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Riccardo II, o del collasso della trascendenza | Sovranità, "politico", sedizione

Aggiornamento: 20 ago 2021



Lungo il biennio 19/20, come Gruppo Studi Girard, ci siamo occupati dell’analisi che il pensatore di Avignone ha dedicato al genio inglese nel testo intitolato Il teatro dell’invidia, per poi ampliare il raggio delle ricerche leggendo e interpretando una serie di testi shakespeariani rimasti esclusi dal percorso girardiano. Indubbiamente, fra i temi-figure più ricorrenti emersi durante le varie discussioni troviamo quello della sovranità: i molti re che costellano i cieli shakespeariani sono figure che, nella loro essenza narrativa, incarnano simbolicamente non solo una certa inquietudine esistenziale, un’autorità resa fragile da passioni e forze mimetiche spesso antitetiche, tese quindi contemporaneamente all’ordine e al disordine, ma veicolano anche precisi concetti giuridico-politici che trovano sede nella storia della filosofia politica. Che i drammi storici e le tragedie di Shakespeare siano una sorta di rilevatore delle scosse telluriche segnanti il definitivo passaggio alla Modernità, specie nella sua declinazione giuridico-politica, è osservazione dunque tanto semplice quanto condivisibile. L’obiettivo di questa serie di articoli è quello di avviare una modesta ricerca sul tema della sovranità in Shakespeare, facendo della psicologia e delle dinamiche drammaturgiche presenti nei testi occasioni per ragionare brevemente sulla natura sacrificale del “politico” (guardando quindi anche alla nascita dello Stato moderno), partendo da un orizzonte teoretico in cui il pensiero girardiano entra in risonanza con alcune tesi di Carl Schmitt.


All'origine della disgregazione dell'ordo medievale troviamo, quale tragica figura esemplare, quel re Riccardo magnificamente ritratto da Shakespeare e sezionato in alcune mirabili pagine da Ernst Kantorowicz ne I due corpi del re (1).

Riccardo II è il dramma storico che più di altri rivela la frantumazione dell'immagine del sovrano. Nell'immagine, proprio per la sua essenza virtuale, in cui presenza e assenza s'indifferenziano, vengono a saldarsi la «corporation» eterna e la spoglia mortale del sovrano: «il re è “nato gemello” non soltanto con la grandezza ma anche con la natura umana» (2). L'intuito poetico di Shakespeare ha contribuito ad abolire il monopolio che giuristi e glossatori detenevano intorno all'arcano della “geminazione” del sovrano, restituendo il tema nella forma eterna di un personaggio e di una vicenda che acquistano il prestigio di un archetipo intorno alla scaturigine del Moderno.

La parabola di re Riccardo, la sua personale deviazione lungo l'antica via degli empi, è una strada all'insegna dello “sdoppiamento”, un'alienazione che riflette quelle spinte mimetiche che da sempre tarlano il cuore dell'identità sovrana (in Shakespeare, poi, il tema è più di una semplice ricorrenza; è sufficiente ricordare in tal senso i personaggi del duca esiliato e di Federigo, tiranno e usurpatore del trono, nella commedia Come vi piace, ma anche la doppiezza mimetica di Leonte e Polissene nel dramma dialettico Il racconto d’inverno) e che, per estensione, arrivano a contagiare la nascente idea epocale di soggettività, di individuo -dell'autorità sovrana senz'altro metafora (3)-.


Per meglio evidenziare la spaccatura tra terra e cielo, tra immagine regale e potere terreno, Kantorowicz imposta la sua argomentazione evocando alcuni emblematici archetipi: «Gli sdoppiamenti, tutti compresenti e tutti allo stesso tempo attivi in Riccardo, sono quelli presenti in potenza nel Re, nel Matto, in Dio. (…) Questi tre prototipi di “doppia natura” si intersecano, si accavallano, interferiscono l'uno con l'altro continuamente» (4). Tale compresenza di varie figure, tale sintesi insostenibile e aberrante, unita poi ad alcune luminose frasi pronunciate dallo stesso Riccardo («Thus play i in one person many people» (5), proprio come Legione e l’indemoniato di Gerasa) spingono il pensiero necessariamente a Hobbes e all'immortale effigie impressa nel frontespizio barocco del Leviatano, sia per quanto riguarda la configurazione della moltitudine in popolo nell'immagine del sovrano, sia per lo strano processo alchemico sprigionato dall'evocazione leviatanica del Commonwealth (ricordiamo infatti che il Leviatano è contemporaneamente dio mortale, grande animale, grande uomo e macchina-automa, una sintesi mostruosa quindi) (6).

Nel momento del collasso dell’immagine sacra e trascendente del sovrano riconosciuto, il supercorpo della nazione (rispecchiando precisamente la psiche del re) viene squassato dalla violenta tempesta della guerra civile. La dinamica sediziosa, pressoché onnipresente nella drammaturgia di Shakespeare, funge da dispositivo-ponte per meglio illuminare le due polarità sacrificali che articolano ogni volta l’evolversi dei momenti della sovranità. Tutti meno uno e uno meno tutti traducono in diverse rappresentazioni lo stesso codice binario: moltitudine indifferenziata da una parte e vittima dall’altra la quale, in maniera perturbante, lega interno ed esterno (del cerchio vittimario) e che, venendo soppressa, inventa una trascendenza nell’immanenza. Meccanismo del capro espiatorio e intronizzazione sono due facce della stessa medaglia: la variazione da quantitativa diventa qualitativa nel sedimentarsi della riproduzione, prima rituale poi istituzionale. La lotta senza quartiere tra le fazioni che influiscono costitutivamente nella politica inglese adeguandosi ogni volta alle dinamiche dell’epoca (passando dal semplice scontro di potere tra clan nobiliari e corona ad uno sviluppo più complesso una volta entrati nella Modernità in mezzo al sangue rappreso delle guerre di religione) è precisamente quel momento di crisi che guasta la tenuta sacrificale della sovranità costituita, è il momento in cui la struttura binaria sovrano/moltitudine non compone più una forma ordinata; in particolare, la moltitudine non è più compatta, non è più nazione, ma anch’essa diventa quantomeno bicefala, spaccata, scatenando una furia mimetica che necessariamente arriverà a coinvolgere anche il versante già sacralizzato della sovranità: il nemico, quindi, non è più “solo” esterno, diventa interno, diventa nemico pubblico da bandire; la sedizione politica svela la fragile tensione che tiene in forma il “politico” come polarizzazione amico/nemico. Il passaggio dalla lotta tra fazioni all’incubo dello stato di natura hobbesiano, date le premesse storiche, è un esito necessario. Giorgio Agamben ne discute in maniera interessante in Stasis:«L'apparente contraddizione con il dettato del De Cive si risolve facilmente se si distingue, come fa Hobbes, fra la “moltitudine disunita” che precede il patto e la “moltitudine dissoluta” che lo segue. La costituzione del paradosso populus-rex è un processo che va da una moltitudine e torna a una moltitudine: ma la multitudo dissoluta, in cui il popolo si è dissolto, non può coincidere con la disunited multitude e pretendere di poter nominare un nuovo sovrano. Il circolo moltitudine disunita-popolo/re-moltitudine dissolta è spezzato in un punto e il tentativo di tornare allo stato iniziale coincide con la guerra civile» (7).

Ravvisiamo nei sovrani del drammaturgo inglese il punto limite di un’epoca, oltre il quale risulta impossibile immaginare la sovranità come semplice specchio terreno della trascendenza. Shakespeare, con uno sguardo retrospettivo, rileva nei suoi sovrani scricchiolii, fragilità e lacerazioni che potranno essere “superate” solo attraverso la drammatica rifondazione di una trascendenza esclusivamente giuridico-politica. In particolare il nesso che genealogicamente vede, in occasione del patto, l'origine biopolitica del potere statuale emergere con l'espulsione sacrificale della moltitudine di singolarità anomiche e ademiche nella massa compatta del popolo, un'operazione che va appunto a comporre il supercorpo comunitario a prezzo di quel legame nella divisione dato dalla guerra civile e di un'assoluta rinuncia alla propria singolarità, testimonianza vivente della differenza sempre fonte di potenziale scandalo. «Il concetto di “popolo” contiene, cioè, una scissione interna, che, dividendolo già sempre in popolo e moltitudine, demos e plethos, popolazione e popolo, popolo grasso e popolo minuto, impedisce che esso possa essere integralmente presente come un tutto. Così, dal punto di vista del diritto costituzionale, se, da una parte, il popolo deve essere già in sé definito da una consapevole omogeneità (…) e, quindi, sempre già presente a se stesso, dall'altra, in quanto unità politica, esso non può essere presente se non attraverso gli uomini che lo rappresentano. Anche se si ammette, come avviene almeno a partire dalla Rivoluzione francese, che il popolo sia il titolare del potere costituente, esso, in quanto titolare di questo potere, deve trovarsi necessariamente al di fuori di ogni normativa giuridico-costituzionale. (…) Il popolo è, cioè, l'assolutamente presente che, in quanto tale, non può mai essere presente e può, pertanto, solo essere rappresentato» (8).

Come se il primo tassello della Quadrilogia (seguito dalle due parti in cui è diviso Enrico IV e dall’Enrico V) fosse, di per sé, un frattale, non solo dell'intero ciclo, ma che, nel suo movimento dialettico fatto di estraneazioni e ricomprensioni, si facesse sineddoche dell'intero processo da cui origina la modernità politica: caduta nel disordine verso una nuova rappresentazione che, tuttavia, ha drammaticamente perduto il suo legame con una trascendenza riconosciuta e condivisa e che verrà sempre ricondotta una violenza ancora più intensa e pressante incistata com’è nella claustrofobica immanenza.


L'arco che descrive lo schianto al suolo della sovranità per diritto divino viene colto da Shakespeare in tutti i suoi momenti salienti: l'unità regale non sembra minacciata dalla scissione quando Riccardo, di ritorno vittorioso dall'Irlanda, si pronuncia in un'esaltazione dell'altezza della sua regale condizione. «Ciò che egli esprime non è altro che l'indelebile carattere del corpo politico del re, divino o angelico» (9), proprio perché «The breath of worldly man cannot depose | The deputy elected by the Lord» (10).

Ma sin dalla giovane età Riccardo, in realtà, ha sempre dovuto difendere la corporation sovrana dagli assalti di quelle forze sociali, di quei poteri indiretti, che rivendicano diritti scalcando brandelli di una regalità tanto divina quanto esposta: siano essi i contadini guidati da John Ball impegnati a sovvertire il diritto con il richiamo ad una legge “altra”, siano invece i Lord Appellanti coinvolti in più terrene logiche di potere. Perdono e repressione, salomonica saggezza e feroce intransigenza, non fanno altro che polarizzare ancora di più le tensioni mimetiche trasformando i segni della grazia divina in segni vittimari. Quando Enrico V, una volta che il processo di delegittimazione della regalità divina è compiuto, arriverà a confessare che «il re è esposto al fiato vano del primo stolto che passa», viene nuovamente celebrata l'eterna ripetizione del ciclo sacrificale della regalità giunto a compimento ed insieme ad una nuova origine.

Gli atteggiamenti orgogliosi di re Riccardo, così permeati di liturgia sacrale, il suo costante desiderio di vedere fuori di sé le prove dell'essenza divina della sua autorità unita alla radicale sottomissione anche dei sudditi più influenti e prestigiosi, rappresentano già la cifra di una intrinseca fragilità, di una sconnessione non più riparabile tra corpo e trascendenza, tra potestas e auctoritas. Al cuore della soggettività sovrana, nello spazio di decompressione che viene a crearsi tra corpo e trascendenza, finisce per penetrare lo sguardo, il discorso, il pressante desiderio di un'alterità a cui, tragicamente, ci si rivolge sempre più violentemente per ottenere riconoscimento.

Re Riccardo era quindi totalmente rapito dall'idea della regalità divina, tanto che la corporation eterna finisce per trasformarsi, riletta da un punto di vista lacaniano, in una trappola immaginaria, una fissazione narcisistica che agisce da una parte come cattura e sacrificio del soggetto sull'altare dell'ideale, dall'altra si traduce in un arroccarsi orgoglioso, in una difesa ad oltranza del proprio Nome regale, rinunciando però ad una lucida strategia nella gestione delle relazioni politiche (11). Riccardo è talmente sicuro della perpetua virtualità regale e della propria dignità da aspettarsi che perfino le schiere celesti formino un fronte disposto al suo comando: «For every man that Bolingbroke hath press'd..., | God for his Richard hath in heavenly pay | A glorious angel» (12).

Quando l'orgoglio, troppo umano, si appella alla trascendenza regale e ai suoi attributi quale simbolico sostegno e non quale sublime compito cui sottomettersi è ormai tardi: significa che la summa potestas è già diventata debole, franta, inquieta.

Tutto questo furioso scatenamento di passioni mimetiche, che porteranno al pasto totemico tanto del corpo mistico quanto del corpo naturale del sovrano, non può che originare dalla messa al bando dello scomodo doppio rivale: Enrico Bolingbroke. Legati da una scandalosa doppia mediazione, tra i due la sovranità diviene il simbolo di un prestigio eterno che acquista un valore proporzionale alla distanza a cui è costretto il rivale mimetico. Come spesso accade, lo stordimento narcisistico che illude con la sua luce fallace e che si nutre quanto meno della concretezza oggettuale tanto più del desiderio colto nello sguardo altrui, si trasforma in un autentico terrore di fronte a quell'altro che mi scandalizza con la sua sola presenza.

Comminare la pena dell'esilio all'acerrimo nemico significa però sottovalutare completamente la potenza perturbante del fantasma che può riemergere da un momento all'altro, significa immaginare di poter suturare le costitutive lacerazioni della propria persona semplicemente oscurando quell'alterità che mi costringe a ricordarle, gonfiando l'illusione di un superpotenziamento della Persona sovrana. Anche se Bolingbroke non viene effettivamente ucciso, il bando della sua persona concretizza l’ibrido spaziotemporale del non-morto: da questo territorio liminare è sempre possibile, in qualche modo, ritornare. Ecco allora che la soggettività già esposta e fragile di Riccardo non potrà far altro che scivolare in una “illuminata follia”, tanto più lucida sui meccanismi vittimari e sui destini della sovranità tutta, quanto più l’assenza del rivale si realizzerà in un fantasma ubiquo e minaccioso (13).



In Shakespeare il sovrano è sempre tormentato da fantasmi che disallineano il normale corso del tempo e delle azioni, gettando l'autorità regale nel dubbio, nell'indecisione, nel trauma, nella mancanza, nella follia. Il corpo sottile del fantasma dell'altro finirà infatti silenziosamente per infiltrarsi tra corpo naturale e corpo mistico della regalità, impedendone per sempre la saldatura. La genialità di Shakespeare mette a fuoco il momento sorgivo in cui la teurgica immagine sovrana è per sempre dilaniata: all'origine del Moderno eccezione («Sovrano è colui che decide sul caso d’eccezione» seguendo la Teologia politica di Schmitt) e rappresentazione sono definitivamente disgiunti ma, insieme, condannati ad una drammatica co-implicazione (questo è il tratto, il marchio di Caino, che Schmitt riconosce come impronta del Moderno: una sconnessione originaria che può essere risolta, ma mai definitivamente superata, solo da simboli complessi, ricchi di pieghe e misteri, quale ad esempio il Leviatano hobbesiano, che, secondo la lettura del giurista tedesco, non solo deve essere riconosciuto come paradigma del decisionismo -completando Bodin- ma anche come autentico compimento della Riforma (14)).

«L'universale che ha nome “Regalità” comincia a disintegrarsi; la sua “Realtà” trascendentale, la sua oggettiva verità e divina esistenza, (…) svaniscono in un niente, in un nomen» (15). L'istituzione stessa diviene così fantasmatica, mero flatus vocis, gioco di parole. Con sconvolgente acume genealogico, Shakespeare mostra che la “geminazione” tra corpo naturale e corpo mistico, quale dispositivo utile a perpetuare la monarchia per diritto divino, può essere sconvolta ed essere gettata nel caos informe della crisi ogni volta che la gemellarità si mostra nella sua essenza violenta: in fondo, ogni struttura è sempre risospinta verso quella tensione fra doppi mimetici (in chiave teologico-politica potremmo parlare della perenne tensione tra comunità e sovrano) tesa ad espellere, per almeno un esile frammento di storia, la propria violenza contro il terzo più fragile ed esposto, realizzando una trascendenza che sintetizzi corpo dell'escluso e aura salvifica della pace finalmente raggiunta.

Grazie alla profondità della scrittura di Shakespeare abbiamo un’ulteriore, potente, fulgida percezione del fatto che la scienza della sovranità sia dunque essenzialmente polemologia (o stasiologia (16) secondo l'interessante formula con cui Schmitt, interpretando Gregorio di Nazianzo, rilegge la relazione trinitaria ma anche, più in generale, ogni tensione verso un ordine unico che trattenga, proprio perché, come afferma il Nazianzeno in una sua orazione teologica «L'Uno è sempre in rivolta contro se stesso»). Per decostruire la sovranità come “testo” sacrificale occorrerebbe essere più ortodossi di Schmitt nel rimanere fedeli al “politico” come criterio formale della relazione amico/nemico, come prassi dello stare di fronte e del vedersi, senza la tentazione di ricondurre l'altro ad un discorso sostanziale, ontologico, universale, senza quindi sopprimere la differenza per costituire un’identità più forte (17).

Annebbiato tanto dai vapori balsamici della regalità divina quanto dal tanfo cadaverico del corpo naturale sempre più minacciato, emblematicamente, Riccardo somatizza la sovranità in quanto condizione sospesa sullo stato d'eccezione nella forma di una rinuncia all'essere-presente-a-se-stesso, un desiderio di oblio che conduce a reazioni riflesse, giocate da una mediazione interna tanto più furente quanto più il fantasma si ripresenta come inquietante non-morto, scandalo insuperabile: «I had forgot myself, am i not king? | Awake thou coward majesty! Thou sleepest, | Is not the king's name twenty thousand names? | Arm, arm, my name! A puny subject strikes | At thy great glory» (18). Con i sovrani di Shakespeare si ha sempre la sensazione che vi sia un’alterità indomabile al cuore dell’identità.





***

(1) Cfr. Ernst Kantorowicz, I due corpi del re – L'idea di regalità nella teologia politica medievale, Einaudi, 2012.

(2) Ernst Kantorowicz, Ibid., p. 24.

(3) Cfr. Carl Schmitt, L'epoca delle neutralizzazioni e delle spoliticizzazioni in Le categorie del “politico”; Schmitt, in un affascinante affresco del processo di secolarizzazione, rileva una co-implicazione essenziale tra quadro metafisico, forma dello Stato e manifestazione del soggetto.

(4) Ernst Kantorowicz, Ibid., p. 27.

(5) William Shakespeare, Riccardo II, V. v. 31.

(6) Cfr. in particolare il saggio dal titolo Lo Stato come meccanismo in Hobbes e in Cartesio, contenuto in Carl Schmitt, Scritti su Thomas Hobbes. L'acume analitico di Schmitt coglie contemporaneamente sia il destino di funzionalizzazione macchinica che coinvolge la decisione sovrana nel suo tradursi in rappresentazione sia il suo scaturire nella forma di una scintilla mitica a partire dalla sovrapposizione dei due patti -pactum unionis e pactum subiectionis- tradizionalmente separati (operazione che ricorda da vicino il processo di divinizzazione della vittima descritto più volte da Girard in molte sue opere): «Il terrore dello stato di natura fa riunire gli individui pieni di paura, la loro paura sale all'estremo, scocca una scintilla della “ratio” e improvvisamente davanti a noi si erge il nuovo Dio. Chi è questo Dio che arreca pace e sicurezza agli uomini tormentati dalla paura, che muta i lupi in cittadini e che attraverso questo miracolo si manifesta Dio, anche se soltanto “Dio mortale”» Carl Schmitt, Ibid., p. 48.

(7) Giorgio Agamben, Stasis. La guerra civile come paradigma politico (Homo sacer II, 2), Quodlibet, 2018, p. 282. In generale, in tutto il capitolo dedicato alla lettura del frontespizio del Leviatano, Agamben affronta temi estremamente consonanti con l'interesse di questa ricerca su Shakespeare.

(8) Cfr. Ibid., pp. 269-295.

(9) Ernst Kantorowicz, Ibid., p. 27.

(10) William Shakespeare, Riccardo II (III. ii. 54).

(11) Cfr. Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell'io e L'aggressività in psicoanalisi, entrambi contenuti in Jacques Lacan, Scritti (vol. I), Einaudi, 1976; filtrato chiaramente dalla disamina che Girard conduce intorno alla difficile posizione del mediatore nel suo tentativo di non perdere il prestigio acquisito ma insieme non veder inaridire il proprio desiderio, cfr. René Girard, Menzogna romantica e verità romanzesca.

(12) William Shakespeare, Riccardo II (III. ii. 60); cfr. René Girard, L'antica via degli empi, in particolare pp. 35-44.

(13) Sulla centralità del bando quale relazione-limite innestata al cuore della sovranità, del nomos come problematico intreccio tra potenza e diritto cfr. Giorgio Agamben, Homo sacer – Il potere sovrano e la nuda vita, in particolare, ed è interessante perché viene segnalata una continuità tra epoca medievale e origine della modernità intorno al nesso bando/lupo-stato di natura/sovrano, cfr. pp. 116-123. Sull'effetto perturbante del revenant, sulla costituzione fantasmatica di ogni sedicente chiusura autonomica del soggetto cfr. Jacques Derrida, Spettri di Marx, Raffaello Cortina editore, 1994.

(14) Nell'interpretazione che Schmitt offre del pensiero di Hobbes è ravvisabile quantomeno un doppio registro: nel primo viene valorizzato il momento della decisione quale centro ex-lege dell'ordinamento (anche se è già ravvisabile l'attenzione sugli elementi del rischio positivistico da una parte -coincidenza tra summa potestas e auctoritas- e l'elemento mitico incarnato dalla “persona mostruosa” della rappresentazione leviatanica (cfr. Carl Schmitt, La dittatura; Carl Schmitt, Teologia politica (in particolare capitolo 1 e 3) in Le categorie del “politico”); nel secondo viene valorizzata invece l'apertura alla trascendenza, la lotta contro i poteri indiretti e la centralità della religione nel sistema hobbesiano (cfr. Il compimento della Riforma. Osservazioni e cenni su alcune nuove interpretazioni del Leviatano ma anche Il cristallo di Hobbes, entrambi contenuti in Carl Schmitt, Scritti su Thomas Hobbes pp. 153-190). Infine, può essere interessante segnalare al lettore girardiano un fatto curioso: il riconoscimento di devozione magistrale che Schmitt è andato via via sviluppando verso il pensiero del filosofo inglese tende a sovrapporsi curiosamente con l'autopercezione di essere il capro espiatorio giuridico-politico delle rispettive epoche: per questo il Leviatano è diventato il simbolo politico precisamente di ciò che il testo intendeva scongiurare (l'assolutismo è infatti il contrario del totalitarismo); in tal senso, cfr. Trecento anni di Leviatano in Carl Schmitt, Scritti su Thomas Hobbes, pp. 145-151 e Carl Schmitt, Ex captivitate salus, Adelphi, 2005, pp. 57-80.

(15) Ernst Kantorowicz, I due corpi del re, p. 29.

(16) Ulteriore sfumatura iperpolitica di ciò che Lévinas chiama Altro-al-cuore-dello-Stesso, cfr. Carl Schmitt, Teologia politica II, in particolare p. 95; cfr. anche Jacques Derrida, Politiche dell'amicizia, in particolare il terzo capitolo dal titolo Dell'ostilità assoluta – La causa della filosofia e lo spettro del politico pp. 135-162.

(17) Anche Girard ha un'intuizione luminosa a riguardo quando gioca intorno alla differenza tra nemico interno/nemico esterno secondo uno schema che collega, implicitamente, “politico” schmittiano e sostanzializzazione sacrificale nel passaggio risolutivo delle Eumenidi di Eschilo; cfr. René Girard, L'antica via degli empi, in particolare il capitolo 20 intitolato «Il cruento riscatto per lo sviamento della città» pp. 180-188.

(18) William Shakespeare, Riccardo II (III. ii. 83).




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