Alcuni giorni fa ho avuto la fortuna di incontrare nuovamente, a distanza di qualche anno, uno dei sonetti più celebri di Dante: Tanto gentile e tanto onesta pare (da Vita Nova, Cap. XXVI). Si è trattato di un incontro, credetemi, davvero interessante e piacevole. Del resto, se un autore è veramente grande, non bastano sette secoli per fargli perder la voce.
La poesia in questione è stata composta da Dante in gioventù e viene tradizionalmente presentata come chiaro esempio di lirica stilnovista. La critica ha sostanzialmente rilevato in questa composizione il tema della contemplazione interiore della “donna-angelo”, alla quale si accompagnerebbe la spiritualizzazione dei sostantivi, il farsi metaforico del linguaggio tutto e l’idealizzazione dell’oggetto d’amore.
Secondo tale lettura il sonetto rappresenterebbe, a livello schematico/contenutistico, il poeta amante da una parte e la donna amata, Beatrice, dall’altra. Tema centrale della poesia sarebbe quindi la contemplazione estatica dell’amante di fronte all’apparizione sovrannaturale della donna-angelo[1].
A volte esser profani rispetto a un campo di studi rappresenta una risorsa da non sottovalutare. Se, come me, non siete studios* di Dante, dovreste infatti riuscire ad attenervi strettamente al testo dantesco, prescindendo dai giudizi consolidatisi sulla poetica stilnovista. Vi devo confessare che non mi pare affatto che il sonetto in questione si adatti allo schema che prevede la polarizzazione a due tra poeta amante e donna amata.
Consideriamo il primo polo: la soggettività del poeta (o il Dante autobiografico, se preferite[2]). Va notato che nel componimento non compare neanche un verbo declinato alla prima persona singolare. Non compare neanche il pronome ‘io’, e non pensiate si tratti di una prescrizione stilistica. Insomma, dov’è l’amante? Occorre l’aggetto possessivo ‘mia’ nel secondo verso, e di fatto è questa l’unica traccia della presenza dell’amante nel componimento. È assai eloquente tuttavia il significato di questo ‘mia’. Gianfranco Contini, in un’analisi del sonetto che ha fatto scuola[3], nota che ‘donna’ non ha il significato di femmina, ma quello primitivo di domina, di “signora (del cuore)”: “donna mia” vale quindi come ‘signora di me stesso’, ‘custode del mio cuore’, ‘mia padrona’.
L’unica traccia della soggettività dell’amante la si intravede nel luogo in cui viene sancita la sua “assimilazione” a un qualcuno che è altro da sé. Diventa quindi molto complicato delineare nel testo uno spazio, connotato dall’interiorità e dall’introspezione, in cui si consumerebbe – come afferma molta critica – la contemplazione della donna amata. Come può esserci contemplazione interiore senza interiorità? Lo schema concettuale secondo cui la poesia rappresenta la relazione tra due poli, quello del poeta amante e quello della donna amata, mostra le prime carenze.
Passiamo ora al secondo polo: Beatrice. Effettivamente la donna amata sembra comparire in veste di protagonista: al centro della scena c’è lei, le qualità celebrate – l’onestà, la gentilezza, l’umiltà, etc… – sono le sue.
Per la lettura che propongo è essenziale tuttavia notare in che momento viene presentata la scena. “Tanto gentile e tanto onesta pare la donna mia quand’ella altrui saluta”. Ebbene sì, le lodi di Beatrice sono tessute nel momento in cui la donna altrui saluta. Su questo ‘altrui’ occorre soffermarsi. Contini, nella sua parafrasi “puramente semantica”, espunge addirittura il pronome ‘altrui’, non traducendolo con ‘altri’, o con ‘qualcun altro’, poiché, secondo l’uso dell’italiano antico, sarebbe un pronome indefinito che avrebbe esclusivamente la funzione di dare un oggetto al verbo transitivo ‘salutare’[4].
Ritengo che questa scelta non si accordi affatto con il significato complessivo del sonetto. L’altrui designa sì, come rileva Contini, il termine indefinito e imprecisato a cui si volge il saluto. La sua indefinibilità non costituisce tuttavia una ragione per negarne la rilevanza, anzi. A favore dell’importanza di questo ‘altrui’, credo si debba argomentare nel seguente modo.
Innanzitutto, se davvero l’altrui, ossia l’indefinito pubblico destinatario del saluto di Beatrice, non contasse nulla, non ci spiegheremmo perché così tanti versi del sonetto sono dedicati alla descrizione degli effetti che il saluto della ragazza sortisce sulla gente, sugli altri. Di fatto in ciascuno dei primi undici versi compare almeno un elemento, grammaticale o semantico, che richiama i destinatari del saluto di Beatrice, coloro che assistono al suo passaggio. Vediamo quali sono questi elementi che alludono costantemente alla presenza degli altri.
Nota Contini che il verbo ‘pare’ è un termine-chiave del componimento. Questo verbo, sostituito all’inizio della prima terzina da ‘mostrasi’, non è da intendersi nel senso di ‘sembrare’. Non è che Beatrice sembra tanto gentile e tanto onesta. ‘Pare’ è usato nel senso di ‘si manifesta evidentemente’. È fondamentale rendersi conto che nel sonetto Dante non sta descrivendo Beatrice per come è “in sé”. Beatrice è lodata nel (e per il) suo manifestarsi. La donna amata è soggetto del sonetto nella sua manifestatività o, il che è lo stesso, è la manifestatività di Beatrice ad esser decantata nel componimento. Sottolineare la manifestatività di Beatrice significa – mi pare difficile negarlo – porre l’accento sul fatto che c’è un qualcuno a cui Beatrice si manifesta. Se Dante fosse interessato semplicemente alle qualità “oggettive” che Beatrice possiede di per sé, perché non limitarsi ad indicarle direttamente utilizzando il verbo ‘essere’? Di nuovo compare l’ombra del polo indefinito e anonimo costituito dal pubblico dell’apparizione di Beatrice.
Passiamo agli ultimi indizi che sottolineano l’importanza dell’altrui del verso 2. Come nota lo stesso Contini, molti termini utilizzati dal poeta – ‘onesta’, ‘vestuta’, ‘piacente’, ‘labbia’ – devono essere intesi in quanto fanno riferimento alla manifestazione esteriore, alla relazione con un soggetto altro. Tali termini danno forma alla contemplazione di Beatrice da parte dell’altrui indefinito. In questo sonetto la contemplazione è tutt’altro che interiore. La lode, all’opposto, pone l’accento sull’esteriorità, sulle qualità di Beatrice delle quali è costitutivo l’esser rivolte all’esterno.
Queste considerazioni dovrebbero esser sufficienti per farci accantonare lo schema interpretativo che mette al centro il rapporto tra il poeta amante e la donna amata. Il testo suggerisce piuttosto il riflettersi, in senso quasi ottico, delle qualità di Beatrice per mezzo di quel polo indefinito e senza volto che è l’altrui che mira il passaggio della ragazza. Non è Beatrice la protagonista del componimento, sono gli occhi degli spettatori su cui è impressa l’immagine di Beatrice. È da questi che Dante trae l’ispirazione.
In termini girardiani diremmo che non siamo in presenza di un desiderio lineare che passa dal soggetto desiderante, Dante, all’oggetto desiderato, Beatrice. L’attenzione è rivolta piuttosto alla fitta e plurale trama di sguardi (ossia di desideri), forse impersonali, ma non per questo meno rilevanti.
Contini invita a non vedere nel sonetto la raffigurazione visiva di uno “spettacolo”, ma l’enunciazione, quasi teorica, di cose celesti, di metafisica amorosa e di psicologia generale al contempo. La prospettiva qui abbozzata, invece, tiene unite la particolarità e il realismo della scena descritta con il suo portato “metafisico”. Dante – vorrei dire – sta effettivamente descrivendo una banalissima scena in cui una bella donna cammina per strada salutando gli astanti. La scena tuttavia è trasfigurata dall’irresistibile intrecciarsi dei desideri e acquista così un valore che va al di là della realtà “oggettiva”[5] meramente sensibile.
Ci sarebbe altro da dire sul sonetto. Mi soffermerei solo su un aspetto. Nel componimento sembra affiorare una contraddizione. Nessuno osa alzare gli occhi su Beatrice, eppure tutto il componimento descrive gli effetti che la donna provoca in chi la guarda. Dante, significativamente, risolve questa contraddizione nel progressivo moto di distanziamento di Beatrice. Il desiderio altrui è censurato – userei proprio questo termine – nel momento di massima vicinanza tra Beatrice e gli astanti: quand’ella altrui saluta, gli occhi, vettori e moltiplicatori di desiderio, si abbassano. Con il progressivo allontanarsi di Beatrice – ella si va – si innalzano dapprima i suoni delle lodi, e infine si alzano gli occhi. Beatrice sembra rendersi accessibile solo quando è lontana a sufficienza. Nel momento di massima vicinanza si leva invece una barriera che impedisce ogni reciprocità, di sguardi o saluti.
La descrizione dell’articolarsi dei moti di desideri è estremamente interessante. Dante, paradossalmente, fa della elevatissima desiderabilità di Beatrice uno schermo che mette al riparo la donna, anche se solo per pochi istanti, dal desiderio altrui.
La fertilità degli spunti che ho offerto in queste righe dovrebbe esser misurata nel confronto con altre poesie di Dante. La lente interpretativa girardiana porta alla luce una serie di aspetti che non appartengono alla vulgata del dolce stilnovo che viene somministrata al Liceo (e forse anche nelle Università). È anzi probabile che attraverso un approfondito studio girardiano, si entrerebbe presto in conflitto con le riflessioni della critica tradizionale.
A me risulta davvero difficile non vedere nelle cerchie di uomini dotti che si ritrovano per “ragionar d’amore”, per tessere le lodi delle loro amate, una tavolata di Collatini shakespeariani[6]. Nel sonetto Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io mi pare impossibile non percepire un qualcosa di molto simile al “sogno della vita a tre” che Fëdor Dostoevskij fantasticava per sé, Marija Dmitrevna e Nicolaj Vergunov[7]. Del resto, non è forse vero che Dante, sulla trentina, si riconoscerà smarrito in una “selva oscura”?
Girard ha dedicato a Dante alcune pagine sul Canto V dell’Inferno. Il pensatore francese ha puntato il dito sull'evidente natura mimetica dell’amore tra Paolo e Francesca. Può la lettura girardiana metterci in dialogo con il poeta fiorentino che visse settecento anni fa? Sarà compito di nuove analisi e nuovi approfondimenti dare risposta a questa domanda[8].
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[1] G. Baldi et al., Dal testo alla storia, dalla storia al testo. Volume 1A, Paravia, Torino 2000, p. 579.
[2] Non mi interessa la disputa sul valore autobiografico dello scritto.
[3] G. Contini, Esercizio d’interpretazione sopra un sonetto di Dante, in Varianti e altra linguistica, Einaudi, Torino 1970.
[4] Va notato però che in altri luoghi danteschi in cui ‘altrui’ compare con la stessa funzione (Inferno, Canto I, v. 18, oppure Paradiso, Canto VI, v. 132) si può constatare chiaramente che il pronome è effettivamente portatore di significato (di fatto diverse parafrasi non lo espungono e cercano di renderlo in qualche modo).
[5] “[…] il desiderio mimetico opera realmente, nel senso che produce una sorta di contro-realtà”. R. Girard, Shakespeare. Il teatro dell’invidia, a cura di G. Luciani, Adelphi, Milano 1998, p. 98.
[6] Cfr. Ivi, pp. 47-48.
[7] R. Girard, Dostoevskij. Dal doppio all’unità, a cura di R. Rossi, SE, Milano 1987, pp. 19-24.
[8] Segnalo in particolare questo importante pezzo del collega Matteo Bisoni, in cui l'analisi viene notevolmente ampliata, grazie anche ad ulteriori strumenti concettuali (mutuati ad esempio da de Rougemont) e a riferimenti ad altre opere di Dante. Sempre su questo blog, potete leggere anche questa mia recensione a Dante di Alessandro Barbero. Infine, vi raccomando un prezioso contributo audiovisivo di Mattia Carbone sulla Divina Commedia, in cui vari temi tipicamente girardiani vengono riletti alla luce di alcuni scritti danteschi di Pascoli e Pasolini.
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