Anche nel Riccardo II è dunque possibile scorgere numerose tracce del dramma martirologico. Abbiamo visto che, provando ad obliare il “politico” quale relazione costitutiva della Persona sovrana, bandendo cioè Bolingbroke per l'insostenibile carica mimetica di cui è portatore, Riccardo prova ad innalzare l'estrema difesa del suo immaginario regale, in un processo che vede però il progressivo confondersi dei due corpi del re e che, contemporaneamente, evoca la violenza della guerra civile.
In maniera pressoché schizofrenica (1), davanti all'emergere di un doppio colossale che getta l'inscalfibile corporation regale nella mischia della violenza storica, re Riccardo da una parte è costretto ad onorare e difendere la dignità regale dall'assedio ma dall'altra cede davanti all'epocale declassamento del corpo mistico a corpo naturale e tenta di mettere in atto delle strategie di fuga per sottrarsi all'inevitabile dolore.
«Lo stato di semirealtà e di oblio in cui Riccardo vorrebbe rinserrarsi adombra la figura del “Matto regale”» (2) quale forma di ironico rifiuto della cruda realtà del martirio: ogni dove emergono i segni dello sdoppiamento e con disarmante tempestività compaiono nuove abrasioni sul Corpo eterno della comunità, mentre il re si rinchiude in una solitudine sempre più cupa, lamentosa e malinconica.
Il Fool è anch'esso figura della scissione ma ha una precisa utilità nella fatale strategia di fuga nell'immaginario regale: immaginando l'identità di Riccardo come una festa o un sabba, l'invito a comparire del Fool servirebbe a nascondere o a stemperare il disagio generato dall'ospite sommamente indesiderato ma che già-da-sempre abita il fondo dell'Io sovrano di Riccardo: Bolingbroke quale doppio mimetico.
Il Fool, quindi, nel caso del Riccardo II, identifica quella parte da recitare, quella caricatura grottesca da impersonare, in grado di aiutare il re lungo la sua via crucis, come se venisse scavato una sorta di fossato colmo di ironia, giochi di parole e trovate per fingersi ancora sovrano mentre i nemici s'avventano sulla corona come lupi famelici. Lo strazio della chenosi sovrana deve essere oscurato con ogni mezzo, poiché traumatica è l'identità sovrana svelata; essa, rendendo politico il gesto filosofico di Lévinas, è l'icona del Me posto all'accusativo.
«È come se balenasse dinanzi a Riccardo la possibilità che il proprio vicariato di Cristo-Dio implichi anche il vicariato dell'uomo Gesù, e che egli, il regale “vicario eletto dal Signore”, debba seguire il proprio divino Maestro anche nella umiliazione terrena, e portare la croce» (3). Insomma, nel palesarsi della Croce quale segreta forma della sovranità, nell'impossibilità di sfondare quel simulacro di trascendenza che è la porpora regale quale tentativo di impiantare un'eternità terrena, Riccardo è costretto brutalmente a vedere la natura chenotica della persona e della decisione sovrana: la fuga ironica prima e il non-ritrovarsi nella Passione poi, o meglio il tentativo di strumentalizzare l'analogia che accomuna ogni re umiliato all'inversione sacrificale compiuta da Cristo, sono quelle reazioni che, psicologicamente e politicamente, finiranno per esporlo senza possibilità di appello, marchiato da segni vittimari definitivi.
Con la malinconia, chiaramente, si fa avanti anche il corpo naturale del re, inchiodato alla sua condizione mortale e terrena. «Non soltanto la natura umana del re prevale sulla natura divina della Corona, e la mortalità sull'immortalità; ma, ciò che è peggio, la regalità stessa sembra aver mutato la sua essenza. Invece di essere esente “da minorità o da vecchiaia o da altri naturali difetti e debolezze” la stessa regalità viene a significare morte, nient'altro che morte, e la lunga teoria dei re straziati che sfila davanti agli occhi di Riccardo è prova di tale cambiamento»(4).
Le immagini poetiche che Shakespeare inizia ad utilizzare diventano sempre più languide e terrifiche; le piaghe che affliggono la fantasia di Riccardo sono assai simili a quelle che rovinano il corpo di Giobbe. Nella spettrale processione dei re che solca la mente del sovrano inglese ormai orfana di qualsiasi conforto riconosciamo la cantilena dell'«antica via degli empi» (5): «For God's sake let us sit upon the ground, | and tell sad stories of the death of kings - | How some have been deposed, some slaain in war, | some haunted by the ghosts they have deposed, | some poisoned by their wives, some sleeping killed; | Keeps Death his court, and there the antic sits, | Scoffing his state and grinning at his pomp, | allowing him a breath, a little scene, | to monarchize, be feared, and kill with looks, | infusing him with self and vain conceit, | as if the flesh which walls about our life, | Were brass impregnable: and humoured thus, | comes at the last, and with a little pin | bores through his castle wall, and farewell king!»(6). L'intuizione sacrificale di Kantorowicz è cristallina: «Il re che “mai muore” ha qui lasciato il posto al re che sempre muore e che è soggetto alla morte più crudelmente degli altri mortali»(7).
Nel momento in cui Riccardo si ritira nel castello di Flint, esiste ormai solamente la finzione della regalità. Riccardo prova a difendere la parvenza di dignitas che ancora lo ammanta trovando però risposta solo in un'immanenza infestata da nemici e traditori: il ponte con la trascendenza verticale, con la sede ultima della legittimità è completamente saltato; resta solo il simulacro di questa trascendenza perduta, una trascendenza orizzontale e idolatrica che vincola il desiderio di riconoscimento all'ostacolo più scandaloso.
Siamo dunque quasi mossi a tenerezza quando «rimprovera Northumberland per avere omesso il tradizionale inchino del vassallo e del suddito dinanzi al suo signore e vicario di Dio»(8): «We are amazed, and thus long have we stood | to watch the fearful bending of thy knee, | because we thought ourself thy lawful king: | And if we be, how dare thy joints forget | to pay their awful duty to our presence?»(9).
Ma anche il Nome della regalità è ormai completamente rapito da questo salmo di disfacimento: dramma dell'abiezione e commedia dell'abiezione diventano un unico testo da recitare con ogni virtuosismo possibile per provare a levitare sopra un dolore fattosi, lui sì, sovrano assoluto e sopra l'urgenza di una decisione estrema intorno all'anomico scatenamento della guerra civile: «I'll give my jewels for a set of beads: | my gourgeous palace for a hermitage: | my gay apparel for an almsman's gown: | my figured goblets for a dish of wood: | my sceptre for a palmer's walking-staff: | my subjects for a pair of carved saints, | and my large kingdom for a little grave, | a little grave, an obscure grave»(10).
L'essenza romanzesca della scrittura di Shakespeare sarebbe rilevabile anche solo dall'evoluzione della figura del Matto nelle sue opere: la dinamica procede sempre dal doppio all'unità, nel senso che da un'unità scissa si procede verso un'unità ricreatasi a partire dall'esteriorità dell'altro. Sarà interessante, da questo punto di vista, analizzare l'evoluzione narrativa intrinseca alla "tetralogia" mettendo in parallelo il destino dei sovrani e posizione strategica del Fool, figura al contempo scandalosa e magistrale, caricaturale, grottesca ma profonda nella sua "terrena" superficialità. Nell'Enrico IV, infatti, sarà Sir John Falstaff ad aiutare il giovane e dissoluto principe, mettendo in scena un grottesco teatro che inverte la realtà in modo da rivelarne la vera essenza, facendo emergere la gerarchia misconosciuta, accompagnando scanzonatamente e, forse, involontariamente, il principe all'accettazione del proprio dovere.
Nel Riccardo II, al contrario, il Fool rappresenta puntualmente la scissione interna del sovrano, il suo essere due-in-uno, rispecchiando ovviamente non solo il duplice corpo della regalità, ma anche la visione edulcorata dell'ostacolo mimetico. Nel disperato tentativo di non farsi territorializzare da una rinnovata forza-di-legge che sovrasta gli ultimi resti del «fondamento mistico dell'autorità» (11), re Riccardo «recita ora entrambi i ruoli: giullare della sua regale persona e giullare della regalità»(12).
Se da una parte questo disgiungersi dalla morsa sacrificale che lo vorrebbe identico a se stesso gli permette di recitare fino in fondo, davanti alla sfrontatezza di Bolingbroke (che si inginocchia davanti a lui e che seguirà una strategia quanto più possibile legale e territorializzante per giustificare la propria violenta presa di potere di fronte al corpo nazionale smembrato), «la commedia della sua instabile e incerta regalità» («Fair cousin, you debase your princely knee, | to make the base earth proud with kissing it... | Up, cousin, up – your heart is up, i know, | thus high (touching his own head) at least, although you knee be low»(13)); dall'altra sa anche che le risate che accolgono le azioni di un Matto altro non sono che il volto sbiadito della violenza, in quanto sussiste la medesima polarizzazione persecutoria («I talk but idly, and you laugh at me»(14)).
Il sollievo transitorio del fingersi Matto, insomma, non fende il cerchio malinconico che è andato creandosi intorno alla sovranità; di più, nell'atmosfera sacramentale in cui viene consumata la cerimonia della frantumazione dell'immagine unitaria e trascendente del sovrano per diritto divino, giocare al Matto come tentativo di evasione dall'immagine regale finirà per deformare ancor di più Riccardo in un trickster catalizzatore, agevolando la transizione dell'intreccio verso il suo cuore martirologico e rendendo più fragoroso lo schianto a terra della regalità.
È a Westminster però che viene compiuto il passo decisivo per illuminare la caduta della sovranità di Riccardo in chiave martirologica. Il vescovo Carlisle tenta un'ultima volta di evocare l'immagine celeste della regalità ma, nelle sue parole, troviamo già in controluce il germe di una secolarizzazione che sradica la legittimità da qualsiasi localizzazione precisa, la rende utopica e strumento dei poteri indiretti: «What subject can give sentence on his king? | And who sits here that is not Richard's subject?... | And shall the figure of God's majesty, | his captain, steward, deputy-elect, | anointed, crowned, planted many years, | be judged by subject and inferior breath, | and he himself not present? O, forfend it, God, | That in a Christian climate souls refined | should show so heinous, black, obscene a deed!»(15). Con questo estremo tentativo di ridonare maestà al vicarius Dei viene predisposto un intero palinsesto di analogie cristologiche che sfocia in un finale tanto rivelativo e vertiginoso quanto confusivo e contraddittorio.
Mentre viene profetato che le violenze della guerra civile trasformeranno in un Golgota il suolo d'Inghilterra, Riccardo si rivolge così all'assemblea ostile: «Did they not sometimes cry “all hail” to me? | So Judas did to Christ: But He, in twelve, | Found truth in all, but one: I in twelve thousand, none»(16). Inizia così la spoliazione del corpo regale, un lungo e degradante rito di deregalizzazione, una cerimonia a rovescio nella quale l'ordine dell'incoronazione viene manifestamente invertito. Che il momento serbi un pericolosissimo potenziale contagioso, nel quale vengono ad indifferenziarsi violenza forza e legge, lo testimonia il fatto che l'officiante di questo fantasmagorico rito di passaggio sia il sovrano stesso; abitando la soglia tra sacer e sanctus Riccardo sconsacra se stesso, rinunciando al suo corpo politico e alla perpetuità dei simboli regali, denudandosi davanti ai fuori-Legge, dignitari di una legittimità che ha saputo sovvertire la regalità dal basso.
«Now mark me how I will undo myself: | I give this heavy weight from off my head, | and this unwieldly sceptre from my hand, | The pride of kingly sway from out my heart; | With mine own tears I wash away my balm, | With mine own breath release all duteous oaths: | all pomp and majesty do i foreswear...»(17).
Tuttavia Riccardo accoglie la Croce non in quanto simbolo di sovrana chenosi, passività devota e coraggiosa che di fronte al male non si ritira per fuggire bensì per scoprire un “altrimenti” del “politico”, un riposizionamento a partire da quell'altro che mi fa violenza in quanto dominato e invisibile. La Croce diventa per Riccardo una sorta di ultima astuzia, un’ultima trovata, un modo per ripiegarsi in se stesso e ritrovare una differenza in grado di donare maestà nella separazione dalla presenza altrui. La Croce, quindi, è per Riccardo il contrario della responsabilità infinita; assomiglia piuttosto ad un lascivo e sofferente abbandono, nella speranza remota che la violenza non offenda quel timidissimo barlume di sovranità, custodito gelosamente “in foro interno” ma ormai definitivamente immaginario.
Lo schermo illusorio, naturalmente, arriverà ad infrangersi nel faccia a faccia con il rivale mimetico: «All'improvviso Riccardo comprende infatti, mentre fronteggia il suo Pilato-Lancaster, di non assomigliare affatto a Cristo, ma di avere lui stesso, Riccardo, il proprio posto tra i Pilati e i Giuda, perché egli non è meno traditore degli altri, o è persino peggiore di costoro: egli è il traditore del suo stesso immortale corpo politico e della regalità»(18).
La Croce è sempre, in qualche modo, rivelazione, nella misura in cui le pareti dell'ego sovrano vengono sfondate da un apocalissi corrispondente al volto altrui, il quale, sempre intempestivamente, interpella il singolo a rispondere; e se anche la reazione di Riccardo non è quella del primogenito Karamazov, quantomeno, infrangendo l'imago sovrana quale protezione narcisistica, potrà egli comunque ritrovare maggior libertà nel dolore e nella prigionia. «Mine eyes are full of tears, i cannot see (…) | but they can see a sort of traitors here. | Nay, if i turn mine eyes upon myself, | I find myself a traitor with the rest: | for i have given here my soul's consent | t'undeck the pompous body of a king (...)»(19).
Alla fine del calvario, la rivelazione si dona tagliente, dolorosa e risolutiva. La scena dello specchio, momento apicale ed estremo del dramma martirologico, ha la virtù di sintetizzare con una sola potente immagine crollo della persona sovrana e crollo della trascendenza. La nudità del volto che appare nello specchio parla con una sincerità differente: la porpora regale, la celeste apparenza, altro non era che il frutto incantato del desiderio mimetico, il prodotto illusorio di quella polarizzazione che, nel reciproco sostenersi in tempo di pace, rende autarchica la soggettività sovrana.
Ma il gioco regge solo nella misura in cui vi è immediata sincronia nel meccanismo di riconoscimento; il vento della guerra civile traduce il dubbio di una legittimità sempre infondata, sempre rapita nel medesimo cerchio di riconoscimento e scandalo mimetico, un cerchio dapprima solo spettrale ma composto da archi che sottendono la dura presenza di un altro concreto, non eliminabile e non riconducibile a norma.
La dura realtà del “politico” deve essere assunta con tutto il realismo di cui il re è capace. Bolingbroke, proprio come Satana nel prologo del Libro di Giobbe, è l'irriducibile ostacolo che costringe la sovranità a denudarsi prima e a guardarsi poi; la guerra civile dice l'impossibilità di chiusura della sovranità su se stessa, costringendola a guardare in maniera totalmente diversa il corpo della nazione.
La violenza della guerra civile, il male politico più insensato ed eccessivo, custodisce quindi un insospettabile portato magistrale: la capacità di revocare la sovranità alla sua più intima e segreta responsabilità, mostrare il significato della Croce di fronte al mistero dell'Iniquità. O fuga o responsabilità, quindi: tertium non datur.
Per il povero malinconico Riccardo, però, il portato di tale rivelazione è come un oceano che trabocca dai suoi stessi argini: nella sconvolgente povertà del suo volto «si dissolvono sia la sua fallita regalità, sia la sua anonima umanità. (…) Il volto fisico che lo specchio riflette non è più tutt'uno con l'esperienza intima di Riccardo; la sua apparenza esteriore non è più rispondente all'uomo interiore» - «(...) was this the face | that every day under his household roof | did keep ten thousand men? | Was this the face | that, like the sun, did make beholders wink? | Was this the face, that faced so many follies, | and was at last outfaced by Bolingbroke?»(20) - « (…) Quando infine, alla “fragile gloria” del suo volto, Riccardo scaglia lo specchio al suolo, va in pezzi non solo il passato e il presente di Riccardo ma ogni sembianza di un supermondo. (…) Le fattezze riflesse dallo specchio rivelano che gli è strappata ogni possibilità di avere un secondo corpo, un supercorpo, il glorioso corpo politico del re»(21).
La pulsione suicidaria che frantuma lo “stadio dello specchio” della sovranità medievale (ormai pre-moderna) è un testamento profondo per una genealogia concettuale della sovranità intesa come questione metapolitica e metastorica: la legittimità della trascendenza non è più garantita o appropriabile in alcun modo, la sovranità non è concessa secondo diritto divino ma assunta attraverso una decisione epocale in grado di accogliere la presenza dell'altro anche nello scatenamento eccezionale della violenza e in grado fissare, quantomeno temporaneamente, il “politico” come relazione centrale dell'istituzione, evitando quindi qualsiasi tentazione millenarista come sigillo escatologico. Della corporation celeste resta solamente la carcassa abbandonata del corpo naturale su cui planano gli avvoltoi: «BOLINGBROKE Go, some of you, convey him to the Tower. | RICHARD O, good! Convey? Conveyors are you all, | that rise thus nimbly ny a true king's fall»(22).
La fragilità della trascendenza giuridico-politica è da sempre legata a doppio filo con spettri e congiure, frammenti del nesso indecidibile che stringe in un solo abbraccio violenza e Legge: accogliere sul proprio corpo questi segni osceni, leggerli per rimanere fedeli ad una trascendenza “altra”, il cui segreto si trova al di là dello specchio, è esattamente quella soglia che separa Riccardo da Giobbe. La pazienza di quest'ultimo di fronte all'apparato tecnico-sacrificale, infatti, al netto dei cedimenti e delle tentazioni, il suo incrollabile desiderio di comparire a processo con e di fronte a Dio, sono in grado tuttora di testimoniare una forma alternativa di critica alla forza della Legge e fare della sovranità una concreta allegoria dell'attesa messianica.
***
(1) «Riccardo: I tuoi rimproveri sono giusti. Superbo Bolingbroke, verrò a lotta con te per decidere la nostra sorte: questo accesso di paura è dissipato. Compito facile è conquistare quello che è nostro di diritto. Di' Scroop, dov'è nostro zio con le sue truppe? Parlami dolcemente, sebbene il tuo viso sia rabbuiato.
Scroop: (…) vostro zio York si è unito a Bolingbroke, tutti i vostri castelli del settentrione sono perduti, e tutti i gentiluomini del mezzogiorno sono passati in armi dalla sua parte.
Riccardo: Basta così. [ad Aumerle] Maledetto sia tu, cugino, che mi hai distolto dalla dolce via che conduce alla disperazione. Che hai da dirmi ora? Che conforto mi puoi dare? Per il cielo, d'ora innanzi odierò eternamente colui che mi parla di conforto» (Atto III scena II).
(2) Ernst Kantorowicz, I due corpi del re, Einaudi, 1989, Torino, p. 30.
(3) Ernst Kantorowicz, Op. cit., p. 30.
(4) Ernst Kantorowicz, Op. cit., p. 30.
(5) Cfr. René Girard, L’antica via degli empi, Adelphi, 1994, Milano.
(6) William Shakespeare, Riccardo II (III. ii. 155).
(7) Ernst Kantorowicz, Op. cit., p. 31.
(8) Ernst Kantorowicz, Op. cit., p. 31.
(9) William Shakespeare, Riccardo II (III. ⅲ. 73).
(10) William Shakespeare, Riccardo II (III. ⅲ. 147).
(11) Montaigne, Saggi, Adelphi, 2005, Milano. Cfr. in particolare Libro III, cap. XIII-Dell’esperienza, p. 1433.
(12) Ernst Kantorowicz, I due corpi del re, p. 34.
(13) William Shakespeare, Riccardo II (III. ⅲ. 190).
(14) William Shakespeare, Riccardo II (III. ⅲ. 171).
(15) William Shakespeare, Riccardo II (IV. i. 121).
(16) William Shakespeare, Riccardo II (IV. i. 169).
(17) William Shakespeare, Riccardo II (IV. i. 203).
(18) Ernst Kantorowicz, I due corpi del re, p. 39.
(19) William Shakespeare, Riccardo II (IV. i. 244).
(20) William Shakespeare, Riccardo II (IV. i. 281).
(21) Ernst Kantorowicz, I due corpi del re, p. 40.
(22) William Shakespeare, Riccardo II (IV. i. 316).
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