un essere toccati. Custode di un'incoercibile moralità, l'altro si palesa come un'esistenza irriducibile ad alcun progetto.
L’anarchia del volto altrui ha già-da-sempre anticipato e schivato il preteso dominio del soggetto: in questo sottrarsi, in questa radicale passività, l’altro custodisce la propria altezza e la resilienza al dominio della forza; rifiutando ogni accordo che prevede l’emendazione di un’esistenza, il soggetto, nonostante tenti di schiacciare e annichilire l’altro stabilizzandosi e trovando fondamento nel regime dell’essere, sarà in ogni caso costretto a vedere la brutalità della propria violenza, la violazione dell’altrui esistenza, la menzogna delle proprie giustificazioni.
Il diritto non emerge mai a partire dalla tautologia di un soggetto che si auto-fonda e si auto-pone: sarebbe una fondazione sospesa nel vuoto e totalmente dipendente dalla propria potenza. Non si dà quindi alcun fondamento se non a partire dal riconoscimento dell’altro, esatta comprensione e conversione della reciprocità rivalitaria. Il diritto, con Kant, non è altro che la realizzazione, la formalizzazione esterna, dell’originario riconoscimento della moralità (libertà e razionalità) della persona umana; il diritto internazionale procede nella medesima direzione con i soggetti politici che agiscono e si relazionano dentro un orizzonte morale, un’assiologia proiettata verso una federazione di Stati liberi e sovrani: in ogni caso, non può esistere diritto senza tale archi-riconoscimento.
Girard evita in ogni modo di pensare la paralisi del desiderio del soggetto come un momento sorgivo da cui può emergere il riconoscimento e ribadisce costantemente che preferisce pensare alla continuità costituita dalla reciprocità del conflitto piuttosto che alla discontinuità suggerita dal donarsi del volto come differenza e infinito, come ponte verso un’identificazione autenticamente morale. Perché? Il motivo è piuttosto evidente: nel parossistico pessimismo dell’ultima fase del suo pensiero, la rivelazione coincide immediatamente con il suo esito apocalittico. La distruzione sarebbe quindi la prova della stessa rivelazione, a mio modo di vedere attestando, al contempo, una segreta tentazione gnostico-manichea ed insieme tradendo, mostruoso doppio della sfiducia nella natura e nelle capacità umane, una sotterranea e indicibile sfiducia in Cristo, la cui opera, compresa tra Storia e Regno, si esaurirebbe nella sublimazione eterna di una violenza umana troppo umana.
Nel fatalismo mimetico girardiano, dunque, Clausewitz, cioè la figura storica che annuncia per la prima volta sul piano teorico di una dottrina complessiva della guerra il partigiano quale sostanzialmente lo conosciamo nella realtà della guerra contemporanea, viene interpretato prima di tutto come una maschera del risentimento e solo in seconda battuta come una figura capace di rivelazione. Diciamolo meglio: è proprio il risentimento che divampa nei cerchi infernali più profondi della mediazione interna ciò che conduce Clausewitz, secondo l’esegesi girardiana, all’intuizione rivelativa rispetto all’essenza della guerra come azione reciproca e alla sua rischiosa verità come tendenza all’estremo.
Sin dai tempi di Menzogna romantica e verità romanzesca e Dostoevskij – Dal doppio all’unità, Girard ha sempre ricondotto l’esperienza della conversione all’abiezione del risentimento e dell’inferno della mediazione interna ma il grande romanziere, riconoscendosi infestato e agito dalle stesse perversioni orgogliose e rivalitarie che attribuisce unicamente all’esistenza altrui, è in grado di rendere viva tale verità romanzesca donando voce ai personaggi e, attraverso le loro relazioni e i loro intrecci, testimoniare al lettore la possibilità di una riscrittura dei rapporti con l’altro. A Clausewitz non è concesso nulla di tutto ciò (quasi a sottintendere che la rivelazione romanzesca sarebbe monopolio esclusivo dei romanzieri): nella ragionatissima prosa del prussiano ogni elemento riconduce all’astioso risentimento verso il modello-ostacolo Napoleone senza incontrare spiraglio di luce alcuno.
Scopriremo più avanti, confrontandolo con quello di Schmitt e con alcune notazioni di Aron, che il ritratto storico-letterario di Clausewitz impostato da Girard è quantomeno parziale e derubrica a marginali, o meglio oblia integralmente, tutta una serie di aspetti che contribuiscono a configurare un ritratto ben più complesso e contraddittorio dell’uomo d’azione e teorico della guerra prussiano.
Ma tornando alla strategia argomentativa girardiana è sintomatico come, sin dalle prime battute del dialogo con Benoit Chantre, egli desideri comporre un quadro teorico (immaginiamolo proprio come un dipinto) in cui, procedendo secondo una progressione prospettica, debba essere chiaramente riconoscibile in primo piano il furioso risentimento di Clausewitz verso il modello-ostacolo Napoleone: un’ossessione mimetica tanto intensa da eclissare e riorganizzare il senso di qualsiasi altra mediazione possibile nella vita del generale prussiano e che, nella sua scandalosa fissazione, avrebbe prodotto in isolati e vertiginosi punti della sua astrazione teorica concetti dalla forma quanto più possibile asettica e algebrica, immagine perfettamente speculare degli stadi più profondi della mediazione interna.
Il sole del risentimento illumina così il secondo piano, quello delle grandi intuizioni teoriche che, secondo Girard, vanno considerate esclusivamente nella loro folgorante astrazione, nella loro dimensione assoluta, ideale, paradossale: sulla tensione intrinseca alla guerra verso la radicale semplificazione del duello e sul fantasma della tendenza all’estremo infestante qualsiasi grado di intensità della lotta (dall’osservazione armata alla battaglia decisiva per abbattere l’avversario perché in ogni caso, sostiene Girard, «le “guerre reali” in qualche misura mascherano la “guerra assoluta”, alla quale tendono senza saperlo» (3)) abbiamo già ampiamente accennato, sottolineando costantemente come lo studioso francese proietti sul pensiero di Clausewitz, attentissimo prima di tutto a parlare della guerra per come è realmente e non per come dovrebbe essere, la propria allergia verso tutti quegli elementi che lo allontanano dalle regioni rarefatte dell’astrazione, quasi che Clausewitz, spogliando i propri assiomi della loro essenza noumenica e saggiandoli alla prova della realtà, facesse un torto al religioso razionalismo di Girard stesso, in questa fase sedotto da prospettive gnostico-accelerazioniste («Il suo [di Clausewitz] rifiuto o la sua incapacità di pensare fino in fondo la logica del duello è sintomatico di una sconfitta del pensiero come di una regressione della storia europea verso un sacro degradato» (4)).
Infine, nel punto di fuga prospettico, avvolto in una luce glaciale e sinistra, annuncio di passate e future catastrofi, vediamo allontanarsi lo spettro del partigiano. Nell’ottica di Girard il partigiano realizza un’esistenza a-relazionale nel solco di un rilancio perenne della violenza; egli è soggetto immediatamente universale e diviene la figura cui spetta declinare la natura psicologica del risentimento clausewitziano in una precisa evoluzione storico-spirituale. Ignorando il portato relazionale custodito dalla/nell’azione partigiana, recidendo quindi ogni legame costruito orizzontalmente, nella concretezza di una quotidianità in cui il senso di ciò che si difende è espresso immediatamente nei volti e nella terra di chi vive lo stesso spazio e lo stesso tempo, Girard, nell’economia della sua teoria, ha gioco nel ridurre il partigiano a semplice funzione. Essendo plasmato dal fango della reciprocità mimetica, dal radicale sentimento ostile che informa l’inimicizia assoluta schmittiana (ossia la criminalizzazione del nemico e quindi la teologizzazione della guerra mediante la reintroduzione della justa causa), il partigiano diviene il catalizzatore dialettico di tutte le transizioni verso regimi di violenza quanto più intensi tanto meno normati e, per dirla con Foucault, funge da «scambiatore» in quanto la sua stessa esistenza produce la possibilità dell’inversione dei rapporti che intercorrono tra guerra e politica, portando a compimento in un senso totalmente negativo e drammatico l’iconica frase di Clausewitz sulla «guerra come prosecuzione della politica con altri mezzi». Quest’ultima, da monito alla politica degli Stati che dovranno essere responsabili e all’altezza di decisioni epocali per governare e trattenere la guerra che cresce dentro di essi, diventerebbe il manifesto ideologico-universalistico di uno Stato ridotto all’espressione di un partito in cui l’ostilità assoluta si esprime integralmente in una «intenzione ostile» davanti alla quale nessuna alterità avrà patente di riconoscimento alcuno e ogni nemico diverrà necessariamente un nemico ingiusto.
Ma tale radicale ipostatizzazione proposta da Girard adombra un aspetto cruciale che, al contrario, Schmitt, pur senza ricavarne un’apertura messianica alternativa, è sempre molto attento nel portare e poi tenere alla luce: la genealogia istantanea di Girard nasconde il fatto che esistono due forme della lotta partigiana e, di conseguenza, due tipi emblematici che incarnano tali forme di lotta: al partigiano ideologico risponde, divergendo, il partigiano tellurico.
Un’ulteriore biforcazione da considerare e tematizzare sarebbe poi quella del sacrificio del reale sull’altare dell’ideale anche per ciò che concerne la difesa della patria: a un partigiano che difende la patria come ideale (ossia perde il senso della concretezza dell’azione e della cura in vista di un progetto che contempla il soggetto universale della storia, laddove l’universale taglia trasversalmente il piano delle relazioni disconoscendo l’esistenza singolare e concreta), il presente saggio propone una lettura volutamente eretica e “altra” del partigiano tellurico illustrato da Schmitt: un partigiano che difenda la patria intesa come intreccio delle trame relazionali le quali fanno concretamente della propria terra una dimora, che hanno di mira la dimensione domestica e intima dell’aver-a-che-fare-con e che, pertanto, non sacrifichi se stesso e il prossimo in vista di un’idea disincarnata, dimentica dei volti.
«L’apocalisse non annuncia la fine del mondo, ma fonda una speranza. (…) la speranza è possibile solo per chi osa pensare i pericoli del momento» (5). Il partigiano tellurico, opponendosi propriamente al partigiano ideologico, è colui che vede, si carica della responsabilità e difende il prossimo dal rischio della distruzione e della perdita; è colui al quale la rivelazione apocalittica si dona come evento che anticipa la costituzione stessa del “politico” in senso schmittiano, come decisione differenziante tra amico e nemico. Per frenare l’apocalisse retrocede ad una posizione difensiva, a protezione delle relazioni che rendono fitta la trama dell’identità.
Il partigiano tellurico difende dalla violenza indifferenziante dando concretezza e durata temporanea all’inimicizia (senza prestare il fianco ad ingenuità e utopie, vi è piena consapevolezza del fatto che il mantenersi saldi nell’inimicizia concreta tenendo a bada la tentazione dell’inimicizia assoluta sia una prospettiva non sistematica e generalizzabile, disperatamente condannata ad un “forse”). La posizione del saggio è tesa a mostrare come nella risposta girardiana al montare agli estremi della violenza vi è un problema attinente la natura di ciò che abbiamo definito “postura del ritiro”: l’ambiguità girardiana sembra silenziosamente corroborare una posizione che rischia di trasformare il ritiro quale forma di relazione, quale dono in vista del riconoscimento altrui (“in vista del” e non “in cambio di”), in una sterile accettazione di un universalismo che si impone, dell'azione aggressiva del partigiano ideologico, della pace dei cimiteri come liquidazione di qualsiasi esistenza relazionale.
Nel deserto prodotto dal sole del risentimento si staglierebbe inoltre una seconda problematica intuizione che Girard attribuisce impropriamente a Clausewitz, rendendola punto argomentativo dirimente per far convergere lo spirito del risentimento sin dentro la tattica militare ed estraendone poi lo schema per le trasformazioni dialettiche della storia (una dialettica, lo ricordo, orfana di una riconciliazione in grado di guardare negli occhi il negativo): «il conquistatore vuole la pace, il difensore vuole la guerra».
Per suffragare questa paradossale presa di posizione Girard fa riferimento al collasso dell’esercito napoleonico nella campagna di Russia, in particolare alla strategia di ritirata e differimento della battaglia decisiva orchestrata da Kutuzov come momento esemplare di una difesa che affila nel risentimento e nella distruzione concessa al nemico le armi del proprio contrattacco, ed insieme ad un rimando al capitolo VII intitolato Reciproca reazione fra l’attacco e la difesa contenuto nel Libro VI del Vom Kriege dedicato alla strategia e alla tattica difensiva. Da come è strutturato il sistema argomentativo di Portando Clausewitz all’estremo risulta subito chiaro come l’interpretazione della difesa sia un passaggio assolutamente decisivo: non ho timore nel sottolineare tuttavia che, proprio presso tale crocevia ermeneutico, Girard dà prova di una lettura parziale e piena di strategiche omissioni, alimentando il sospetto che il testo clausewitziano venga particolarmente forzato per certificare, anche in una compiuta e fondamentale teoria della guerra, la verità della rivelazione della reciprocità mimetica. La scrittura di Clausewitz viene in questo modo domesticata fino alla deformazione, mentre il lettore non avvezzo alla prosa del prussiano verrà spinto a figurarsi dei concetti sradicati dal contesto di appartenenza e innestati nel terreno già fecondo del desiderio mimetico (con particolare riguardo verso la mimesi d’appropriazione). Ecco la citazione tagliata del Vom Kriege che Girard offre al lettore: «Se ricerchiamo filosoficamente l’origine della guerra, non è nell’attacco che vediamo sbocciarne il concetto, poiché esso non ha per scopo assoluto la lotta quale presa di possesso; ma ha invece origine nella difesa, poiché questa ha per scopo assoluto la lotta, essendo il respingere l’attacco e il combattere una cosa unica.
(…) è dunque naturale che colui il quale introduce per primo nell’azione l’elemento della guerra, da cui scaturisce l’esistenza iniziale di due antagonisti, stabilisca anche le prime leggi della guerra; e questo è il difensore» (6).
Farei notare subito un paio di elementi con l’intenzione di rendere manifesto al lettore il circolo vizioso in cui finisce per cadere l’interpretazione dell’illustre studioso francese. In primo luogo, quando Clausewitz introduce il ragionamento con un «Se ricerchiamo filosoficamente l’origine della guerra» occorre leggerlo come un segnale di rimando verso le zone della teoria più astratte e algebriche in cui, tendenzialmente, il generale prussiano, lungo lo svolgimento dell’intera opera, sviluppa dei concetti che utilizza come dei veri e propri intermezzi per sovvertire con sintesi quasi aforistica un’intera tradizione di teoria della guerra e una manualistica di strategia e tattica che illustri professori e generali suoi contemporanei hanno sempre restituito come verità inconfutabile.
Se volessimo sintetizzare in una frase il senso dell’impresa teoretica clausewitziana, la sua grande rivoluzione concettuale, dovremmo dire che la sua teoria fa della guerra un elemento dinamico, schiodandola da quell’impostazione che vede la verità unicamente nella definizione della sua statica e invariabile essenza. O meglio, nonostante l’impostazione teorica scelta da Clausewitz rimandi allo schematismo kantiano e quindi all’individuazione di elementi a priori che permettono di riconoscere le “invariabili” della guerra reale nella sua evoluzione storica e nelle sue differenti espressioni tattiche, tale teoria non permette però facili ipostatizzazioni e non reifica la realtà facendone una statua ad immagine del concetto.
Fare della guerra un elemento dinamico significa effettivamente legarla alla reciprocità, all’intercambiabilità strategico-tattica cui sono costretti gli eserciti, alla natura effimera e casuale della realtà, così che la radicale prospettiva del prussiano rende particolarmente difficile fissare in semplice antitesi attacco e difesa: per Clausewitz, in sede strategica, non esiste a rigore né attacco né difesa; non così però in sede tattica, laddove tuttavia il passaggio da attacco a difesa (e viceversa) dei vari schieramenti può essere anche repentino e improvviso. A Clausewitz il riflettere sulla formazione di attacco e difesa in un processo di reciproco condizionamento e reazione serve prima di tutto per confutare, riflettendo sulla realtà delle battaglie (alcune da lui stesso combattute al fronte), quelle antiquate posizioni secondo cui solo l’attacco svolge un ruolo attivo mentre la difesa consisterebbe esclusivamente in un’attesa passiva.
Clausewitz, attentissimo lettore di Machiavelli e Tucidide, ci getta nelle tenebre del realismo politico in cui, sostanzialmente, da un punto di vista strategico, diventa un lusso poter scegliere tra attacco e difesa. Attenzione però: questo ragionamento non fa venir meno l’importanza del diritto quale strumento per regolare gli esiti o i mezzi adoperati in un conflitto; ugualmente, non viene meno l’importanza dello Stato come cuore dell’orientamento strategico dell’intenzione ostile e del controllo del sentimento ostile animante il popolo. In generale, Girard sembra non comprendere che proprio Clausewitz sia un pensatore che vede lucidamente come la capacità diagnostica della politica in quanto attività strategica sia esattamente la condizione per poter leggere la situazione esistenziale di due o più schieramenti che si affrontano: è la natura strategica della politica che comporta necessariamente lo sviluppo e la dilatazione in senso spazio-temporale della relazione tra i due fronti (questo da un punto di vista strettamente tattico-militare); è quindi proprio la politica che permette di reintrodurre la componente temporale in grado di disinnescare la tendenza all’estremo necessariamente legata a un’assoluta simultaneità. Detto altrimenti, la reciprocità mimetica intuita da Clausewitz non adombra necessariamente la guerra assoluta dell’ascesa agli estremi nella forma della rinuncia a qualsivoglia decisione politica.
Dicevamo inoltre – ed è questo un secondo elemento cruciale per decostruire correttamente l’assioma girardiano illustrato in precedenza – che la manovra orchestrata da Girard intorno alla questione della guerra difensiva e dei rapporti che intercorrono tra attacco e difesa è totalmente finalizzata a separare surrettiziamente le intuizioni di Clausewitz dal loro contesto d’appartenenza (quindi presupponendo necessariamente l’esistenza di pratiche, rapporti e istituzioni che informano la materia politico-giuridico-militare come declinazione dell’impostazione derivata dallo schematismo kantiano) per ricollocarle o nel terreno disincarnato del concetto o in quello etologico e antropologico (7) facendo passare per conseguente e necessario un corollario in realtà ambiguo, insostenibile e aberrante: l’aggressione non esiste. Le drammatiche violenze intercorse tra Francia e Germania negli ultimi due secoli sarebbero quindi da leggere come mero epifenomeno, come realizzazione di una verità inscritta geneticamente nell’essere umano, come un ulteriore passo di avvicinamento alla verità contenuta nel concetto.
La filosofia della guerra di Girard sussiste solo sviluppandosi secondo una matrice reattiva, fiorendo sul ramo della reciprocità mimetica. Ogni polarità locale, ogni vittoria che, a livello tattico, esclude necessariamente quella dell’avversario, ne nasconderebbe una più tremenda perché, secondo la logica reattiva in cui la difesa già comprende l’attacco avversario, la concatenazione di rappresaglie e contro-rappresaglie culminerà sempre in una risoluzione ancora più distruttiva. Tale polarità provvisoria e parziale si dispiega, secondo Girard, come polarità differita: «Pensi a Napoleone, sempre costretto ad attaccare mobilitando una quantità crescente di forze! Chi difende, in compenso, può preparare un contrattacco decisivo, più temibile dell’attacco iniziale: è allora, ma solo allora, che la polarità entrerà in azione» (8).
In secondo luogo, dalla citazione del Vom Kriege estrapolata da Girard, il lettore dovrebbe dedurre, nelle intenzioni del francese, che il concetto di difesa comprende (da intendere nel senso più forte e stringente possibile) quello di attacco. Girard afferma che «il difensore è al tempo stesso chi inizia e chi conclude la guerra. È lui che determina, attraverso la natura delle sue fortezze, dei suoi eserciti, e anche del suo stesso comando, come sarà l’attacco. A lui spettano la scelta del campo di battaglia e il sostegno del popolo, oltre al beneficio dell’usura dell’attacco, il cui slancio iniziale finisce per affievolirsi; ed è lui a decidere, da ultimo, il momento del contrattacco. Il difensore è quindi padrone del gioco» (9). Ma è questo che realmente sostiene Clausewitz? Diventa nuovamente manifesto come l’assegnare una precedenza ontologica alla difesa piuttosto che all’attacco sia per Girard la chiave per disporre gli elementi di una teoria della guerra in funzione di una posizione passivo-aggressiva, immediatamente risentita e reattiva, del difensore. In realtà Clausewitz, precisamente nel punto eclissato da Girard nella citazione da cui siamo partiti, sembra esprimere esattamente l’opposto rispetto ai concetti desunti dallo studioso francese: «La difesa non esiste che contro l’attacco, e cioè presupponendolo necessariamente; l’attacco invece non esiste in funzione della difesa, bensì della presa di possesso, e quindi non presuppone necessariamente la difesa» (10). Da questa frase possiamo ricavare diversi elementi:
1- secondo Clausewitz vi è una precedenza ontologica e cronologica dell’attacco rispetto alla difesa, ossia è il palesarsi alle frontiere dell’attaccante, con le sue pretese aggressive, che trasforma la frontiera in un fronte, il suolo patrio in un teatro di guerra e l’esercito nemico in un difensore.
2- Idealmente (e, badate bene, anche in questo frangente Clausewitz si premura di ricordare al lettore che «è ovvio che qui non ci riferiamo al caso particolare, bensì al caso astratto di cui la teoria ha bisogno per determinare il proprio sviluppo» (11)), pare suggerire il generale prussiano, l’attaccante non dispone il suo piano strategico in funzione di una guerra (decisamente il peggiore degli scenari possibili) ma in funzione di una “semplice” presa di possesso, questo avviene perché «per l’attaccante invece, finché egli non sapesse nulla dell’avversario, non esisterebbero motivi determinanti la sua condotta e l’impiego dei suoi mezzi di lotta. L’attaccante non potrebbe che farsi accompagnare da questi mezzi, cioè prendere possesso del territorio nemico mediante un esercito. Così è in realtà, perché creare dei mezzi di combattimento non significa ancora impiegarli, e l’attaccante, che li porta con sé e che prende possesso del paese con le truppe invece di farlo con proclami e commissari civili, non svolge ancora un atto di guerra propriamente detto» (12). Senza entrare ora nei dettagli, diventa subito chiaro quale pace il conquistatore prefiguri e offra al nemico, quale pace desideri lo stratega che arriva a minacciare le frontiere di uno Stato pre-definito come nemico e, di conseguenza, diviene altrettanto palese quanto sia fuorviante sostenere che il difensore desideri la guerra, perché al massimo potremmo spingerci a dire che il difensore è costretto a volere la guerra.
Tra gli articoli preliminari per la pace perpetua tra gli Stati, Kant inserisce questo al primo posto: «Nessun trattato di pace può considerarsi tale, se è fatto con la tacita riserva di pretesti per una guerra futura». Clausewitz, al contrario (e in pieno stile tucidideo), continua a sottolineare come i risultati strategici scaturiscano dalla somma di quelli tattici: vittorie necessariamente parziali che possono tradursi nella presa di una piazzaforte nemica, nella distruzione di obiettivi sensibili, nella presa della capitale o di posizioni e infrastrutture strategiche ma anche nella singola vittoria di una battaglia decisiva; in ogni caso, interesse dell’attaccante è siglare quanto prima un trattato di pace che certifichi il vantaggio territoriale e militare acquisito. È chiaro dunque che, tornando a Kant, una pace concepita in questo modo è per definizione un totale controsenso: «Sarebbe infatti un semplice armistizio, una sospensione di ostilità, non pace, che significa la fine di ogni ostilità», chiaramente partendo dal riconoscimento dell’esistenza giuridico-politica di una pluralità di Stati così da rendere immanente il limite della potenza di ciascun sovrano [«La riserva di antiche pretese da farsi valere in avvenire (delle quali nessuna parte del trattato può per il momento far menzione, perché i due contraenti sono troppo esausti per continuare la guerra) e da sfruttare con malvagia volontà alla prima occasione favorevole a questo scopo, rientra nella casistica gesuitica ed è indegna dei sovrani» (13) (un’immoralità da leggere come perfetta applicazione sacrificale e omicida dei principi della ragion di Stato, secondo cui, prescindendo dai mezzi, l’onore e il senso stesso dello Stato consisterebbe nell’accrescimento continuo di potenza)].
Il conquistatore vuole quindi qualcosa di ben peggiore della guerra: vuole l’eliminazione di qualsiasi forma di resistenza di fronte al suo calcolo strategico; la prospettiva di pace di cui si fa portatore palesandosi al fronte viene a definirsi attraverso il disconoscimento dell’esistenza socio-politica altrui, si fonda cioè sull’oblio del “politico” come possibilità di relazione polare, di configurazione a partire da una differenza tra amico e nemico; in altri termini, il conquistatore vuole la pace nella misura in cui l’altro, idealmente, non ha nemmeno diritto ad essere suo nemico e viene astrattamente destituito dallo status di nemico potenziale a qualcosa di inesistente, a semplice cosa, risorsa, territorio: un puro mezzo di cui si può legittimamente prendere possesso e disporre.
3- Acquista dunque tutto un altro significato la frase «è dunque naturale che colui il quale introduce per primo nell’azione l’elemento della guerra, da cui scaturisce l’esistenza iniziale di due antagonisti, stabilisca anche le prime leggi della guerra; e questo è il difensore»: è assolutamente fuorviante leggere tale affermazione in direzione di un risentimento originario che predispone il difensore alla guerra, o, ancor più grave, attribuire surrettiziamente al difensore la responsabilità del conflitto e l’escalation delle distruzioni. Il difensore, per Clausewitz, introduce, o meglio, deve introdurre l’elemento della guerra come segno di r/esistenza, come ultimo baluardo in attesa (ecco un’interessante sfumatura consentita dal fattore temporale nella teoria clausewitziana) del riconoscimento, come desiderio di non soggiacere alle pretese del conquistatore che procedono in direzione del misconoscimento e dell’abiura dell’esistenza altrui. Disporsi alla guerra significa, per lo Stato difensore, farsi traccia non inscrivibile nel sistema simbolico ordito dalla strategia universalistica del conquistatore. Già nel capitolo V (Carattere della difensiva strategica) sempre contenuto nel libro dedicato alla guerra difensiva, Clausewitz, unendo l’acume teorico dell’intellettuale al drammatico e irrealizzato fervore imposto dall’urgenza del preciso momento storico, asserisce che «indubbiamente il conquistatore si decide alla guerra prima che il difensore ne abbia sentore e se sa mantenere il segreto circa i preparativi, riuscirà molto probabilmente a sorprendere l’avversario. Ma questa è una circostanza del tutto estranea alla guerra, poiché non dovrebbe essere così. La guerra è più necessaria al difensore che al conquistatore, perché è un’invasione che ha provocato la prima difesa, e con essa la guerra. Il conquistatore ama sempre la pace (Napoleone lo ha sempre affermato nei propri riguardi) e pretenderebbe entrare tranquillamente e senza opposizione nel nostro Stato; ora noi dobbiamo volere la guerra, e quindi prepararla, appunto per impedirglielo. In altri termini, significa che sono precisamente i più deboli, coloro cioè che sono esposti a doversi difendere, che debbono sempre essere armati per non venire sorpresi. Ecco ciò che richiede l’arte della guerra» (14). Queste parole, da leggere retrospettivamente come disperata ucronia, oltre a testimoniare il dolore e la frustrazione intellettuale e morale di Clausewitz per le scelte politiche intraprese dalla Prussia, sono fondamentali per l’argomentazione del presente saggio perché sconfessano integralmente la linea argomentativa scelta da Girard. Nelle omissioni, nelle piccole modificazioni e negli impercettibili slittamenti costantemente ripetuti da Girard durante la sua lettura del Vom Kriege riconosciamo una prassi ermeneutica rovinosa che riduce i testi a luoghi in cui la propria teoria può specchiarsi e vedersi teleologicamente confermata. Davanti alla trascrizione di questi passaggi, come può il lettore credere che una delle intuizioni più inquietanti e paradossali di Clausewitz sia la segreta volontà di guerra del difensore? Il difensore non vuole alcunché, non esercita liberamente alcuna scelta: per difendere e testimoniare la sua esistenza, è necessariamente costretto a volere la guerra.
Che Girard poi attribuisca impropriamente a Clausewitz, per giunta con una forzatura nella significazione, un motto napoleonico pare un lapsus particolarmente rivelativo: al centro del palinsesto girardiano non riconosciamo tanto lo scandalo mimetico di Clausewitz verso il modello-ostacolo Napoleone quanto lo scandalo dello stesso Girard verso la propria teoria.
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(1) René Girard, Portando Clausewitz all'estremo, Adelphi, Milano, 2008; cfr. p. 38.
(2) Cfr. almeno Emmanuel Lévinas, Totalità e Infinito - Saggio sull'esteriorità, Jaca Book, Milano, 1980 e Emmanuel Lévinas, Altrimenti che essere o al di là dell'essenza, Jaca Book, Milano, 2011.
(3) René Girard, Portando Clausewitz all'estremo, p. 45.
(4) René Girard, Op. cit., p. 165.
(5) René Girard, Op. cit., p. 17.
(6) Cfr. Karl Von Clausewitz, Della guerra - volume II, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1970, p. 473; René Girard, Op. cit., p. 46.
(7) Girard, silenziosamente, richiama in causa alcune sue posizioni approfondite e tematizzate ne La violenza e il sacro e in Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo: poiché l’uomo, a differenza degli altri animali, non riconosce naturalmente, ossia istintivamente, i pattern di dominanza intraspecifici, può sempre rispondere ad una aggressione con una rappresaglia aprendo il campo della rivalità a mezzi che esondano il puro ambito della forza. Possiamo avvalerci di alcune luminose pagine di Hobbes contenute nel capitolo XIII (Della condizione naturale dell’umanità per quanto concerne la sua felicità e la sua miseria) della prima parte del Leviatano per sottolineare l’intrinseco legame tra eguaglianza, mimesi d’appropriazione e reciprocità violenta: «La Natura ha fatto gli uomini così uguali nelle facoltà del corpo e della mente che, sebbene si trovi talvolta un uomo manifestamente più forte fisicamente o di mente più pronta di un altro, pure quando si calcola tutto insieme, la differenza tra uomo e uomo non è così considerevole, che un uomo possa di conseguenza reclamare per sé qualche beneficio che un altro non possa pretendere, tanto quanto lui. Infatti riguardo alla forza corporea, il più debole ha forza sufficiente per uccidere il più forte, o con segreta macchinazione o alleandosi con altri che sono con lui nello stesso pericolo [un’uguaglianza drammaticamente esaltata dall’attribuzione di una falsa superiorità in tutte quelle facoltà riferibili al campo dell’ingegno]. (…) Da questa eguaglianza di abilità sorge l’eguaglianza nella speranza di conseguire i nostri fini. E perciò, se due uomini desiderano la stessa cosa, e tuttavia non possono entrambi goderla, diventano nemici, e sulla via del loro fine (che è principalmente la propria conservazione, e talvolta solamente il loro diletto) si sforzano di distruggersi o di sottomettersi l’un l’altro. (…) Da questa diffidenza dell’uno verso l’altro non c’è via così ragionevole per ciascun uomo di assicurarsi, come l’anticipazione, cioè il padroneggiare con la forza o con la furberia quante più persone è possibile, tanto a lungo, finché egli veda che nessun altro potere è abbastanza grande per danneggiarlo; (…) Inoltre, per il fatto che ci sono alcuni che prendono piacere nel contemplare il proprio potere in atti di conquista, che essi spingono più lontano di quanto richieda la loro sicurezza, se gli altri, che diversamente sarebbero lieti di starsene quieti entro modesti limiti, non accrescessero con l’aggressione il loro potere, non sarebbero in grado, con lo stare solo sulla difensiva, di sussistere a lungo. (…) Ancora, gli uomini non hanno piacere (ma al contrario molta afflizione) nello stare in compagnia, ove non ci sia un potere in grado di tenere in soggezione tutti. Ogni uomo infatti bada che il suo compagno lo valuti allo stesso grado in cui egli innalza se stesso; e ad ogni segno di disprezzo o di scarsa valutazione, naturalmente si sforza, per quanto osa (…) di estorcere una valutazione più grande, da quelli che lo disprezzano arrecando loro danno e dagli altri con l’esempio». (Thomas Hobbes, Leviatano, BUR - Rizzoli, Milano, 2012, pp. 127-128-129). Competizione, diffidenza e gloria sono le principali cause della condizione infernale in cui l’uomo versa nello Stato di natura e determinano, secondo Hobbes, la salvifica urgenza del Patto che produce la società civile evocando il Leviatano come sovrano e garante. Per Girard le medesime passioni sono sostanzialmente causa della crisi mimetica che soltanto l’istituzionalizzazione rituale del sacrificio di un capro espiatorio potrà sventare generando l’ordine sociale con la sua trascendenza, le sue gerarchie, le sue differenti pratiche discorsive e di potere.
(8) René Girard, Op. cit. p. 45.
(9) René Girard, Op. cit., pp. 46-47.
(10) Karl Von Clausewitz, Op. cit., p. 473.
(11) Karl Von Clausewitz, Op. cit., p. 473.
(12) Karl Von Clausewitz, Op. cit., p. 474.
(13) Immanuel Kant, Per la pace perpetua - Progetto filosofico., contenuto in Scritti politici, UTET - Libreria, Torino, 2010, p. 284.
(14) Karl Von Clausewitz, Della guerra, p. 463.
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