Quando si parla di mito, ci sono due considerazioni che vengono pacificamente accettate più o meno da tutti, sia studiosi che non: il mito è un fenomeno universale presente in tutte le culture, il mito non descrive come stanno realmente le cose. Ognuna di queste due considerazioni presa singolarmente ha tutta la parvenza di essere auto-evidente e, infatti, risulta essere perlopiù un assioma di qualsiasi analisi e riflessione, piuttosto che una conclusione; ma nel momento in cui le si accosta, balza all’occhio qualcosa di paradossale. Com’è possibile che tutte le culture abbiano sbagliato a descrivere come stanno realmente le cose? Com’è possibile lo stesso errore così sistematico?
Di quanto non siano così pacificamente conciliabili queste due indiscusse convinzioni si era già reso conto niente meno che il padre della sociologia contemporanea, Émile Durkheim. In Le forme elementari della vita religiosa (1912) la principale critica che egli muove alle altre teorie consiste proprio nella loro incapacità di dare una spiegazione convincente sul motivo per cui l’uomo senza un approccio scientifico sarebbe sistematicamente portato a fraintendere le proprie esperienze, elaborando quindi narrazioni mitiche. La sua ipotesi avrebbe invece il merito di trovare una giustificazione adeguata, rispettando così e al contempo confermando la correttezza di entrambe le due indiscusse convinzioni.
Lo sforzo teoretico di conciliarle, che con il padre della sociologia contemporanea è ancora abbozzato, arriva a una soluzione particolarmente strutturata all’interno di una teoria antropologica con La violenza e il sacro (1972) di René Girard e il suo concetto di misconoscimento. L’errore sistematico, la narrazione mitica, insorgerebbe perché l’uomo sarebbe portato a misconoscere la realtà di certe cose.
Il mito dunque nell’ambito della cultura e del linguaggio sarebbe a tutti gli effetti il segno di una sorta di “peccato originale” all’inizio del percorso conoscitivo. A causa di uno scandalo di fronte a certe cose, una “caduta”, l’uomo produrrebbe racconti mitici, ma qualora si riaccosti all’esperienza libero da tutte le categorie mitiche e acceda a quel piano “pre-categoriale” tanto agognato dai filosofi, allora potrebbe conoscere come stanno realmente le cose.
Contro questa tesi apparentemente incontrovertibile è stata già svolta un’analisi delle produzioni letterarie di H. C. Andersen e J. R. R. Tolkien, eppure l’esempio che ad oggi forse più si presta per criticarla è Shingeki no kyojin di Hajime Isayama. L’intenzione, pertanto, non è soltanto di allargare il campo di analisi di un fenomeno che davvero è universale, prendendo in considerazione un autore che rispetto ai due già affrontati si colloca da un lato molto lontano dal punto di vista spaziale e culturale e dall’altro ancora più vicino dal punto di vista temporale e storico, cosa di per sé pur sempre proficua. L’obiettivo innanzitutto è quello di apprezzare il profondo spessore del lavoro del fumettista giapponese, cogliendo come esso ribatta in maniera straordinariamente puntuale alla tesi esposta in questa introduzione e porti avanti un’ipotesi che è esattamente quella contraria.
Isayama arriva a sfidare forse ancora più apertamente di Tolkien la mentalità moderna, che è riuscita a ridurre i libri dello scrittore inglese a capostipiti di un genere “fantasy” inteso come esercizio della fantasia per puro diletto, o tuttalpiù per esprimere simbologie infantili, che al posto di offrire un vero punto di vista alternativo, “inattuale” in un senso autentico, atrofizza le capacità critiche. Elemento decisivo all’interno di una narrazione come quella di Shingeki no kyojin è che non è assente una prospettiva “empirista-positivista” (è opportuno precisare che l’espressione è volutamente generica, non si riferisce a una specifica corrente filosofica, vuole anzi comprendere anche il “senso comune”), ma è proprio questa a indurre a una comprensione sistematicamente errata di come stanno realmente le cose, mentre esse sono portate alla luce quando invece interviene il linguaggio più mitico.
Ciò non viene realizzato cercando di dimostrare che non sarebbe vero che il mito rielabora il dato empirico, non lo lascia “puro” così com’è. Proprio il fatto che in quest’opera si alternino situazioni molto realistiche e altre molto mitiche rende massimamente palese che il mito davvero maschera la realtà. Eppure è nel suo procedere a mascherare in maniera del tutto esplicita, non-celata, quindi non-ingannevole, che il mito dimostra una straordinaria potenzialità di portare in scena, esibire, mostrare come stanno realmente le cose. Soprattutto quelle cose che così come si danno nell’esperienza puramente empirica non sono affatto così intuitive e tendono a restare nascoste, grazie a una maschera possono salire sul palcoscenico di quelle che invece sono manifeste.
Il mostro
Il primo dato che fa subito capire che Isayama ha scelto di raccontare un mito è che compaiono i Giganti. Il mostro in effetti è la figura mitica per antonomasia, ciò che si pensa del mito è in ultima istanza determinato da ciò che si pensa dei suoi mostri. Nulla maschera in maniera più emblematica del mostro come stanno realmente le cose, il mostro è la maschera per eccellenza, eppure il termine “mostro” è noto che ha la stessa etimologia del verbo “mostrare”. E in Shingeki no kyojin cosa viene mostrato?
I Giganti irrompono nella vita degli esseri umani, avanzano inarrestabili per divorarli con facce inespressive, compiono una violenza indiscriminata e insensata nella misura in cui non risponde a nessun bisogno.
Per un empirista-positivista tutto ciò è assurdo. Non perché neghi la realtà della violenza, ma perché non vede come mai dovrebbe essere “mostruosa”. Così non la si sta descrivendo in maniera caricaturale? Non la si sta mistificando?
Posti sotto l’osservazione dell’empirista-positivista questi Giganti perdono subito credibilità: si rigenerano all’infinito tranne in un punto che non corrisponde a niente di vitale, ma soprattutto non si nutrono né si riproducono. Come si fa a crederci? Nessun mito antico con la pretesa di presentare una specie esistente l’avrebbe mai descritta in questo modo. Ma Isayama se lo può permettere proprio perché ha un pubblico moderno e un pubblico moderno fa solo finta di credere ai Giganti, per lasciarsi appassionare dalla storia. Un pubblico moderno sa già che i Giganti non esistono. Ma allora cosa sarebbero in realtà i mostri?
L’empirista-positivista è sicuro che ciò che li rende tali è solo una reazione emotiva. Il terrore, la rabbia, l’odio danno consistenza a un essere mostruoso, ma non appena ce se ne libera e si analizza i dati “puri”, scevri da tutto ciò, ecco che quella consistenza si dissolve.
Dei Giganti si può parlare, li si può vedere, li si può combattere e contro di loro si può pure morire, ma la grande consapevolezza dell’empirista-positivista è che essi comunque non esistono (non per nulla un famoso articolo di un importante filosofo del Novecento, On What there is di Quine, si è prodigato ad argomentare come non si debba attribuire alcuna esistenza a qualsiasi personaggio dei miti).
Invece è sbagliato. L’abitudine a vedere i mostri compiere atrocità induce a dare per scontato che sia questo il dato di partenza che determina quella denominazione da parte delle narrazioni mitiche, senonché in Shingeki no kyojin viene mostrato che le cose non stanno realmente così. Certamente gli orrori causati dai Giganti non conferiscono loro nessuna consistenza, ma infatti il mito non dice che è producendo violenza che si generano, che diventano tali. È subendola.
Ecco allora che nel momento in cui il racconto torna ad essere molto mitico, la realtà del mostro appare improvvisamente non meno indubitabile addirittura di quella dell’essere umano stesso (da Cartesio in poi l’indubitabile per eccellenza).
Si immagini, infatti, che in un conflitto uno venga abbattuto. Si può giudicare se sia una vittima innocente o un colpevole punito, se lo si debba compiangere e magari rendergli giustizia, oppure deplorare per la condotta che lo ha ridotto così o quanto meno non essergli solidale nemmeno a questo punto, ma a una sola condizione: che resti abbattuto.
Si immagini che invece improvvisamente costui si rialzi. Che si mostri nelle condizioni di ribattere alla violenza subita. Turbato non è l’osservatore che non riesce a liberarsi da una nuova emozione per giudicare colui che vede. Turbato è il dato “puro” che dovrebbe consentire qualsiasi giudizio.
Come si fa a capire se uno è vittima, se si rialza e può ribattere da sé, senza aspettare il verdetto altrui? Non si può. Non si può più sapere se gli si debba essere solidali o meno, se non è ancora finita, se non si sa come può andare a finire. Prima, di fronte a costui che era stato abbattuto, era apparsa la possibilità di prendere le distanze dalla violenza e di porsi dalla parte di una vittima, ma improvvisamente questi insorge di nuovo e non si sa più cosa venga partorito.
Egli si mostra minaccioso, mostra di minacciare quella possibilità. Minaccia un ritorno alla violenza, l’annientamento della differenza tra le due parti, l’assenza di vittime innocenti. È il vero mostro.
L’eroe
O non potrebbe essere invece l’eroe? Non potrebbe essere invece eroico non lasciarsi abbattere dalla violenza e riuscire a rinascere?
Per un empirista-positivista è inaccettabile che si confondano le figure: il dato è che mostri ed eroi sono entità opposte, perciò con approccio analitico devono essere distinte. Del fatto che i miti non sembrino così attenti a non confonderle si possono escogitare molteplici giustificazioni, ma sempre dando per scontato che sia un errore. Così abituati a concepire il mondo mitico come il regno dei fraintendimenti, si arriva addirittura a insinuare che possa essere frainteso esso stesso dai suoi narratori. Invece Isayama mostra che i racconti mitici non si sbagliano affatto su come stanno realmente le cose.
Il dato empirico che l’eroe combatte i mostri non comporta necessariamente che egli sia di natura diversa. In Shingeki no kyojin l’eroe ha la stessa maschera del mostro e l’unica differenza costitutiva nell’esercizio della violenza è che egli è consapevole: è questo il reale fondamento per marcare la grande distanza dal mostro che tutti vedono. La consapevolezza, infatti, consente all’eroe di assumere nel contesto bellico il ruolo di vittima e questo è fondamentale perché non appaiano tali, o appaiono giustificate, tutte quelle che lui provoca. Nella dinamica della violenza reciproca essere vittima è l’unico modo per non essere carnefice, l’unico modo per essere l’eroe e non il mostro.
Tanto è vero che la modalità attraverso cui avviene la trasformazione in un Gigante “intelligente”, quindi potenzialmente eroico, è una sorta di rituale di auto-vittimizzazione esplicitamente in funzione della produzione di una reazione bellica al ritrovarsi vittima, giustificata dal fatto di essere vittima. Dopo la prima volta in cui l’abbattimento e la rinascita attraverso la trasformazione sono successi in circostanze causali, Eren impara a far riaccadere tutto ciò in maniera artificiosa infliggendosi appositamente del dolore, diventando cioè appositamente vittima, e avendo al contempo la volontà di reagire bellicosamente a quel dolore, a quell’“essere vittima”, perché guidi la sua intelligenza anche dopo l’assunzione della maschera mostruosa del Gigante.
L’eroe dunque in ultima istanza non è di natura diversa dal mostro, anzi: è proprio colui che diventa consapevolmente mostro per essere avversario del mostro. Il mito ribalta l’idea che sul livello strategico-bellico abbia la precedenza quello identitario-ontologico e ad esso si conformi: non sono entità differenti che per la loro opposta identità producono il conflitto, è il conflitto che costituisce identità opposte.
Nel momento in cui si scopre che anche il nemico sfrutta lo stesso rituale di auto-vittimizzazione, anche in questo è identico, allora compare l’esigenza (a livello strategico-bellico) di una nuova differenza (a livello identitario-ontologico). Allora compare l’esigenza di diventare qualcosa di più ancora di una figura eroica.
Un dio
Dopo il mostro e l’eroe, si arriva dunque anche all’ultima figura dei miti, quella di un dio. Ma che senso può avere in epoca contemporanea riproporre proprio quella, le cui descrizioni con un linguaggio mitico già agli albori della filosofia erano con Platone condannate come inattuali e assurde?
Tutta la teologia è sempre stata unanime nello sforzo di individuare le migliori qualificazioni: è evidente che devono esserci dei dati “puri” che lo giustificano; eppure tutta la mitologia è stata quasi unanime nel proporre figure ben diverse: anche questo è evidente. Ciò che a prima vista non è per nulla evidente è il motivo di questa distanza così netta: com’è possibile che tanto di frequente i miti si siano sbagliati così grossolanamente?
A ben guardare essi non mettono in discussione lo sforzo teoretico. Ciò che mettono in discussione è che un concetto rigorosamente definito per via teoretica sia ciò che nella pratica agli uomini interessi davvero considerare il proprio dio.
I miti mettono in guardia che le cose non stanno realmente così. La preoccupazione primaria degli uomini non è quella di risolvere un quesito teoretico, ma un problema pratico, che il più allarmante e urgente problema pratico è quello della violenza e che pertanto tenderanno sempre a prestare fede e a considerare il proprio dio il detentore del monopolio della violenza.
Se attualmente la diffusa convinzione è che, se si desta la fede in un dio, è in virtù del fatto che è amorevole e buono, è perché si ignora la testimonianza dei miti e si enfatizza il largo successo della narrazione evangelica, come se dimostrasse che in essa è contenuta la descrizione di chi spontaneamente gli uomini tendono a considerare il proprio dio. Ecco allora che Isayama si confronta proprio con questa narrazione, che meno si presta a inserirsi in un racconto mitico, per affermare che il suo successo così largo nella storia è stato perlopiù di facciata e soprattutto per spiegarne il motivo. Per dire che se i vangeli fossero stati davvero espressioni di una visione largamente diffusa, sarebbero stati miti esattamente come tutti gli altri. Per mostrare che se fossero stati miti, avrebbero narrato l’esatto opposto di ciò che invece hanno narrato.
In Shingeki no kyojin, infatti, viene puntualmente presentato tutto il contrario, con una precisione che non può essere casuale. Il personaggio di Christa (1) è di sesso femminile. La madre al posto di essere un modello di virtù, si prostituisce e vorrebbe che sua figlia non fosse mai nata. Il padre è una figura assente e l’unico gesto per la figlia è di allontanare da lei la morte quando giunge a prenderla la Gendarmeria.
Chiaramente l’evento decisivo è quello del sacrificio, in un luogo segreto e sotterraneo invece che pubblico e sopraelevato, in cui non è la figlia a dover essere sacrificata, invece è lei che deve svolgere il ruolo di carnefice. La vittima è Eren. Se fino a quel momento l’essere vittima era stato letteralmente la fonte del suo eroismo, improvvisamente non è più così. Al cospetto di un potere di gran lunga superiore a qualsiasi reazione bellica possa scaturire dalla trasformazione in un Gigante, in realtà come altri, al cospetto del monopolio assoluto della violenza la vittima è soltanto vittima, senza possibilità di ribaltare la sua condizione. E il suo carnefice è un dio.
Il dio degli uomini e dei loro miti è un carnefice, l’indiscusso carnefice, l’assoluto carnefice, a tal punto da non avere rivali.
La narrazione continua ad essere l’esatto contrario di quella evangelica: la figlia si ribella al volere del padre.
Questi allora assume l’aspetto della minaccia massimamente giganteggiante, massimamente mostruosa, per l’umanità e finisce per essere lui immolato. È la svolta della storia. Segna una sorta di nuovo inizio l’ascesa di Historia (2) (vero nome di Christa) come regina di un regno che è di questo mondo.
Ma un regno di questo mondo è esattamente ciò che produce il bisogno di un monopolio della violenza. La ribellione contro il meccanismo vittimario di Rod Reiss, che elevava il carnefice al rango di divinità e che trovava la sua giustificazione proprio nell’esigenza di reggere un regno di questo mondo, lungi dal porre fine alla logica sacrificale, la esaspera tanto più la condanna. Il rifiuto di immolare qualcuno diventa esattamente il movente per immolare chi appare come il colpevole che costringe a immolare. E dopo la morte del padre che richiedeva il sacrificio di Eren, l’inaccettabilità della soluzione di sacrificare la regina Historia per il proprio regno rende colpevole l’umanità intera. Si arriva così al ribaltamento ultimo della prospettiva evangelica: il rifiuto della morte di una per la salvezza di tutti, condanna alla morte tutti per la salvezza di una.
Una nuova figura emerge dunque dal contesto bellico in cui in assenza di un dio tutti hanno reclamato per sé il ruolo di vittime e tutti si sono ritrovati ad essere carnefici arbitrari. Nel suo sforzo di compiere la violenza ultima e definitiva appare al contempo come mostro, eroe e divinità indifferentemente.
Il racconto diventa più che mai mito: nessun dato storico è neanche lontanamente paragonabile allo sterminio a cui si assiste, l’unico rimando possibile è a diverse narrazioni mitiche che descrivono tutte proprio la messa in atto dell’intenzione di portare all’estinzione l’umanità (il caso forse più vicino è quello egiziano in cui ad agire è una belva-divinità, la figlia leonessa del dio Ra). Si tratta forse di una paura irrazionale, che risale ai tempi dell’uomo primitivo ancora troppo vulnerabile?
Ciò che è più strano di questa offensiva così incredibilmente inarrestabile è che venga realizzata attraverso un mezzo, che è l’ultimo che ci si aspetterebbe che si possa utilizzare per questo scopo.
Le mura
Per l’empirista-positivista non ci sono dubbi che le mura costituiscono un sistema specificatamente e unicamente difensivo. Emblemi di una granitica immobilità, il dato “puro”, palese, è che il loro solo scopo è proteggere ciò che contengono al loro interno. Anzi, a voler analizzare proprio tutti i dati con attenzione, bisogna riconoscere che la loro funzione più primaria non rientra nemmeno nel contesto bellico: è semplicemente quella di delimitare.
Certamente se si delimita con delle mura, si presuppone quanto meno il pericolo della guerra (sempre che siano esclusi dal discorso casi di muretti, recinzioni, recinti, ecc...), ma è un dato di fatto che per erigerle non è una condizione necessaria lo stato di guerra. L’importanza fondamentale di dividere un dentro da un fuori per costituire l’identità di una comunità separata e di confinare all’interno di una giurisdizione conferiscono una funzionalità tutt’altro che superflua alle mura anche nella circostanza in cui la guerra sia completamente assente.
Tutto ciò non viene affatto negato dai miti, che, anzi, enfatizzano proprio la funzione costituente di un ordine attraverso un’esclusione innanzitutto spaziale del caos, presentandola come vera a livello cosmologico. Un caso emblematico appartiene proprio alla tradizione giapponese documentata dal Kojiki, dove viene narrato che Izanagi, dopo essersi introdotto nella terra dei morti (per ritrovare la sua amata Izanami, tema presente anche in Occidente), fugge inseguito da figure orripilanti e per impedire che l’inseguimento si protragga anche nella terra dei vivi, sigilla quella dei morti chiudendo l’uscita con un grande macigno. Il divisorio, dunque, che non deve conservare nemmeno un accesso che tenga aperta la possibilità di una contaminazione, una porta con il rischio di una non-definitiva differenziazione, costituisce l’ordine cosmico attraverso un gesto che in maniera esplicita esclude tutto ciò che è caos, espelle tutto ciò che è degradato, deformato, morto. Certamente, va precisato, ciò che è messo in atto è un meccanismo difensivo nei confronti di una minaccia, anche su questo punto il mito è esplicito, ma non in quanto il contesto è quello bellico, piuttosto per evitare quel contesto: la guerra sarebbe già un momento di confronto e di contaminazione, pertanto questo sforzo di separazione non serve ad affrontarla, serve innanzitutto a non renderla possibile.
All’inizio di Shingeki no kyojin viene presentata esattamente questa prospettiva: le gigantesche cinte murarie non risultano affatto l’appariscente segno materiale di uno stato hobbesiano di guerra permanente; specialmente per il fatto di essere tre palesano piuttosto la funzionalità della divisione, tra uomini e Giganti e tra uomini che possono permettersi di vivere in luoghi più centrali e sicuri e quelli che non possono, per costituire un ordine. Il mostruoso è escluso all’esterno, all’interno mantiene la pace un potere sovrano centrale.
Quando l’assolutismo di questo sistema gerarchico viene messo in crisi proprio per il fatto che sono le porte l’elemento vulnerabile delle cinte murarie, il primo successo nel confronto con i Giganti viene ottenuto mettendo in atto la stessa identica operazione di Izanagi: l’ingresso aperto viene richiuso con un grande macigno (3). In quel frangente vincere lo scontro equivale in realtà a impedirne la continuazione, a farlo cessare.
Poi si arriva a un vero e proprio stato di guerra, quando il confronto non è più tra uomini e Giganti, tra ordine e caos, ma tra Paradis e Marley, tra due nazioni, e in quel momento le mura non si dimostrano di nessuna utilità per la difesa, che viene invece messa in atto attraverso il controllo del mare. È quando si passa alla grande offensiva che incredibilmente assumono un ruolo di primissimo piano. Che senso può avere un evento così mitico? Forse la conclusione ultima di Isayama è che nel contesto bellico non ci sarebbe nessuna reale differenza tra difesa e attacco?
Contro una simile tesi si ergono le perentorie affermazioni con cui uno dei massimi teorici della guerra, Karl von Clausewitz, definisce la difesa distinguendola in maniera inequivocabile dall’attacco:
«Qual è l’idea fondamentale della difesa? Parare un colpo. Qual è la sua caratteristica? Attendere il colpo che si deve parare» (Della guerra, ed. Mondadori, trad. it. di A. Bollati ed E. Canevari, VI libro, pp. 443)
A fronte di una indicazione così precisa, sia pur teorica, nessuna narrazione mitica può mettere in dubbio l’evidenza di un dato: che una costruzione come le mura può rispondere unicamente a quel compito, mentre i Giganti Colossali che emergono dal loro interno svolgono il ruolo esattamente opposto.
Il Gigante Colossale, infatti, non rappresenta semplicemente la fase offensiva della guerra, che ancora potrebbe conciliarsi con l’idea di un atteggiamento difensivo in quanto controffensiva, ma la maschera mostruosa di quella forma dell’attacco che si esprime come distruzione totale, violenza esplosiva, cieca, indifferenziata.
In effetti l’emergere dei Giganti Colossali coincide con lo sgretolamento delle mura: o ci sono queste o ci sono quelli. A ben guardare in effetti la narrazione conferma che si escludono a vicenda.
Eppure resta il fatto che il 145° re Karl Fritz è con Giganti Colossali che ha eretto le sue tre cinte ed essi sono sempre rimasti sepolti all’interno, ne sono sempre stati il cuore. Non resta dunque che approfondire il personaggio che ha messo in piedi questo paradosso e subito ci si accorge che i paradossi sono una costante della sua storia.
Viene raccontato che questo re voleva porre fine alle guerre nel suo impero. Ciò sarebbe il motivo per cui si ritirò con una parte dei suoi sudditi sull’isola di Paradis, cancellata loro la memoria del passato, per realizzare un piccolo regno di pace. Ma come mai un re che disponeva di un controllo così assoluto sulla sua popolazione non ha semplicemente imposto la pace in tutto il suo impero? Se era addolorato per i popoli oppressi dal potere dei Giganti, come mai non liberarli semplicemente e impedire da quel momento in avanti l’utilizzo di esso per scopi bellici, quando proprio con questo suo ritiro la liberazione porta a un ribaltamento dei ruoli di vittime e carnefici, mentre quel potere continua ad essere esercitato?
Ma tutto ciò è ancora poco. Viene raccontato che questo re portò con sé milioni di Giganti Colossali con l’obiettivo che il suo piccolo regno restasse in pace grazie alla minaccia che, se fosse stato attaccato, quelli, nascosti dentro le tre cinte murarie entro cui erano sigillati i sudditi, avrebbero calpestato il mondo intero. Viene però anche raccontato che questo re fa il “giuramento di tregua”, con cui si auto-vieta di attivare quei Giganti, e non solo: informa di questa scelta proprio le ultime persone che avrebbero dovuto saperlo, in quanto maggiormente esposte alla tentazione di attaccarlo, come poi di fatto accade. Perché? Qual è il senso di una mossa di cui lui stesso vanifica completamente l’efficacia?
Ecco allora che sorge un sospetto. Non che re Karl Fritz non desideri realmente la pace nel mondo, ma a proposito di cosa si celi al cuore di questo desiderio, qualcosa che solo al disseppellirsi di ciò che è il cuore delle sue mura viene alla luce. Questo sospetto a proposito dell’origine di una serie di eventi successivi, suggerisce una nuova spiegazione di essi.
L’ipotesi di Rod Reiss che Frieda con il Gigante Progenitore non sia riuscita a difendersi dal Gigante d’Attacco perché sarebbe stata troppo inesperta rispetto al dottor Jaeger non pare molto convincente. Forse una più coerente è che così come le era impedito di attivare quel meccanismo che solo in teoria avrebbe dovuto difendere il regno, le era persino impedito di difendere se stessa. Anche se questo voleva dire non poter difendere il vero meccanismo che evitava la catastrofe.
Ma l’evento più incredibile di tutti viene mostrato sul finire del racconto. Willy Tybur rivela la verità al mondo e spiega che adesso è reale il pericolo dell’attivazione dei Giganti Colossali perché ora dipende da Eren Jaeger. Qual è la conclusione? Bisogna dichiarare guerra. Nulla di più assurdo. Da una parte c’è una forza bellica, il cui valore numerico nell’ordine dei milioni già indica chiaramente una quantità impareggiabile (per esempio nella letteratura occidentale si è usato per l’esercito persiano contro i Greci). Il linguaggio mitico rincara la dose: neanche sono soldati umani, ma Giganti. Neanche Giganti qualunque, ma addirittura Colossali. Dall’altra parte viene presentata una situazione storica in cui l’umanità è molto vicina, ma non ancora arrivata, a sviluppare la tecnologia che darebbe priorità in campo bellico alla supremazia aerea invece che terrestre. Insomma, non potrebbe essere più palese chi dovrebbe volere la guerra e chi la pace, chi avrebbe interesse ad attaccare subito e chi a temporeggiare. Eppure si osserva l’esatto contrario. Il solo fatto che Paradis desideri stringere amicizie dovrebbe essere sufficiente a scongiurare la catastrofe, invece la catastrofe accade quasi fosse inevitabile.
E non può essere la famosa tesi della “tendenza dell’estremo” del già citato Clausewitz a giustificare questo sviluppo narrativo, dal momento che egli specifica anche che uno dei principali fattori empirici per cui i conflitti reali non sono mai “perfetti”, nel senso che non coincidono mai perfettamente con il concetto di guerra dal quale è dedotta quella tendenza, è proprio la situazione massimamente enfatizzata in Shingeki no kyojin:
«…la sosta non può essere motivata per ciascuno che da un solo movente: attendere un momento più favorevole per agire. […] se l’interesse dell’uno è di agire, quello dell’altro deve essere di temporeggiare» (Della guerra, I libro, p. 30)
Lungi dunque dal poter essere presentato come un teorico dell’apocalisse, Clausewitz conferma che se anche si volesse sostenere l’inevitabilità del conflitto, procedere ciecamente nella direzione della catastrofe comunque non ne sarebbe la logica conseguenza. Si è allora di fronte a una visione mitica che forzatamente deve affermare il suo estremo pessimismo?
O forse anche questo sviluppo narrativo potrebbe avere una spiegazione convincente, se ancora una volta si tornasse ad approfondire il suo punto di partenza. Willy Tybur è esplicito. La sua fonte d’ispirazione è Helos. E chi è Helos? Null’altro che un’invenzione di re Karl Fritz. Un “mito” (qui nel senso negativo tanto gradito ai positivisti: un inganno) funzionale non alla pace, ma a produrre la romantica ambizione che persino un avversario dalla forza bellica ineguagliabile può essere sconfitto, funzionale alla guerra anche nella circostanza più sfavorevole. Willy Tybur s’illude di poter rendere reale una figura inventata, ma così cade – e con lui tutto il mondo che lo segue – nel tranello che essa nasconde.
Alla fine di tutte le analisi non resta che concludere che è il “pacifista” re Karl Fritz a creare le condizioni della catastrofe: l’impossessamento della “Coordinata” da parte del Gigante d’Attacco da una parte, la volontà di rischiare la guerra in ogni caso contro i “demoni dell’isola” dall’altra. E l’aver eretto le tre cinte murarie, evidentemente. Che egli non ha davvero costruito allo scopo di difendere i suoi sudditi, come peraltro traspare chiaramente dalle sue stesse parole.
La grande menzogna dunque è che egli abbia progettato di raggiungere la pace con una ritirata dietro una linea di difesa. La grande illusione è che ci sia un irrisolvibile contesto bellico e che perciò venga eretto un sistema che sarebbe specificatamente e unicamente difensivo. Le cose non stanno realmente così.
Qual è l’idea fondamentale delle mura? Escludere. Qual è la loro caratteristica? Ostacolare la possibilità di confronto.
Se a prima vista il fatto che la loro funzione primaria non rientri in campo bellico induce a pensare che a maggior ragione non abbiano alcun nesso con una grande offensiva, la mitica manifestazione sulla scena di milioni di Giganti Colossali smaschera un’inquietante ambiguità: a ben guardare neanche loro producono uno stato di guerra. Infatti loro non combattono nessuna guerra. I Giganti Colossali non combattono, calpestano.
Il mito non mette in dubbio la differenza tra difesa e attacco. La sua provocazione è ben più radicale. È addirittura il tanto acclamato concetto di pace che osa decostruire. Non per giustificare la guerra, ma per interpellare a proposito di quale sarebbe il suo contrario. Le mura si sgretolano, ma lungi dal mutare la loro funzione primaria di evitare il confronto, ciò dischiude esattamente la possibilità di compierla in maniera “perfetta”, definitiva: calpestando tutti gli altri.
Attraverso il suo mitico potere il re Karl Fritz concretizza come “causa finale” qualcosa che non si riscontra nelle mura reali, ma è nascostamente implicito nel loro concetto. Una mossa radicale che tradisce come al cuore dello scandalo per quella forma di violenza ritualizzata che è la guerra, dove “ritualizzata” indica sia la presenza di regole sia la sua periodicità, si cela l’elaborazione di un concetto opposto che si persegue con una violenza non più ritualizzata, cioè finalmente ultima e non più periodica, ma al contempo senza più regole.
La sensazione di una catastrofe a cui si è trascinati quasi inevitabilmente, la tendenza all’estremo, non è la conseguenza né della rivalità né della guerra, ma il vero frutto del progetto pacifista messo in atto dal più tirannico e diabolico dei sovrani, che per obbligare alla pace incatena le parti in campo alle uniche alternative tra nessun confronto o lo sterminio completo di una delle due: in un modo o nell’altro comunque non ci sarà più guerra. Il continuo protrarsi di esse sole nel tempo rende praticamente inevitabile che prima o poi non sia più rimandata la seconda.
Il finale
I miti hanno sempre documentato la natura mimetica della violenza, che cresce inesorabilmente proprio a causa di ogni tentativo di compiere quella ultima da parte di ciascuno dei rivali, divenuti doppi proprio a causa di ogni tentativo di differenziarsi l’uno dall’altro, di elevarsi al di sopra l’uno dell’altro, così come l’efficacia risolutiva del meccanismo del capro espiatorio, ma secondo Girard in maniera celata e non intenzionale. Shingeki no kyojin invece mostra come la maschera del mito non per forza nasconde. E per questo conserva una sua attualità.
Nella misura in cui il meccanismo del capro espiatorio non solo non viene occultato, ma addirittura diventa qualcosa che si scopre pianificato, il mito si dimostra un linguaggio all’altezza dell’autocoscienza moderna al punto da sfidarla. Nella misura in cui la risoluzione catartica non viene trovata per caso, ma scelta, si apre la possibilità di porre la domanda che solo una narrativa che propone il problema introduce: qual è il reale motivo per cui viene adottata quella soluzione?
È semplicemente inevitabile, come una serie di elementi già esposti e il fatto che Eren sembri recitare un copione già scritto inducono a pensare? È il mito, il linguaggio della “caduta”, che con i suoi demoni esageratamente potenti e i suoi destini già previsti, è condannato a spacciarla come tale?
Per comprendere il senso del finale occorrerà ripercorrere la storia dei personaggi che proprio a quello e non a un altro conducono la narrazione e risulterà forse particolarmente utile confrontare le vicende raccontate da Isayama con alcune, molto simili e al tempo stesso diverse, che prima di lui erano state proposte dai racconti di Tolkien (il rimando è all’articolo Miti attuali).
(1) Alcuni nomi in questa storia chiaramente non sono scelti a caso: l’altro esempio eclatante è “Ymir”, che anche nella mitologia norrena corrisponde a quello del gigante progenitore e sempre nella versione di Isayama diventa un nome femminile invece che essere maschile (a tal proposito, questo esplicito rimando rende lecito sostenere, al di là di quale possa essere la più letterale, che la traduzione “Giganti” sia più corretta di “Titani”, termine che si riferisce invece a personaggi della mitologia greca).
(2) Il nome significa appunto “storia”, nella lingua greca che è la stessa a cui appartiene il termine “Christa”, quando invece la maggior parte degli altri nomi sono germanici (per esempio “Jaeger” è un termine militare tedesco che indica le unità di cacciatori, che vengono solitamente utilizzate come avanguardia dell’esercito).
(3) La scarsa plausibilità che tra le macerie ci sia un macigno abbastanza grande per sigillare la porta delle mura induce a sospettare che Isayama abbia voluto inserire un episodio simile nel suo racconto per presentare un rimando esplicito a quello che è tra i miti più famosi del Kojiki.
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