Da diversi anni su questo blog si tenta un inquadramento del fenomeno NPG (Narrativa Popolare Giapponese), definibile come la particolare visione del mondo, i valori, le prassi relazionali e discorsive messe in atto da personaggi e narratori per come esse si apprezzano operanti nei manga, negli anime e nei videogiochi giapponesi degli ultimi trent’anni. Tale inquadramento ha per obiettivo la definizione del significato che l’incontro con la cultura suddetta ha assunto soprattutto per chi-scrive, soggettività intesa duplicemente come 1) singolo essere umano dotato di nome e cognome, segnato dall’avventuroso incontro con quelle subculture, e come 2) rappresentate dell’Occidente europeo-americano che dall’incontro con gli specifici valori e temi veicolati da quella narrativa ha maturato un vissuto ibrido, del tutto divergente rispetto all’inviamento dominante dell’Occidente europeo-americano, a dispetto dei punti di convergenza più apparenti che sostanziali.
Rileggendo gli articoli dedicati all’analisi dei vari titoli, recuperabili nella sezione Anime di questo blog, è possibile ricostruire il percorso che ha condotto chi-scrive a questa soglia, sul limitare della quale ci si propone di allargare la prospettiva fin qui adottata e delineare un inquadramento storico di questi prodotti culturali, non inteso come mera analisi cronologica o storico-tematica (Historie), ma come sviluppo (forse necessario) di certi nodi direi destinali impliciti nella riflessione storico-filosfica dell’Occidente, che attraverso l’imperialismo e la globalizzazione otto-novecenteschi sono stati estesi più o meno a tutto il mondo (Geschichte).
Data la misura ordinaria dei contributi di questo blog e il corto respiro di chi-scrive, si deve ammettere che tale progetto richiederebbe ben altra misura. Ho tuttavia fiducia che la forma sintetica si presti meglio a destare la coscienza dei lettori intorno a certi temi che paiono peregrini (“perché anime e manga piacciono così tanto?”) e che invece hanno qualcosa a che fare, forse, con il punto a cui siamo giunti nel divenire storico del nostro Grossraum – l’Occidente, appunto.
1. I giapponesi alla “fine della storia” secondo Kojève
Il punto di partenza di questa riflessione sono le ricerche di Kojève sul concetto hegeliano di “fine della storia” che, ricordiamo, è stato riproposto, tra gli altri, da Francis Fukuyama come rappresentazione veridica del destino dell’umanità dopo la sconfitta delle alternative storiche al modello liberale-occidentale al termine della Guerra fredda. Mi rifaccio interamente alle considerazioni che su questo tema ha prodotto Giorgio Agamben, nel cui saggio L’aperto è messo a tema il problema della condizione umana alla fine della storia (1). Basandosi sull’interpretazione kojèviana di Hegel, l’autore delinea uno spazio post-politico nel quale l’azione umana si scopre priva di scopo nella misura in cui il Sistema ha cementato la soddisfazione dei bisogni e garantito progressivamente l’eguaglianza e la libertà individuale – che sarebbe precisamente l’utopia dell’Occidente liberale. In tale contesto, l’Uomo non ha più necessità di cambiare i principi che stanno alla base della sua conoscenza del Mondo e di sè, perché il bisogno che orienta quella modifica è eliminato chirurgicamente; la prospettiva futura (ma che per Kojève è già una realtà presente) è dunque quella di una progressiva “animalizzazione” dell’umanità post-storica, intesa come riduzione della vita degli esemplari della specie Homo non al semplice grufolamento nell’abbondanza dei nutrienti (che pure è adombrata come componente essenziale di quel quadro) ma come trasformazione di tutte quelle attività specificamente umane come l’arte, l’architettura, la musica – che in precedenza erano naturalmente empite di un contenuto “storico” o “politico” in senso lato – all’operare modestamente poetico di alcuni animali: il canto degli uccelli, la tessitura della tela del ragno, la costruzione dei nidi.
L’american way of life è il genere di vita proprio del periodo post-storico, e la presenza attuale degli Stati Uniti nel mondo prefigura il futuro “eterno presente” dell’intera umanità. Il ritorno dell’uomo all’animalità allora appare non già come una possibilità futura, ma come una certezza già presente. [...] Se l’Uomo ridiventa animale, anche le sue arti, i suoi amori e i suoi giochi dovranno ri-diventare puramente “naturali”. Occorrerebbe ammettere, dunque, che, dopo la fine della Storia, gli uomini costruiranno i loro edifici e le loro opere d’arte come gli uccelli costruiscono i loro nidi e i ragni tessono le loro tele, che essi eseguiranno concerti musicali proprio come fanno le rane e le cicale, e giocheranno come giocano i cuccioli e faranno l’amore come gli animali adulti (2).
A questa narrazione in parte ottimistica si può certamente contrapporre il permanere delle disuguaglianze non solo nel mondo, ma specificamente nell’Occidente solo presuntamente liberato. Tuttavia, non è impensabile che l’imperfezione attuale del Sistema costituisca una semplice fase seriore nel perfezionamento di quel progetto che l’Occidente è destinato a realizzare – salvo l’insorgere di nuove filosofie della storia o l’affermazione di altri Grossraume – conducendo in salvo l’Umanità tramite l’automazione e la liberazione dal lavoro e dal bisogno.
Liquidata rapidamente l’annosa questione se la storia sia conclusa o in procinto di ripartire – dando per scontato almeno che, per l’Occidente liberale in cui nasce e cresce chi-scrive, come per il Giappone occidentalizzato in cui operano gli autori di anime e manga, questa questione sia almeno temporaneamente accantonata e risolta positivamente – si tratta di definire in che modo la NPG definisca una possibile fisionomia di quel mondo post-storico nel quale, citando Agamben, l’azione negatrice dell’Uomo si scopre senz’opera e senza impiego, e tuttavia permane indefinitamente, senza scopo, nelle forme essenziali dell’arte, dell’amore e del gioco (3).
Si può dire senza timore che la NPG si collochi precisamente in questo orizzonte post-storico, nella misura in cui essa nasce e si sviluppa in un Giappone ancora in parte politicizzato dalle istanze revanchiste e nazionaliste successive alla sconfitta nella Seconda guerra mondiale (si pensi agli anime mecha degli anni Settanta) e raggiunge la sua “età dell’oro”, quella che Hiroki Azuma chiama la “terza generazione otaku” (4), in un Giappone post-storico e post-politico, agitato da istanze pseudoreligiose e spiritualiste come quello degli anni Novanta, in cui, non a caso, fiorisce la narrazione apocalittica ed escatologica di Neon Genesis Evangelion.
La post-storia nella quale il Giappone sembra collocarsi alla fine della Guerra fredda non rappresenta qualcosa di inaudito per la tradizione nazionale; diversamente dall’Occidente, per cui la storia è in cammino progressivo almeno dai tempi di Roma imperiale, e il piano divino della salvezza si dispiega attraverso le istanze apocalittiche della Chiesa prima e i progetti transumani dell’illuminismo massonico poi, in Giappone la storia era già ferma da trecento anni circa, quando la vittoria di Tokugawa Ieyasu segnò l’ingresso del Giappone nella sua prima fase post-storica, l’epoca Edo. In seguito, l’incontro con l’Occidente e con gli Stati Uniti in particolare determina la ripartenza del cammino nazionale, nel confronto serrato, imitativo e rivalitario, con l’imperialismo europeo e americano. Poi, la Seconda guerra mondiale e la Guerra fredda: il Giappone tenta l’ultima grande riscossa, raggiungendo il Primo mondo e diventandone un rappresentante di spicco. Dunque, la sconfitta del comunismo sovietico – che solo marginalmente aveva intaccato la società orgogliosamente gerarchica e classista del Sol Levante – e la nuova età dell’oro, la Edo postmoderna. I giapponesi – come gli Occidentali – tornano ad essere privi d’opera.
Nel terzo capitolo de L’aperto, Agamben riferisce le impressioni che Kojève ebbe di un suo viaggio a Tokyo, inquadrandole all’interno della sua riflessione sulla fine della storia. Val la pena riportarle per intero:
La civiltà giapponese “poststorica” si è messa per una strada diametralmente opposta a quella americana. Certo in Giappone non vi sono più Religione, Morale o Politica nel senso “europeo” o “storico” di questi termini. Ma lo Snobismo allo stato puro vi ha prodotto delle discipline negatrici del nato “naturale” o “animale” che hanno superato di gran lunga in efficacia quelle che nascevano, in Giappone come altrove, dall’Azione “storica”, cioè dalle Lotte guerriere e rivoluzionarie o dal Lavoro forzato. [...] Malgrado le persistenti disuguaglianze economiche e sociali, tutti i Giapponesi senza eccezione sono attualmente capaci di vivere in funzione di valori totalmente formalizzati, cioè completamente svuotati di ogni contenuto “umano” nel senso di “storico”. Al limite ogni Giapponese è così capace in via di principio di procedere, per puro snobismo, a un suicidio perfettamente gratuito [...] che non ha nulla a che fare col rischiare la vita nel corso di una Lotta condotta in funzione di valori “storici” con un contenuto sociale o politico. Il che lascia supporre che l’interazione appena iniziata fra il Giappone e il Mondo occidentale sfocerà in ultima analisi non in un imbarbarimento dei Giapponesi, ma in una “giapponesizzazione” degli occidentali (Russi compresi). Ora, visto che nessun animale può essere snob, ogni epoca storica “giapponesizzata” sarà specificamente umana. Non vi sarebbe dunque “annientamento definitivo dell’Uomo propriamente detto” finché vi fossero animali della specie Homo sapiens in grado di servire da supporto “naturale” a quel che vi è di umano negli uomini (5).
Si deve intendere rettamente lo “Snobismo” maiuscolo di cui parla qui Kojève, forse anche riconoscendone il legame con la condizione post-storica: lungi dal ridursi alla scappatoia differenziale di cui parla tra gli altri Ortega y Gasset, riflettendo sul tema dell’uomo-massa (6), lo Snobismo è qui inteso come capacità massima di “vivere in funzione di valori totalmente formalizzati”, cioè privi di una relazione specifica con ciò che Kojève, appoggiandosi all’accezione europea di questi termini, definisce allo stesso tempo “umano” e “storico”, identificando ciò che è propriamente umano con l’azione storica intesa come operazione negatrice del dato presente in vista di un fine variamente interpretabile come “politico”.
E tuttavia, verso la fine della citazione, la nozione di “umano” è investita di un altro significato, e viene attribuita con pieno merito a questo lavorìo snobistico dei giapponesi immersi nella post-storia. Alla prospettiva di un imbarbarimento all’americana dei giapponesi, Kojève oppone la convinzione che si assisterà invece a una “giapponesizzazione” del resto del mondo. Si deve intendere questa prospettiva non, ovviamente, come un trasferimento di pratiche culturali specificamente giapponesi a tutti i Grossraume mondiali – il che comunque avviene frequentemente – ma come una estensione planetaria del modello di sopravvivenza di pratiche “umane” – nel senso di negatrici della datità e portatrici di differenze, disattivatori della koinonìa tra io e non-io – nel Giappone post-storico. L’assunto implicito di questo ragionamento, mi pare, è che l’Occidente, che ha teso a identificare ciò che è propriamente umano con l’azione storico-politica – specificamente con la linearizzazione e finalizzazione del divenire operata dalla Chiesa, dall’Illuminismo e dal progressismo genericamente inteso – si ritrova, in un contesto post-storico, più incline all’imbarbarimento – o all’animalizzazione, che Kojève intende in senso essenzialmente negativo – e alla perdita definitiva della qualità umana, perché privato di quella dimensione futuribile, storica e politica, nella quale gli occidentali hanno da sempre riposto le più alte aspettative e le più raffinate speculazioni circa la qualità specifica degli appartenenti al genere umano. Non esiste umanità senza storia e senza politica, come sembra certificare lo spleen acedico e variamente nichilistico che attanaglia gli occidentali immersi nella post-storia a targa statunitense. Se non c’è più un progetto di ordine universale o almeno universalizzabile – fosse anche la speranza sciocca e irragionevole di un’intronazione del singolo individuo a “re del mondo” o celebrità storica – l’uomo occidentale si deprime, si annoia – dunque si droga, sceglie l’all you can eat, accende lo smartphone, spera di morire presto. Diventa animale, ma animale infelice, splenetico.
Diversamente il giapponese, stando a Kojève (7). Diversamente anche l’occidentale, già irrimediabilmente animalizzato, se in lui si desse la possibilità di accogliere, come supporto già “naturale”, bestiolina attaccata alla mammella del Sistema, il formalismo giapponese come forma terminale – o interinale – dell’essenza umana sopravvissuta alla fine delle destinazioni storiche (8). Si tratta ora di definire più precisamente, e anzi calare nel contesto delle riflessioni portate avanti su questo blog, che partono da un’intesa non dissimile della specificità giapponese, in cosa consista quella vita in funzione di “valori totalmente formalizzati” e svuotati di senso storico che Kojève individua nella figura interinale dell’umano a targa giapponese.
2. Le caratteristiche proprie dell’umanità post-storica NPG
L’umanità-otaku intesa come la comunità di coloro che della NPG sono cultori e appassionati non esiste codificata altrove, io credo, nella forma precisa che chi-scrive cerca di delineare in questa sede. Difficilmente chiunque fosse veramente dedito a quelle pratiche di accumulazione feticistica, onanismo, severo ritiro dalla vita reale, idealismo sfrenato che contraddistinguono la figura classica dell’otaku si riconoscerebbe, credo, in queste righe. Diversamente, forse, chi ha fatto l’esperienza di una rottura epocale nella propria vita non tanto e non già originariamente incontrando il proprio simile o un prodotto della cultura occidentale, ma appunto subendo l’influenza dell’animazione, del videogioco, del fumetto e in definitiva della narrativa popolare giapponese, in qualunque forma essa si presenti, forse questo tipo umano, che è necessariamente occidentale, sentirà nelle parole che legge qui un’eco anche lontana di un’esperienza originaria e determinante. Non è dunque, questo, un saggio sugli otaku, ma piuttosto su quello che questa subcultura e la narrativa che essa propone, soprattutto a partire dagli anni Novanta, comporta in termini di specialità e di irriducibile differenza contro l’intesa occidentale del mondo.
In precedenti articoli si è cercato di delineare questa specificità ora in termini più analitici, ora più intuitivi e immaginifici, e si è individuata la matrice differenziale della narrativa popolare giapponese in uno schema che si può utilmente riassumere come segue:
1- La NPG predilige la definizione degli aspetti relazionali dei personaggi contro quella del compimento narrativo in senso classicamente hollywoodiano – in questo senso, è letteralmente impossibile spoilerare un anime a chi-scrive. L’indugio anche ossessivo, in certi casi, sulle dinamiche relazionali che legano tra loro i personaggi produce talvolta distorsioni della linearità narrativa – come quelle che si possono apprezzare in One Piece – non giustificabili altrimenti che come lusso e scialo dello sviluppo delle trame relazionali. Alcuni titoli di grandissimo successo, come My Hero Academia o HunterxHunter, devono il loro successo non tanto all’originalità dell’invenzione narrativa o allo sviluppo della trama, né mirano particolarmente a una chiusura risolutiva per i personaggi protagonisti – l’urgenza della closure che rovinò, non dimentichiamolo mai, la seconda stagione di Twin Peaks – quanto alla ri-scoperta di quel portato relazionale originario che determina l’agire dei protagonisti. Tutto accade, nei prodotti della NPG, perché qualcuno, nell’infanzia, ha incontrato qualcun altro, nella forma del maestro, del rivale o del primo amore. L’incontro con l’altro dunque sta al cuore dello sviluppo narrativo come origine e destinazione del viaggio dell’eroe. Esemplare, in questo senso, la vicenda circolare di Minako, protagonista di Ride you wave, di cui abbiamo trattato in questo articolo: l’innamorato Hinato è contemporaneamente l’attivatore della storia di vita di Minako e l’esemplare sul cui modello ella compirà la narrazione, interiorizzando e superando il vissuto traumatico originari; dopo il salvataggio della sorella, analogo a quello di Minako che Hinato compì in giovane età, la protagonista è libera per una vita adulta di cui il narratore, comprensibilmente, tace.
2- La NPG apre uno spazio narrativo nel quale le norme codificate e le leggi della società – qualunque esse siano – possono essere sospese e ridefinite – a partire, sempre, da quel tessuto relazionale di cui al punto 1. Ciò che gli stessi giapponesi definirebbero il buon costume, la morale tradizionale, il buon senso stesso sono sospesi o ironicamente messi in discussione da personaggi demenziali o immorali, la cui azione è definita ora da comportamenti licenziosi e illegali, come la pedofilia o l’incesto – allusi nemmeno troppo sottilmente anche in titoli di larghissimo consumo presso i giovanissimi – ora da condotte di vita pubblicamente irrise o condannate, come la condizione di NEET, la disoccupazione, la criminalità, la violenza, il bullismo, l’assenza generale di scopo. Il giudizio sociale – che nel Giappone “reale” è onnipervasivo e struttura la vita pubblica come una rete fitta e soffocante almeno quanto quella che ciascuno di noi può apprezzare nell’Occidente libero – non viene qui precisamente sospeso, ma come accantonato (messo a-canto), lasciato cantare in un angolo – e infatti molti personaggi lo ripetono stancamente, con uno sbuffo rassegnato, ricordando all’impresentabile di turno gli anni di carcere, lo stigma sociale, la condanna pubblica che quel particolare comportamento produrrebbe. La censura è messa in scena ma non in opera: il pensiero o l’azione illecita sono condannati solo per gioco, non producono scandalo o indignazione, non sono assunti a fondamento di uno specifico agire dei personaggi o determinano conseguenti sviluppi nella loro relazione, anzi. Può stupire lo spettatore non avvezzo alla peculiare logica relazionale della NPG il fatto che personaggi un istante prima acerrimi rivali o nemici giurati giungano a collaborare come vecchi amici, o si scoprano poco meno che innamorati; che il disprezzo sbraitato di un personaggio nei confronti di un altro resti a tutti gli effetti sulla carta, e non produca un allontanamento o una riprovazione genuina. Un sorriso benevolo accompagna il “mattaku” rassegnato, che benedice il reale inemendabile e lo consegna alla salvezza nel cuore del personaggio e in quello dello spettatore (9).
La combinazione di questi due fattori – l’attenzione alle relazioni e l’accantonamento della morale – fanno, a giudizio di chi-scrive, la specificità della NPG, e dunque sono all’origine di tutte quelle altre caratteristiche che si sono delineate nelle ricerche di questo blog. Il desiderio mimetico, su cui si basa l’impostazione girardiana da cui muovono gli autori che qui-scrivono, è una specifica fenomenologia che si iscrive nel più ampio quadro dell’attenzione relazionale della NPG, la quale si è tentato altrove di leggere con la psicologia freudiana e lacaniana, con Levinas, con Baudrillard, con il Buddhismo Zen di Keiji Nishitani (10). L’ambizione di questo scritto è individuare la matrice trans-culturare che definisce la dialettica tra sospensione della Legge e centralità delle relazioni di cui s’informa la specificità della NPG, e che ha una stretta relazione, a giudizio di chi-scrive, con il contenuto della tradizione escatologica europea e occidentale, la cui sostanza si può definire come l’attesa apocalittica di un superamento della dimensione legalitaria dell’esistenza umana (il diritto, la morale, la dottrina, la norma, il tabù, la rettitudine, la distinzione legalitaria di bene e male, il Detto, l’Età del Figlio o dei Pesci: il Tre di Giustizia) verso una sua definizione puramente relazionale e contingente (ciò che è bene o male qui, ora, per chi-scrive nei confronti di chi-legge, il Dire, l’Età dello Spirito o dell’Acquario: il Due di Giustizia) (11).
3. Il gioco come forma di vita propria dell’umanità post-storica NPG
La dimensione in cui questa dialettica si colloca più propriamente, già adombrata nella citazione agambeniana di Kojève, è il gioco. Per gli scopi di chi-scrive, questo si può definire come azione il cui fine proprio è la messa in opera del giocatore, nella relazione con altri o con altro, sulla base di un sistema di regole che non per forza sono definite una volta per tutte, ma possono mutare e adattarsi alla situazione e ai concorrenti, come è manifesto nei giochi dei bambini più piccoli e degli animali, nei quali nessuno detta precisamente le regole, ma queste sorgono quasi spontaneamente dalla messa in opera dei corpi e dei discorsi.
Non è un caso se è soprattutto negli spokon, gli anime di genere sportivo e agonistico, che questa caratteristica forma di vita della NPG viene in luce più chiaramente (12). Lo sport rappresenta precisamente quell’operare senza scopo che sembra deputato a salvare l’azione negatrice dell’umano dallo sprofondamento in quell’animalità prettamente inoperosa correlata alla depressione dell’agentività umana occidentale. Non è un caso se attorno allo sport è organizzata oggigiorno così tanta parte della vita privata non solo degli italiani, ma degli occidentali e conseguentemente di tutti gli abitanti del Pianeta, in forme che la storia pre-novecentesca non ha mai conosciuto così ingombranti, e che manifestamente rimediano in parte alla depoliticizzazione e denazionalizzazione delle masse, come è possibile apprezzare in occasione dei campionati mondiali di calcio.
Lo sport, tuttavia, non è che una delle forme che il gioco può assumere, per quanto eminente e storicamente rilevante. A questo riguardo è sorprendente come un anime di apparente exploitation come Kakegurui tocchi corde profondissime e straordinariamente significative per ciò di cui qui si-scrive. La serie racconta le vicende degli studenti di una scuola d’élite – analogon perfetto, in questo come in molti altri titoli, della società classista, diseguale e competitiva del Giappone di ogni tempo; caratteristica questa, si noti bene, che non dà luogo neanche per ridere a qualsivoglia forma di rivendicazione o di azione politica. La caratteristica degli studenti di Kakegurui è che qualsiasi tipo di interazione o competizione tra gli iscritti all’istituto è risolta attraverso il gioco d’azzardo, in forme che variano dal poker texano a bizzarre architetture e trappole alla Takeshi’s Castle. Nel contesto di questa grande messinscena competitiva, la società contemporanea informata dalle logiche rivalitarie e subliminali del tardo capitalismo è accettata in blocco – in pieno spirito accelerazionista – come precondizione discorsiva che dà luogo alla possibilità stessa del gioco e all’accademia nel suo complesso. Le sfide tra gli studenti possono essere lanciate per i motivi più triviali e per le poste più straordinarie: ciò che conta, alla fine, non è tanto chi vinca o chi perda – il quale pure subisce davvero, nel corpo e nello spirito, la conseguenze di una tremenda sconfitta! – ma lo spettacolo della sfida, e il momento sublime in cui una persona punta tutto quello che possiede o mette in gioco tutto sé stesso. Anche in questo caso, dunque, vediamo relazioni che sono tessute a partire da “valori totalmente formalizzati”, all’interno dei quali l’ostilità può risolversi in amicizia come in puro erotismo, e la riprovazione o il rancore sono a loro volta soltanto giocati, poste di una scommessa, non oggetti di una riflessione o di un vissuto in alcun modo determinante. Non è raro che al tavolo da gioco questa sfida e questo continuo rilancio rivelino la loro dimensione neanche troppo nascostamente erotica, e si traducano in strusciamenti ed epifanie ahegao tra le più gustose per gli estimatori del genere.
Tra gli autori che più proficuamente hanno studiato il fenomeno del gioco in relazione, soprattutto, alla sua componente erotica, spicca sicuramente Jean Baudrillard, che non a caso è anche uno dei più eminenti teorici della condizione postmoderna (13). Già altrove abbiamo ragionato con il supporto dei suoi scritti, quando si è trattato di descrivere la confusione di immaginario e reale che è messa a tema da molti anime degli anni Novanta e Duemila. Ora sarà opportuno rifarsi alla distinzione che Baudrillard imposta tra Legge e Regola, nel tentativo di delineare il fenomeno del gioco e il suo rapporto con la seduzione, e che ci condurrà quasi automaticamente al cominciamento di questo scritto: alla condizione post-storica di cui parlava Kojève in relazione alla forma di vita giapponese.
La Regola è immanente, arbitraria e superficiale: non ha un sotto, non allude a nessun segreto, è priva di mistero, e regna fintantoché l’accordo tra i giocatori sussiste – così, alla lettera, in Kakegurui qualsiasi sfida è valida, qualsiasi posta in gioco è accettabile, qualsiasi violenza o bruttura è consentita, fintantoché i giocatori sono concordi sulle regole; la Legge, al contrario, è trascendente e fondata su un rimosso, su una pietra angolare e di scarto insieme, che costituisce quel cuore nascosto di quella Legge che il viandante dell’apologo di Kafka vorrebbe conoscere tra esitamenti e frustrazioni (14). La Regola è sincronica: si colloca in un presente eterno e non ha nessun contenuto specifico; la Legge è diacronica: vige attraverso i secoli come custodia formale di un contenuto di verità che deve essere continuamente atteso fintantoché non sarà rivelato a tutti, alla fine dei tempi. L’Occidente, con la sua avventura storico-politica, rappresenta l’estensione di questa tirannide legalitaria all’intero Pianeta.
La Legge si manifesta inizialmente come ordinamento che regolamenta una volta per tutte il desiderio, sottraendo all’arbitrio irregolare dei singoli la gestione delle pratiche di vita in comune. Non uccidere, non desiderare la roba d’altri, non rubare… Nella sua forma più essenziale, la Legge è il tentativo di sottrarre l’economia dei rapporti alla precaria dimensione del faccia-a-faccia, che quei rapporti dirime e inquadra ogni volta daccapo, ma costantemente rischiando che la regola non sia trovata, e che le parti finiscano per confliggere in forme distruttive. Non si deve credere che questa alternativa non sia contemplata anche nello scenario caratteristico della NPG: la morte, l’abominio, il delitto sono possibilità sempre aperte al personaggio che consapevolmente accetta di giocare secondo le regole del gioco, come si è già detto nel secondo capitolo di questo scritto, parlando del superamento della “legge morale”. E tuttavia questi esiti, per quanto terribili, devono essere necessariamente contemplati, perché si dia la possibilità del gioco stesso – cioè della vita, ovvero della sua forma interinale e post-storica.
Il Giappone ideale della NPG – che, ricordiamolo, non coincide affatto con il “paese reale” – sembra essere proprio il custode, ovvero il laboratorio politico, di questa società futura – ma già presente – post-legalitaria, basata su un’accettazione integrale dell’esistente – e quindi fondamentalmente a-politica – e sullo sfruttamento delle condizioni ambientali di base – la società classista e capitalista – ai fini della definizione e ridefinizione costante di regole e forme di relazione, determinate di volta in volta dagli incontri e dai desideri dei personaggi.
Lo scarto fondamentale di cui si sostanzia l’esistenza post-storica fondata sulla regola e il formalismo relazionale, di contro alla tradizione occidentale che si struttura sul binomio legge-contenuto, è ben rappresentata dalla citazione seguente di Baudrillard:
L’unico principio del gioco, che tuttavia non si pone mai come universale, è che la scelta della regola vi libera dalla legge. Priva di fondamento psicologico o metafisico, la regola è anche priva di un fondamento di credenza. A una regola non si crede né si deve credere – la si osserva. La sfera diffusa della credenza, l’esigenza di credibilità che avvolge tutto il reale, è volatilizzata nel gioco – da qui la sua immoralità: procedere senza crederci, lasciar risplendere il fascino diretto di segni convenzionali, di una regola priva di fondamento. (15)
Alla luce di questa distinzione trovano esatta collocazione le parole di Kojève sulla forma di vita interinale dei giapponesi, sospesa tra la fine – di quella che per loro è una parentesi – del divenire storico-politico umano occidentale, e l’eternità: il Regno millenario, l’Età dello spirito in cui la Legge è abolita e la regola del faccia-a-faccia (il Due di Giustizia) determina in forma non puramente anomica, ma regolamentale, i rapporti tra le persone. L’esistenza informata dalla Regola e dal superamento della Legge è precisamente quella vita “in funzione di valori totalmente formalizzati” di cui parlava Kojève, e che in questi termini assume i connotati di una profezia sul Giappone come avanguardia di una forma di vita planetaria che è almeno auspicabile che sia compresa e studiata quanto prima, in luogo della Legge fallata e ormai inoperante, perché divenga concreta alternativa allo spettro onnipresente dell’animalizzazione nichilistica che giunge da Occidente.
Il gioco e la società post-storica, la Regola concepita come disponibilità a rivedere costantemente i contenuti di una Legge che è fondata su un segreto di cui, con Kafka, non si trova più la chiave, sono ciò che più assomiglia alla forma di vita propria dell’adolescenza – al “mondo perduto” che è il protagonista occulto di così tanti prodotti della NPG. L’adolescenza è l’età del gioco e della regola in quanto, per posizione e per ignoranza congenita, essa è fuori dal mondo informato dalla Legge adulta – la quale, dal canto proprio, si pone scandalosamente nei confronti dell’adolescente, sottomettendolo a un discorso la cui forza consiste proprio nel segreto su cui si fonda, e che all’adolescente è alluso e sottratto in forme radicalmente seduttorie e pigmalioniche. Si sta parlando, tra le altre cose, del desiderio sessuale – di quello dell’adolescente per il suo simile e per l’adulto, e di quello dell’adulto per il suo simile e per l’adolescente – sulla cui economia repressiva e legalitaria si fonda l’autorità dell’adulto, nella misura in cui egli introduce l’adolescente al mondo del lavoro, alla politica e al mercato delle relazioni sessuali – il Regno misterioso dell’Adultità – quali forme lecite e legislate (lecite perché legislate) di organizzazione del desiderio. Tale considerazione, sia detto di sfuggita, identifica idealmente l’adolescenza quale ultima classe subalterna in attesa di una redenzione storica che coincide con la liberazione del suo desiderio dell’etero-normazione – e di cui la NPG si candida ad essere il “vangelo della nuova genesi” (16).
4. In chiusura: ancora furikuri
Tali considerazioni trovano la loro più esatta formulazione in quell’epitome perfetta della NPG che è la serie FLCL (Furikuri), di cui chi-scrive ha già parlato in un altro articolo, e di cui si vuole solo far cenno in questa sede, con riferimento però alla seconda stagione di quel mirabile prodotto, realizzata nel 2018 dalla I.G.Production: FLCL Progressive. Con toni concitati e oracolari, chi-scrive ha detto altrove che questa serie costituisce in qualche modo “l’angelo”, ovvero la massima sintesi, dell’animazione giapponese, non ancora identificata con l’acronimo NPG. Voglio tornare con più rigore su quell’affermazione, nella quale chi-scrive crede convintamente, e tanto più dopo la visione della seconda serie.
FLCL Progressive narra le vicende di Hibajiri, una studentessa delle medie prigioniera di una corazza di autismo e indifferenza che è il risultato di una sensibilità straordinaria soggiogata dalle logiche imperscrutabili e sadiche nei confronti di ogni tenerezza proprie del mondo degli adulti. Haruko, la chitarrista-trickster protagonista anche della prima stagione, veste i panni di sua insegnante con il manifesto doppio fine di vampirizzare le forze vive della sua adolescenza, e secondariamente di quelle dei suoi compagni di classe, per inseguire il miraggio della sua propria giovinezza perduta: coronare il sogno d’amore con Atomsk, personaggio-dispositivo che verosimilmente rappresenta quel nodo di seduzione e controllo delle forze vive del desiderio giovanile della cui organizzazione e repressione la stessa Haruko deve aver fatto esperienza nell’adolescenza. A questo scopo, Haruko sollecita Hibajiri e i suoi compagni attraverso gli stimoli del desiderio erotico e romantico, ponendosi nei loro confronti in termini che, ripescando per l’occasione il lessico girardiano, si potrebbero definire scandalici, ovvero finalizzati ad eccitare e a frustrare un desiderio irrealizzabile secondo la legge stessa che l’adulto seduttore incarna come latore del divieto, con lo scopo di canalizzare e convogliare quello stesso desiderio per fini di dominio connessi a una forma vampirica e succubica di godimento, in forme non dissimili da quelle che Marcuse analizzò in prospettiva freudiana e marxista in rapporto alla società dei consumi (17). Haruko è come un donchisciotte dell’adolescenza: adulta imperfetta, perché iniziata al monopolio delle pratiche di dominio, ma ancora sufficientemente sensibile al richiamo del “paradiso perduto” da non essere diventata un mero ingranaggio di quel discorso-potere, incapace quindi di rinunciare al sogno impossibile di un ritorno della giovinezza perduta, che la condanna a un’eterna erranza nelle regioni deserte dell’adultità, avendo lasciato il cuore nel desiderio inappagato – e ormai inappagabile – di un amore adolescenziale mai goduto; in questo senso ella è condannata, stando alla casistica che ne fa Agamben in Profanazioni, a vagare per sempre nel limbo della post-storia (18).
Fa bisogno di dire che Haruko, in quest’ottica, è precisamente il chi-scrive di FLCL, e dunque il calamo scrittoio che l’arcangelo dell’animazione muove sulla pagina bianca per schizzare le sue fantasmagorie d’amore perduto? Haruko è contemporaneamente gli autori della serie, gli spettatori “con la barba fin sul soggolo”, gli impresentabili personaggi adulti, tutti gli insegnanti di questo mondo e, da ultimo, in definitiva, proprio chi-scrive – una soggettività ibrida, inoperosamente post-storica, intessuta di narrazioni e vissuti indeterminati e solo allusi, ma favoriti, quanto alla possibilità di identificarsi a vicenda, dall’avventura della globalizzazione universale, che connettendo le culture, e mescolandole, rivela in filigrana ciò che al di sotto di esse attende di essere riconosciuto come l’eterogeneo all’origine di cui si è detto in altra sede (19), e che la vicenda furiosa della storia occidentale ha inseguito sotto mille vesti diverse e forme ancora da riconoscere per imperfette approssimazioni dell'apocatastasi a venire.
Che sarebbe – il paradiso perduto, appunto? Il bacio – come nel finale di FLCL Progressive, ma non solo – di due adolescenti innamorati? –
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Agamben, L’aperto. L’uomo e l’animale, Bollati Boringhieri, Torino 2019 (prima ed. 2002).
Cf. Agamben, ibid., p. 17, citazione tratta a sua volta da Kojéve, Introduction à la lecture de Hegel, Gallimard, Paris 1979 (1947), pp. 436-437.
Agamben, ibid., p. 13. L’autore definisce questa condizione umana post-storica, nel saggio in oggetto, nei termini di un divenire-animale che ricorda da vicino il destino dei personaggi di Kafka. Ovviamente, per Agamben come per chiunque, il divenire-animale dell’uomo post-storico è inteso nella duplice accezione, positiva e negativa, che concerne l’animale a seconda che lo si consideri come “bestia” o come “quasi-dio”, più spontaneamente e naturalmente in contatto con la Natura (e con Dio?) di qualsiasi umano incastrato a mezza via nella chain of beings. Il consumismo americanoide, in questo senso, sarebbe la versione grufolante e bestiale di questa post-umanità, mentre una certa situazione di gioco e di inoperosità, propria degli animali, ne rappresenterebbe il versante in luce. Per approfondimenti su questi temi rimando ai verbali del Gruppo di lettura Bucefalo, consultabili a questo link.
Hiroki Azuma, Generazione otaku. Uno studio della postmodernità, Jaca Book, Milano 2010 (prima edizione giapponese 2001). La distinzione che Azuma imposta tra grandi narrazioni e archivio postmoderno ricalca in parte quella proposta da chi-scrive, con la differenza, mi pare, che Azuma manca di rilevare la specificità della cosiddetta “terza generazione”, che definiremo nel seguito di questo articolo come combinazione di attenzione all’aspetto relazionale e superamento della dimensione legalitaria della morale tradizionale. Di contro, Azuma si concentra soprattutto sulla natura archivistica e accumulatoria della prassi culturale otaku, mancando così di rilevare la specificità di narrazioni veramente epocali come Evangelion (ampiamente sottovalutato nel saggio quanto al contenuto specifico della narrazione) e la posta in gioco trans-culturale di cui si parla presentemente.
Agamben, ibid., p. 18, citazione tratta da Kojève, ibid., p. 437.
Ortega y Gasset, ne La ribellione delle masse (SE, Milano 2001) attribuisce al soggetto storico dell’uomo-massa il massimo grado di snobismo come disponibilità a “fingere di essere qualunque cosa” (p. 21) in quanto creatura priva di un passato e di un destino proprio, fungibile dalle intenzioni della società capitalista e del lavoro. In rapporto a ciò che dice Kojève, quest’ultima definizione sembra piuttosto denigratoria che puramente analitica, ma si deve considerare che entrambe si collocano precisamente in quella post-storia che è la società di massa, e quindi andrebbero forse integrate come due facce della stessa medaglia.
Diversamente il femminile –? Sarebbe troppo ambizioso introdurre in questo scritto, già densissimo, l’ipotesi di una sovrapponibilità concettuale tra forma di vita post-storica e femminismo inteso come istanza politica di sovversione del patriarcato e apertura di un nuovo ciclo storico e culturale – che forse è già qui? Per un inquadramento parziale del tema, rimando all’articolo di chi-scrive su Weininger.
Brillante, in questo senso, l’analogia che Agamben rileva tra questo tempo post-storico ma ancora umano (letteralmente “interinale”) e i“Regno millenario” incastonato tra l’ultimo avvento messianico e la vita eterna. Cf Agamben, ibid., p. 19.
Una magnifica rappresentazione, a tratti elegiaca, di questa sospensione della vita attiva, produttiva e finalizzata, è condensata, a giudizio di chi-scrive, nei due bellissimi capitoli di Uchouten Kazoku, serie televisiva nella quale ad essere celebrata è la ricerca di ciò che nella vita è omoshiroi, interessante nel senso di curioso e insolito, ma anche degno di attenzione in quanto deviante rispetto alla norma. Non a caso i protagonisti della serie sono appunto degli animali (tanuki) benedetti dall’ao no chi, il sangue degli idioti, che libera i corpi in cui scorre dall’angosciosa ricerca di uno scopo di vita, e riconsegna l’umano a quella dimensione terminale-interinale – ovvero animale – di cui si parla anche qui, citando Agamben e Kojève.
Si leggano a questo riguardo gli articoli di chi-scrive e quelli di Matteo Bisoni presenti su questo blog, raccolti nella sezione Anime.
Due di Giustizia e Tre di Giustizia sono nozioni che fanno parte dello specifico idioletto filosofico di chi-scrive; mi scuso per averli adoperati in questa sede, ma trovo che siano perfetti per sintetizzare tutti i nodi concettuali impliciti nell’alternativa storica (o meglio istoriale) che si è delineata. La scelta del “Tre” e del “Due” – si sappia a scopo aneddotico – si deve al compendio del saggio di Bachofen Il matriarcato disponibile nell’edizione Christian Marinotti, Milano 2017 (prima ed. 2003); ancora una volta a testimonianza delle profonde analogie che questa alternativa istoriale intrattiene con il discorso femminista di critica e superamento del patriarcato occidentale.
Agli spokon si possono ricondurre peraltro anche titoli shonen di genere più fantastico, come gli scolastici agonistici alla MHA (My Hero Academia): la sostanza comune – una mobilitazione dei personaggi per il gioco inteso come relazione ed esercizio della regola – non cambia.
Baudrillard, Della seduzione, SE, Milano 1997 (prima edizione 1979).
Kafka, Davanti alla legge, in Racconti, Mondadori, Milano 1970, pp. 238-239. Davanti alla porta della Legge c’è un guardiano che rappresenta il custode del segreto legalitario che la cultura occidentale ha sempre identificato con la figura paterna. Tutta la letteratura kafkiana, in fondo, non è altro che questo tentare la soglia della Legge, nell’impossibilità di staccarsi dalla fascinazione del segreto, mentre l’Età dello Spirito, con le sue regole scandalose e i suoi sospiri di nostalgia, bussa alle porte della coscienza infelice, chiedendo asilo ed esistenza. Gli ultimi tre racconti di Kafka (Indagini di un cane, La tana e Giuseppina la cantante) sono, a giudizio di chi-scrive, l’approssimata forma onirica in cui questa rivelazione escatologica giunse alla coscienza di quell’eterno adolescente che fu Franz Kafka.
Baudrillard, ibid., p. 139.
Dunque esiste ancora qualcosa per cui lottare in senso politico, direbbe l’eventuale critico di questo scritto? Sì e no: sì, perché si dà l’attesa di questa liberazione dell’adolescenza subalterna; no, perché questa liberazione è già qui, in forma solo immaginata, per ora, ma produttiva di tensioni ideali che preludono concretamente a un nuovo assetto della società umana.
Marcuse, Eros e civiltà, Einaudi, Torino 2001 (prima ed. 1955).
Val la pena riprendere quella mirabile citazione, che ho già incluso nel primo articolo su Furikuri. Da Agamben, Profanazioni, Nottetempo, Roma 2005, p. 58: “Il messia viene per i nostri desideri. Egli li divide dalle immagini per esaudirli. O, piuttosto, per mostrarli già esauditi. Ciò che abbiamo immaginato, lo abbiamo già avuto. Restano – inesaudibili – le immagini dell’esaudito. Con i desideri esauditi, egli costruisce l’inferno, con le immagini inesaudibili il limbo. E con il desiderio immaginato, con la pura parola, la beatitudine del paradiso”.
In altra forma si è alluso a questo tema nell’articolo di chi-scrive su Madoka magica, chiamando in causa lo Heidegger di In cammino verso il linguaggio e il Derrida di Dello spirito, a loro volta già sviscerati in un altro articolo.
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