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Immagine del redattoreGruppo Studi Girard

Homura och Judas | Esercizi di teologia su "Madoka Magica"


Mmm... proprio quel prato fiorito a Lione, Francia?

Quello di Madoka è un universo in perfetto equilibrio. A una data quantità di speranza prodotta dalle preghiere e dalle azioni delle persone corrisponde una pari misura di disperazione. Il desiderio espresso e soddisfatto sottrae al serbatoio karmico la sua parte maledetta, determinando la frustrazione e la maledizione di qualcun altro – o di colei stessa che ha espresso e soddisfatto il proprio desiderio, avanti o indietro nel tempo. Assomiglia all’universo spietato governato dalle leggi dell’economia che domina questo nostro mondo sublunare e dimenticato da Dio – però più colorato, e dotato di un’estetica sublime, che fonde elementi infantili e immaginario gotico, orrorosa e sottile come le guglie di Mitakihara, la città in cui sono ambientate la serie e i film.



In questo universo esistono le maghe: vascelli di speranza investiti dell’onere di combattere per la salvezza di tutte, sacerdotesse delle maledizioni che portano la propria disperazione, letteralmente, con sé come un talismano: è la soul gem che contiene la loro anima strappata dal corpo in cambio di un desiderio realizzato – gemma che s’intorbida sempre più dopo ogni scontro, dopo ogni dispendio di benedizioni e forze per la salvezza altrui.



Le streghe, loro nemiche, non sono altro che le maghe stesse giunte al termine del loro ciclo vitale, devastate dalla lotta vana, dal sacrificio inappagato, dalle promesse tradite. Una maga la cui soul gem si intorbidi oltre misura rompe la crisalide della speranza e si rinserra nel guscio del male, nella kellipah di uno spazio chiuso – alla lettera: una dimensione subordinata al dominio del desiderio e della disperazione della strega stessa – nel quale gli esseri umani sono attratti come lepri nella tagliola, per essere divorati.


Esiste una teologia completa di Madoka, di cui la serie e il film Rebellion sono il vangelo esatto. I riferimenti a Evangelion si sprecano, infatti – nell’estetica, nella narrazione, perfino in certi sublimi dettagli, come la gendo-pose di Homura giunta alla perfetta identificazione con il padre divoratore di Shinji nel momento culminante del terzo film.



Esiste un fecondo parallelismo tra il sistema teologico di Madoka e quello che Derrida, dovendo identificare il quid proprio della rivelazione cristiana, chiamò “l’eterogeneo all’origine”, che altro non è se non lo “spirito originario del cristianesimo” (1), un concetto rarefatto e di difficile individuazione che si può snasare analogamente in molte diverse tradizioni religiose e spirituali. Ne parleremo, delirando, alla fine di questo articolo. Per ora stiamo calmi.


Riflettiamo intanto su ciò che il cristianesimo ha di propriamente esplosivo e divergente rispetto alle tradizioni precedenti e coeve, e vediamo se questo ha qualcosa da dirci su Madoka e il suo vangelo. Girard direbbe: il cristianesimo consiste nell’agnizione del ruolo cruciale del capro espiatorio. Ma appellandoci ad altri altri illustri antecedenti storici e filosofici, potremmo individuare nel concetto di “grazia” l’elemento di rottura con il mondo pre-cristiano e l’avvento della modernità (2). Ma che cos’è la grazia? E che c’entra con Madoka?


La grazia è il per-dono – il super-dono, il dono che non dà luogo a un contraccambio: la rottura dell’equilibrio di dare ed avere che dà forma al mondo. Equilibrio già da sempre impossibile, alla cui restaurazione continua lavorano senza sosta le istituzioni e i culti di tutte le antiche tradizioni, e di cui l’Orestea di Eschilo è la più completa e veridica traduzione epica che mi sia nota. Una vita per una vita, un dono per un dono, un colpo per un colpo. Clitemnestra ha ucciso Agamennone, dunque io, Oreste, uccido Clitemnestra – mia madre – e qualcuno, forse, ucciderà me… ma così non si va da nessuna parte…


Ciò che nasce ha da morire, e al suo posto qualcos’altro ha da nascere – da essere. Altrove l’ho chiamata “legge di Anassimandro”, pescando da uno dei frammenti più celebri del filosofo presocratico (3). Questa legge bustrofedica e femminile – perché improntata alla duplicità speculare del Pari, del “Due di giustizia” – viene sovvertita per sempre dalla remissione delle colpe prodotta dalla morte di “quell’adorabile bancarottiere” che fu Cristo (4): logos maschile che spariglia i conti una volta per tutte, e dà origine all’infinita Dismisura, ovvero: puoi fare, peccare, incasinare: qualcuno provvederà – teologia che è alla base della nostra stessa vita quotidiana, se si pensa al fenomeno del debito pubblico. L’universalità economica che detta le regole del nostro mondo si fonda su un debito aperto – il peccato irredento: lo Schuld – che non deve essere riparato dal debitore. I peccati, infatti, sono rimessi senza contropartita a tutti coloro che si rimetteranno a Cristo. La sua morte, secondo una logica assurda e inverosimile, sana l’infermità della natura umana, ripara per sempre – purché lo si voglia, dicono alcuni – lo Schlag, il deep romantic chasm, la Frattura originaria dell’Essere.


Madoka, modestamente, fa lo stesso. Ella è una scolaretta che la preghiera d’amore infinito di un’altra scolaretta – Homura Akemi, massacrata per giustizia da un destino atroce e insopportabile – ha reso depositaria di un serbatoio infinito di benedizioni – di un credito pressoché inesauribile. Madoka spende tutto in un colpo questo tesoretto di grazia, pregando che il Male sia eliminato dal mondo attraverso la propria trasformazione nella Redentrice – letteralmente: colei che paga per il riscatto d’altri dalla schiavitù di una legge inesorabile. Dopo il sacrificio di Madoka, al termine del loro ciclo vitale, le maghe non sono più tramutate in streghe. Trasfigurata in divinità femminile, Madoka giunge un istante prima della loro conversione demoniaca e le accoglie nel suo seno, sotto forma della coloratissima e consolatoria “Legge della Ruota”. Madoka paga per tutti: siamo salve.



Come Cristo, Madoka è bancarottiera della legge tremenda che vuole la restituzione perenne dell’equilibrio di disperazione e speranza nel mondo sublunare. Il karma è infranto: la speranza cresce come il profitto finanziario, inesauribile e perenne. Siamo giunti nel Regno dello Spirito, dove la Legge è finalmente abolita – ovvero superata e inclusa nell’opera mirabile dell’Economia, che produce la salvezza dal nulla.


Ma l’astuzia di questo espediente da bancarottieri, da giudei sgamati, non sfugge tuttavia alla dura Legge rediviva, che carica altrui di quella suprema maledizione che l’infinita benedizione di Madoka comporta. Qualcuno prima o poi farà i conti, e si accorgerà che si deve pagare – paiare, appagare, pareggiare: la Dismisura apertasi per Grazia di qualcuno – per gratuità donativa – deve essere richiusa per Disgrazia di qualcun altro – di un’altra scolaretta, secondo la legge che dice: “una scolaretta per una scolaretta”.


Homura Akemi, l’altra scolaretta, sopporta il dolore della trasfigurazione di Madoka in divinità almeno sotto tre riguardi:

1- perché innanzitutto Madoka è dimenticata da tutti – ovvero, più morta della morte stessa, e il suo sacrificio è vanificato dalla sua trasformazione in legge fisica, cui non si deve nemmeno la contropartita basilare di un culto, di cui Homura sarebbe stata almeno la somma sacerdotessa

2- perché innanzitutto la dea che inizialmente era lì-per-me, ora è lì-per-tutti: quando verrà per me – per me Homura, dico – io non sarò che un semplice anello della catena delle maghe salvate, non sarò per Madoka ciò che Madoka è per me – ma come mai potrebbe…?

3- perché innanzitutto la salvezza del mondo non è pagata a prezzo della dannazione di Madoka, come ingannandosi crede la stessa Homura – ma col sacrificio dell’unico desiderio che Homura aveva espresso in vita. Madoka paga il suo destino con la sparizione dal mondo sublunare – ma ci sono certe donne che non soffrirebbero di questo silenzio di sé, questa impermanenza nel registro dell’accadere. Diversamente pensa, del suo amore, un’innamorata. Homura paga la divinità di Madoka con la maledizione del proprio desiderio.


Quale desiderio è mai questo? Non è chiaro – non lo conosce chiaramente la stessa Homura. E’ quella cosa bifida e ambigua che gli umani chiamano amore. E’ la felicità di Madoka? Sì, certo – ma è mai possibile che questa felicità esista senza di me…? Senza il mio amore che trabocca infinito per lei, in lei? Oppure, appunto, è la mia felicità egoistica con Madoka – anche a condizione che il resto del mondo vada in rovina? La preghiera di Homura, generata inizialmente dal fiore purissimo dell’amore per Madoka, degenera fatalmente in quell’amore che è ossessione, che non ammette altra salvezza che per sé e per quella parte minuscola dell’amata che è in noi: è Homura stessa a dirlo, torcendosi lubricamente le mani, verso la fine del film. Un amore autistico, sporco, consumato nello sgabuzzino di un nuovo spazio chiuso, dove Homura e il frammento amato di Madoka, strappato con forza dal suo corpo divino, potranno vivere insieme nella menzogna.


Homura mente a sé stessa, quando dice che quello da lei sognato è un mondo in cui Madoka sarà felice. E’ chiaro che Madoka ha accettato il proprio destino di dea, trasformandosi in una incarnazione sorridente e kawaii della Legge della Ruota, con tutto il corteo di elefanti e carri lunari che accompagnano la discesa dei seleniti nel racconto di Kaguya. Il desiderio sul cui tradimento si sarebbe dovuto edificare il Nuovo mondo della Grazia, dunque, era quello di Homura, che coincideva con l’immagine, la persona, la presenza di Madoka stretta nel suo abbraccio.


Chi paga per tutti, dunque, non è Madoka – ma Homura. Il Salvatore non è Cristo – ma Giuda. Siamo nella teologia rovesciata, nell’eresia radicale del Kristus och Judas di Borges, nel giudaismo sabbateo-frankista, per il quale la sovversione della Legge è la via per la salvezza – nella terra guasta in cui l’Anomìa trabocca dalla Legge, in cui il Cristo si confonde con l’Anticristo, in cui speranza e disperazione nuovamente coesistono, ma nella forma bifida e indestricabile che il cinema d’animazione giapponese ci ha spesso fatto conoscere (5).


Homura incarna il tipo mitologico di Giuda in più di un senso. Innanzitutto, perché senza le sue azioni il piano della salvezza non si attuerebbe come previsto. In secondo luogo, perché Giuda bacia Cristo, mi immagino, con la passione lubrica con cui Homura scorre le proprie mani rapaci sulle gambe della sua dea. Come si può accettare la beffa di vedere la propria dea personale tramutata in dea-di-tutti? Alla base di questa ossessione sta la forma maschile del desiderio, che si nutre di possesso esclusivo.



Nel finale della serie apprezziamo il movimento pagano dell’indiarsi della scolaretta – tramutata in dea, ricordiamo, in forza dell’amore ricevuto da Homura. Nel film Rebellion, invece, il processo si ribalta nel fenomeno quasicristico dell’inscolarettarsi della dea, che “si fa donna per la donna”, parafrasando. Homura, paralizzata dalle potenze del male – gli Incubator, incubi succhiasangue, kellipoth a forma di gatto che letteralmente si nutrono della disperazione degli esseri umani – è raggiunta nello spazio chiuso della propria disperazione interiore da Madoka rifatta scolaretta, temporaneamente privata della sua funzione divina. Ma di questa benevolenza speciale della dea, Homura non può bearsi come della conferma pacificante dell’amore reciprocato di Madoka. No: Homura ne approfitterà per rapire la residua parte umana di Madoka, strapparla alla sua forma divina e rinchiuderla con sé nello spazio chiuso del suo cuore, dove la vicenda delle cinque maghe sarà ripetuta in cicli eternamente ritornanti e consolatori per la streghetta traditrice, restituita a una vita ammezzata di cui, in qualche modo, dovrà imparare daccapo a godere. Questo tradimento originario, che scaturisce da una pari quantità di ossessione positiva e negativa, di amore e disperazione, tramuta Homura stessa in una demone – ovvero nel Diavolo, come puntualizza giustamente Sayaka: nella creatura sovrumana speculare alla Dea, sovrumanamente agita dallo scandalo e divorata dallo phthonos, dal livore invidioso della vita d’altri.



La realtà già redenta dalla Grazia, letteralmente, è chiusa fuori. Al perdono per tutti, incarnato dal mondo redento dalla “Legge della Ruota”, Homura preferisce la folie à deux del suo incubo. Come Giuda, ella ripudia la divinità della Salvatrice badando unicamente alla sua forma umana, ma per il più mostruoso motivo dell’amore che l’avvince, che non ammette detrimento o condivisione, e si rivolge ossessivamente alla persona, al bene terreno slegato dal suo rapporto con la trascendenza. Pereat mundus, fiat iustitia – ma la giustizia scellerata e sanguinaria del Due, del colpo per il colpo, non quella luminosa e giustificante della grazia. Il mondo orbato della grazia redimente è rappresentato nelle ultime scene del film dallo scenario ammezzato presso cui Homura vaga come un fantasma, abbandonandosi al precipizio della sua disperazione insanabile. E’ un luogo umano, questo? Uno spazio abitabile aperto dagli dèi per gli uomini – uno spazio politico? No – è la camera da letto delle spose, profumata e addobbata per la consumazione dell’incesto.


Il vangelo di Madoka ci lascia amareggiati ma entusiasti, traboccanti di meraviglia e sublime orrore per quello che abbiamo appena visto: la donna che tradisce la dea distogliendola dal suo compito universale – soltanto per il bene di un amore sporco, irragionevole ed egoista. La legge della Gratuità, la Ruota che redime tutti a gratis – il prodotto raffinato di tre millenni di glorioso Patriarcato, la laboriosa sostituzione della Trinità giustificante alla Legge bustrofedica del taglione – è abolita non in nome di una più alta forma di giustizia, ma per l’opera incessante e terribile dell’amore, qui manifestato nella sua forma meno luminosa, meno esemplare-paradigmatica: più femminile, forse. Opera irragionevole e demente, secondo la logica del Tre, perché sacrifica la totalità del mondo per il focolare domestico, perché obbedisce a una logica incoerente e incalcolabile, incapace persino di distinguere l’oggetto vero della propria ossessione – si accontenta, Homura, di un pezzetto di Madoka: una sua reliquia, un feticcio. Apparentemente, però, questa forza anomica giustifica tutto: rende giusto e integro l’agire della demone, lo santifica – fino almeno alla scena ammezzata dopo i titoli di coda: lì qualcosa è andato storto, ma nessuno ha il coraggio di raccontarcene più.


Si profila un nuovo vangelo per l’era dell’Acquario? Un racconto anarchico di cui l’anomia – l’indistinzione di Bene e Male – è il principio fecondo? Un racconto che chiude le porte infernali dello spazio pubblico, che sottrae lo spirito del cristianesimo alla storia universale e lo addomestica in nome di un’ossessione personalistica? E la domanda che idealmente chiude questo scritto, e lo legittima almeno in parte – sempre, si intende, si parva licet componere magnis: è di questo futuro intendimento a-politico e domestico della nozione di salvezza che dovremo occuparci – accontentarci? – nei tempi futuri? Madoka è almeno un’avvisaglia del nuovo vangelo dell’amore, della costituzione dell’Età dello Spirito, del regime proprio dell’era dell’Acquario, della riscossa del Femminile sul Maschile? Il compimento della Legge passa attraverso lo spazio chiuso dell’amore anomico, che non distingue il bene dal male – ma forse, risolvendo il problema male nella naturalità del bene, confondendo le cose ultime con le prime, la luce con l’ombra, il sacro con il profano?



L’animazione giapponese ci ha abituati – ci ha preparati – a questa confusione di bene e male che desta meraviglia e stupore nell’occidentale manicheo. Ricordo la prima impressione fortissima che ebbi di questo pensiero quando vidi per la prima volta il finale di Porco Rosso, e in generale tutti i film di Miyazaki. Buoni e cattivi a un certo punto non esistono più: tutto si confonde nella festa gloriosa che accompagna la fine della storia, la fine del narrare che ha composto pazientemente il dissidio delle volontà in guerra, che ha sanato la Ferita del Geschlecht, che con la mitezza del suo dire (Sanftmut) ha convertito la Zwietracht, la duplicità ostile, in Zwiefache, in buona doppiezza (6). Il male compiuto non è propriamente abolito dalla ricomposizione della Zwiefache, però è vero che si può prendere un bicchiere di vino insieme al proprio rivale storico senza troppe menate, una volta compiuto questo passo. E’ lo scoppio di risa che accompagna il duello di Gon e Hanzo (7), quando la rivalità sanguigna si scioglie nella danza dei fiori gialli e blu – o erano gialli e rossi? Non ricordo il detto di Nishitani, non so se lo confondo con la genziana di Rilke…


Ed eccoci di nuovo a Derrida e al De l’esprit – quella che potrebbe essere definita la “lettera al padre” di Derrida a Heidegger. L’eterogeneo all’origine di cui si è detto in apertura di questo articolo, forse, brucia come fiamma viva sotto tutti i travestimenti culturali che gli abbiamo sovrapposto – anche nella serie di Madoka e nel film Rebellion. La scaturigine stessa del discorso cristiano – la promessa di una restituzione dello stato originario della Mitezza, la fine delle guerre, la vittoria sul Diavolo – alberga forse anche nell’animazione popolare giapponese (8) e nella possibilità che, là dove il Male sembra prevalere, sia già operante, invece, la strategia sbalorditiva del Bene, che ritirandosi nel Tratto Discendente, una buona volta, prepari il Più Grande Tratto Saliente che tutto porterà a Compimento (9).


Facciamo finta che nulla sia stato detto, delle ultime righe: torniamo a bomba sull’anime, nell’anime-anima. Homura, dunque: è dannata? Oppure è salva? Mi spiace che alla fine i creatori dell’anime abbiano scelto di rappresentarla mezza disperata, mezza sospesa sopra un dirupo, dimidiata come chi compie il male – insegna Buber – è sempre per metà convinto, per metà incerto su ciò che sta facendo. Gli ebrei insegnano – i pericolosi ebrei – che non c’è male se non in ciò che si compie senza l’interezza della persona (10). Una Homura pienamente convinta del male che ha compiuto, fino all’ultimo, sarebbe stata l’immagine veridica della Super-donna che si attende con ansia dal nuovo Millennio? Con un po’ più di coraggio, si sarebbe fatto di Homura il vero anticristo che quest’evo periclitante chiama a gran voce tra le doglie del parto. Ma forse i tempi non sono ancora maturi – o forse, invece, a pensare così, siamo già nelle braccia del Diavolo? Che se avesse poi davvero le fattezze di Evil Homura – male, letteralmente, non farebbe.



* * *

  1. Cf. Derrida, Dello spirito, p. 114

  2. Accenno solo di sfuggita al ricchissimo filone di studi sui rapporti tra cristianesimo e moderna economia finanziaria, vera religione e ultimo culto residuale del mondo contemporaneo, precipitato laico della rivelazione cristiana, per cui si potrebbe anche solo leggere il Frammento teologico-politico di Benjamin, ma che più diffusamente si potrebbe recuperare dai testi di Agamben, Esposito e Stimilli. I miei riferimenti principali per il discorso che segue sono, tuttavia, Georges Bataille e Johann Jakob Bachofen.

  3. «Da ciò donde viene la genesi delle cose, da quello stesso viene a loro anche la preterizione, secondo il dovuto. Esse si rendono infatti l’un l’altra giustizia e ammenda per l’ingiustizia, secondo la disposizione del tempo».

  4. Così nel folgorante frammento di Leon Bloy, Dagli ebrei la salvezza, Adelphi, Milano 1994, p. 112.

  5. Penso a Maromi-rosa-e-nero di Paranoia Agent, di cui ho parlato in questo articolo, e all’Eva imaginary dell’ultimo film di Evangelion, di cui si può invece leggere qui. Nelle righe precedenti cito invece il racconto Tre versioni di Giuda di J.L.Borges e la corrente sabbateo-frankista del messianismo giudaico, per cui cf. G. Scholem, La Cabala, Edizioni Mediterranee, Roma 1992, pp. 245-309.

  6. Ho discusso di questi temi alcuni anni fa in due articoli apparsi su questo blog (questo e questo), di cui si attendeva (con ansia, eheh) il terzo, conclusivo, che attraverso la lettura incrociata del saggio di Keiji Nishitani La relazione io-tu nel buddhismo zen e di alcuni importanti titoli di anime giapponesi avrebbe individuato quel nuovo vangelo della Terza età, di cui si fa cenno qui con toni oracolari, e che avrebbe ripreso, se non proprio compiuto, il discorso aperto da Heidegger e da Derrida sul tema del Geschlecht. Facciamo finta che questo articolo su Madoka Magica occupi legittimamente il posto di quel terzo articolo, mai scritto, e forse inscrivibile, che attende ancora la sua giusta dizione. Aggiungo, per amor di coerenza, che proprio nel fenomeno della narrazione avevo individuato, in un altro articolo, il mezzo spirituale attraverso il quale questa indistinzione di Bene e Male, questo vangelo rovesciato da dilettante Anticristo avrebbe trovato la sua dizione veridica.

  7. Riguardiamolo insieme a questo link.

  8. Questa è anche, credo, la speranza inespressa di Derrida: che tutte le culture, tutte le tradizioni, alla fine delle fini, si dissolvano nella ricognizione transculturale di questa eterogeneità originaria, di questa Questione Fondamentale che dà origine a tutti i discorsi da Oriente a Occidente: il problema che consiste nella Restaurazione della Mitezza (Zwiefache di nuovo!), nel Ricondurre la Fiamma dello Spirito al Raccoglimento che tutto preserva e difende dalla Notte del Male, dalla Distruzione (Zwietracht di nuovo!). E nella Doppiezza di questo Dire – Destino di Doppi che O si annientano O imparano a coesistere – si gioca la Questione di cui sopra, molte maiuscole prima. In nota, ho fede che questi deliri non saranno letti da alcuno.

  9. Qual è il piano superumano che è in atto da secoli per la salvezza di tutti all’insaputa di tutti? L’ecumenismo cristiano, il cosmopolitismo, la globalizzazione – sono tutte differenti declinazioni di quel recupero dell’Eterogeneo all’origine che non trova la strada della propria manifestazione, intorbidato com’è dalle sclerotizzazioni delle diverse strategie culturali. Eppure a questo mirano – anche se può non sembrare – il transumanismo, l’antispecismo, il superomismo, tutto il Progressismo nella sua accezione più spirituale – io credo. Al Regno della Mitezza. Alla Sanftmut.

  10. Cf. M. Buber, Immagini del bene e del male, Edizioni di comunità, Milano 1965. Non chiamiamo in causa, per quest’affermazione così gravida di conseguenze, gli eretici sabbatei citati in precedenza, ma appunto quel buon diavolo di Buber, che chi l’avrebbe mai preso per un mezzo assatanato? Eppure “il dubbio è la non-scelta, la mancanza di decisione: da esso nasce il male”, e poi: “esser vero significa in definitiva rafforzare, difendere e confermare l’essere nel punto della propria esistenza; ed essere-falso significa in definitiva indebolire, oltraggiare e privare dei diritti l’essere nel punto della propria esistenza”. Che ne avrebbe detto Nietzsche, maître-a-penser di tutta la modernità diabolica e anomica, di questa definizione molto ardimentosa di bene e male? Che ne avrebbe detto lo Heidegger-de-l’esprit, informato da Derrida che il male sia un fatto spirituale, e risultanza dell’infuriare del Tratto in sé stesso, del dilaniarsi di sé in sé del Geschlecht?

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