Questo articolo è parte di un saggio ben più ampio in corso di scrittura che verrà progressivamente pubblicato sul blog. Gli obiettivi del saggio sono diversi: una critica all'interpretazione girardiana del pensiero di Clausewitz; proporre la filosofia politica di Carl Schmitt e le sue ricostruzioni genealogiche di alcuni concetti politico-militari come possibile alternativa; scegliere la soglia in cui le teorie di Girard e Schmitt si avvicinano per distinguersi con più forza, mantenendo come base di lavoro Clausewitz, come snodo da cui divergere con prospettive ermeneutiche differenti.
2- La seconda problematica convinzione intorno alla quale si impernia il discorso presente in Portando Clausewitz all’estremo è ciò che Girard definisce la fine del diritto. Tale tesi, legata con doppio nodo all’impossibilità di riconoscere l’altro e il principio di relazione in fondo alla reciprocità mimetica del duello (nella misura in cui, come vedremo, venendo meno il diritto decade anche una delle condizioni di accesso al riconoscimento dell’altro uomo, nemico o amico che sia), è propriamente definibile quale condizione di possibilità dello scatenamento estremo della violenza. È affrontando tale abissale argomento che il pensiero di Girard incontra, seppur superficialmente e in maniera cursoria, il pensiero di Carl Schmitt. Poiché il presente saggio, nei capitoli successivi, proverà a criticare le posizioni espresse da Girard commentando lungamente due opere di Schmitt che, tra i vari temi, affrontano anche quello della problematicità di una riaffermazione del diritto internazionale e di un diritto di guerra in grado di assorbire quelle trasformazioni epocali che rischiano di liquidare o forse hanno definitivamente liquidato ogni principio differenziale che ancora informava la modernità (nemico/criminale; legale/legittimo; terra/mare), in sede introduttiva ci limiteremo ad illustrare sinteticamente le varie giunture che articolano il discorso girardiano contrapponendovi un sommario inquadramento di alcune posizioni di Schmitt a margine della Teoria del partigiano.
In linea generalissima possiamo dire che, dal punto di vista girardiano, il tema della fine del diritto è inscritto nell’opera di smascheramento del sacro attuata dalla rivelazione di Cristo. La luce posta sulla verità della vittima denuda il fondamento di tutte le istituzioni vitali per la cultura umana. Ne La Violenza e il sacro solamente la violenza espulsiva ai danni del capro espiatorio era in grado di donare alla comunità febbricitante per la crisi mimetica lo spiraglio salvifico di una trascendenza sociale sufficientemente stabile da porre fine al ciclo di vendette e rappresaglie. Tale risoluzione salvifica, a tutta prima insperata e accolta come un miracolo, nel suo ciclico accadere si ritualizza e si cristallizza; il lungo processo che dalla ritualità e dall’oralità conduce all’istituzione di figure terziali (le quali traducono la traccia della trascendenza sociale raggiunta come risoluzione della crisi) e alla stabilizzazione scritta dei codici, si fonda dunque sul mascheramento della violenza originaria contro la vittima assolutamente innocente: la trascendenza giuridico-sociale si innesta sull’oblio del pharmakon definitivo, è una violenza che elimina la violenza.
Cristo, nella sua opera di demistificazione, denuda Potestà e Principati palesandone l’incapacità di immunizzare definitivamente gli uomini dalla loro stessa violenza. Il mondo che vive una sempre più profonda scissione tra rito, istituzione e mito originario è testimone di una strana legge che funziona con proporzionalità inversa: quanto più il mito tende ad universalizzarsi (poiché dimentico della concretezza della vittima), tanto più la società fondata su quel mito si farà portatrice di una violenza illimitata, universale, eccezionale. L’epoca rivoluzionaria, poi totalitaria, infine tecnico-globalizzata hanno progressivamente raggiunto nuovi livelli di intensificazione della violenza discriminatoria secondo una nefasta sostanzializzazione del concetto di “politico”, ossia la polarizzazione tra amico e nemico come fulcro dell’esistenza non più statuale (come nella modernità) bensì civile, quasi fosse una riproposizione sclerotizzata del sacro.
Insomma, il processo di secolarizzazione che per Schmitt rappresenta il filo rosso della modernità (traduzione dei concetti teologici in categorie giuridiche e quindi persistenza della trascendenza in luogo della forma rappresentativa verso cui è destinata la decisione concreta sull’eccezione, disordine originario da cui emerge, informandolo, l’ordinamento) inizia con il lavoro di desacralizzazione delle forze mondane scaturito dalla potenza della rivelazione cristiana, responsabile dello spiegamento rettilineo della Storia, cesura del sacro eternoritornante.
Delineato il solco entro il quale è inscritto il doppio volto del Moderno (da una parte tensione verso la forma rappresentativa, verso la persona giuridica che tragicamente incarna la sovranità rimanendo sconnessa da qualsivoglia garanzia trascendente, dall’altra sguardo costante verso l’abisso dell’eccezione, assunzione del dis-ordine originario come elemento costitutivo dell’esistenza politica), per cui la prestazione massima della sovranità dello Stato viene a coincidere con una esternalizzazione della violenza indifferenziata che domina e modella ogni rapporto sociale e istituzionale interno alla comunità, è opportuno tentare di rispondere con Schmitt e Clausewitz, marcando questa volta una decisiva differenza, alla seconda bordata di Girard.
Per Girard l’apocalisse racchiusa nel pensiero di Clausewitz obbliga a ripensare completamente il nesso costitutivo tra politica e guerra: è la politica che insegue disperatamente la guerra, mentre quest’ultima, intesa come rilancio infinito del principio di reciprocità, definisce la sostanza della prima. Il tentativo di normare e delimitare il potenziale distruttivo dei conflitti virtualmente possibili sarebbe pura lotta di retroguardia, l’abbaglio di un razionalismo che conduce alla cecità.
Nel pensare il rapporto guerra-politica come figura del “rischio” che intimamente pertiene all’agire, e che non può essere né eliminato né del tutto confinato all’esterno della mediazione razionale, ossia dalla forma rappresentativa che costituisce la sovranità dello Stato, in Schmitt è riconoscibile un percorso che da Hobbes (quale origine mitica, barocca e increspata del Moderno) conduce all’intuizione della postmodernità guerriera in Clausewitz, passando ovviamente per Hegel. Se pensiamo alla presenza di Clausewitz in uno dei capolavori più letti e conosciuti di Schmitt, Il concetto di “politico” (1), capiamo la sua urgenza di misurarsi con il teorico della guerra prussiano per provare a pensare in termini ancora politici lo sfondamento operato dalla guerra rivoluzionaria rispetto alla tradizione moderna che aveva preteso di escludere la guerra dall’interno della forma statale e di renderla solo uno strumento dell’interazione esterna, puramente militare e formalizzata, fra Stati.
«Il grande lascito del pensiero di Clausewitz consiste precisamente nel fatto che la guerra non è un fatto essenzialmente militare, che la sua essenza assoluta e le sue manifestazioni reali non stanno fra loro come la sostanza sta all’accidente – dove sostanza sarebbe il parossismo della “ascesa agli estremi”, e accidenti sarebbero gli “attriti” della politica e della storia –, ma che anzi l’essenza della guerra si rivela alla fine di un processo storico che assume una particolare direzione solo con la moderna statualizzazione e razionalizzazione della guerra e con il loro superamento dovuto all’irruzione sulla scena europea del “popolo in armi” di epoca rivoluzionaria» (2) e alla sua declinazione imperialistico-continentale con Napoleone. La guerra si approssima alla sua forma assoluta, alla sua essenza originaria, proprio nella misura in cui l’energia mitica sprigionata dalla politica trova la sua assolutizzazione in un universalismo che tanto più mobilita integralmente la popolazione dando forma ad una totalità concreta, quanto più smarrisce i limiti costitutivi imposti dal “politico” come principio di relazione, per cui ogni altra soggettività sovrana comincia ad offuscarsi e tuttalpiù deve tramutarsi in mera protesi, funzione od ostacolo. È proprio con questa intuizione della profonda capacità costitutiva della politica che Clausewitz può sostenere in maniera icastica che «la politica ha generato la guerra» e che quest’ultima è una «lingua che ha la propria grammatica, ma non una logica propria» (3).
Questa guerra assoluta in senso storico-politico, nel segno della mobilitazione totale e della furia universalistica da cui è animata, è senza dubbio della più alta intensità militare, ma è il contrario della guerra assoluta meccanica, «algebrica», irreale del libro I del Vom Kriege, mera ipotesi logica, astrazione estremistica della guerra/duello, cioè di una delle forme storiche del nesso guerra/politica che pertiene ancora allo Stato sovrano. La guerra reale non è l’assolutismo dell’atto militare che fa della guerra semplicemente un urto che sale agli estremi; piuttosto è la sovraordinazione dello scopo politico che impone una misura all’obiettivo militare e questo accade nonostante l’estroflettersi della violenza possa modificare significativamente lo scopo politico, senza mai però subordinarlo sterilmente. Quando Clausewitz afferma che la guerra «non è (…) solamente un atto politico, ma un vero strumento della politica, un seguito del procedimento politico, una sua continuazione con altri mezzi» (4) «non implica necessariamente una rassicurante subordinazione gerarchica della guerra alla politica» (5): tale abusata proposizione poggia ancora più vigorosamente l’intera responsabilità sulle capacità della politica di trovare una misura al/nel conflitto, nell’evitare la violenza indiscriminata, nel mantenersi saldi al “politico” e quindi riconoscersi come soggetti, certo sovrani, ma privi di una effettiva consistenza ontologica da rivendicare, radice infetta di ogni universalismo imperialista (non importa se fondato sul mito della nazione o, al contrario, della rivoluzione; ogni rivendicazione assoluta di legittimità nega il “politico” come gioco della polarità relazionale).
La strumentalità della guerra espressa dalla teoria di Clausewitz significa quindi “non-indipendenza” della guerra, essa non può e non deve essere pensata come un oggetto autonomo: la guerra in sé, sostiene Clausewitz nell’impetuoso scorrere della sua opera, non esiste. Ossia, non può mai essere elusa la decisione politica; solo il decidere produce una razionalità dei mezzi che non solo deriva da una figurazione concreta dei fini ma che scaturisce dall’infinito peso della responsabilità; liquidare e funzionalizzare il peso della decisione (si pensi a tutta la retorica accelerazionista intorno all’evoluzione scriteriata delle tecnologie militari e degli armamenti nucleari) significa emendare in un colpo solo la co-essenzialità di “politico” e responsabilità, registrare l’eccezione e l’impossibile a mera burocrazia, a dato già inscritto nella realtà, eliminando quindi ogni prospettiva temporale, riflessiva, narrativa in cambio dell’istantaneità, sintomo definitivo della tensione e dell’attrazione verso l’unità assoluta dove identità perfettamente solubili nel ventre mistico dell’Essere traducono l’incapacità di resistere alla tensione polare del “politico”, del dif-ferirsi della differenza, del protrarsi delle differenze come sintomo dell’esistere di sovranità che si definiscono e si riconoscono a partire dall’altro.
Attraverso il pensiero di Clausewitz, Schmitt riconosce l’urgenza ineludibile di ripensare una soggettività politica all’altezza delle drammatiche decisioni da prendere, una politica in grado di affrontare la guerra che cresce dentro di sé. «Infatti, se la guerra è un atto politico, se è politico non solo il passaggio dalla politica alla violenza ma anche lo svolgersi della violenza in ogni sua fase, allora la politica contiene in sé la guerra, ne è attraversata come da una possibilità che le pertiene essenzialmente» (6). Assumere dentro di sé la guerra non come corpo estraneo bensì come costitutivo volto oscuro significa, all’interno della prospettiva schmittiana, saldare il tema della sovranità come punto d’incontro tra anomia dell’eccezione e forma rappresentativa dotata di autorità ed insieme il tema del “politico” come concetto strutturante sia la dinamica interna dell’esercizio del potere sia la dinamica proiettata verso l’esterno: polemos e decisione, abisso aperto dal dis-ordine e tensione verso l’espressione di una potestas dotata di auctoritas, verso l’incarnazione di una trascendenza che sempre si sottrae, sanciscono il vero circolo ermeneutico che lega Teologia politica a Il concetto di “politico”.
Girard riconosce i meriti diagnostici del pensiero di Schmitt, in particolare l’intuizione degli esiti nefasti dell’uso sempre più discriminatorio e morale del concetto di nemico che avrebbe inevitabilmente ripristinato la justa causa nei conflitti militari; il che, correlato alla neutralizzazione passiva e al processo di sradicamento operato dalla tecnica ai danni dell’elemento politico, inevitabilmente avrebbe portato a massacri sempre più definitivi in nome della pace o della difesa di quei valori che vengono presentati come desiderabili in quanto “neutrali” ma che, in realtà, traggono prestigio dalla loro ineluttabile forza simbolica e coattiva, quindi maschera ideologica di un processo spirituale e imperialistico in atto. Effettivamente, quando si va a leggere lo Schmitt polemista dei saggi contenuti in Posizioni e concetti: in lotta contro Weimar-Ginevra-Versailles 1923-1939 (7), testi brevi e intensi scritti appunto tra gli anni Venti e Trenta, animati da una vis critica pungente e senz’altro parziale, riconosciamo in essi intuizioni profetiche esaminate però con sguardo lucido e prosa affilata, riflesso del suo ruolo di giurista più che filosofo politico.
Tuttavia Girard riconosce in quello che definisce «volontarismo giuridico» un limite teorico del giurista tedesco; ai fini del suo discorso è sufficiente infatti attribuire a Schmitt intuizioni che non vedono fino in fondo il segreto apocalittico del principio di reciprocità, che certamente presagiscono il potenziale catastrofico dell’inimicizia assoluta ma che ad essa tentano di rispondere con strumenti totalmente inadeguati. Ma tale supposto volontarismo giuridico, specie se immaginato come una forma esasperata di legalismo positivistico e quindi come una sorta di svuotamento nichilistico di sovranità e ordinamento a favore della “sovranità della legge”, è lontanissimo dalle intenzioni e dalla sensibilità di Schmitt, anche attraversando le molteplici e contraddittorie fasi del suo pensiero. Per far capire al lettore quale sia effettivamente la forma del razionalismo cui tende performativamente l’opera del controverso giurista mi sembra utile riportare sinteticamente alcuni concetti presenti nel suo capolavoro degli anni Cinquanta Il nomos della terra (8).
La forza ermeneutica della categoria di nomos trova consistenza nel suo non-essere semplicemente legge astratta e positiva (lo spazio liscio del legalismo liberale), ma portatrice di una legittimità che coincide con la consapevolezza dell’origine, ovvero con una violenza non indiscriminata né indeterminata, de-cisione situata che cinge un territorio e localizza un ordinamento, rendendolo concreto precisamente nella misura in cui non è mai dimentico della co-implicazione e insieme della sconnessione originaria tra forma ed eccezione, tra universale e particolare. Il nomos presenta quindi una struttura complementare ad uno spazio, uno spazio da intendersi concretamente e che, concretamente, dà vita ad una certa immagine del mondo. Se, infatti, lo Schmitt degli anni Venti rifletteva sulla sovranità primariamente in relazione alla modernità (secondo un’urgenza temporale di secolarizzazione), lo Schmitt degli anni Cinquanta reinterpreta spazialmente la storia della sovranità statale: quello che era il tempo concreto dell’eccezione che obbligava alla decisione epocale per risolvere la crisi d’indifferenziazione aperta dalle guerre di religione evocando il Leviatano come ordine artificiale, macchina assoluta in grado di risolvere e neutralizzare l’endemia delle guerre civili, tale soggetto sovrano trova inoltre una rinnovata concretezza nel riconoscere la propria origine anche dalla catastrofe dell’ordine spaziale premoderno e quindi dell’irruzione sulla scena storica di uno spazio vuoto privo di senso intrinseco: lo spazio nuovo del mare e dei continenti extraeuropei, prima di tutti l’America.
Questo nuovo spazio deve essere appropriato e diviso; l’ordine europeo degli Stati, lo jus publicum europaeum, è appunto la risposta a questa sfida epocale: l’apertura di orizzonti prima inesistenti costringe alla reinterpretazione, alla ri-definizione e quindi al ri-ordinamento dello spazio europeo. Anche per ciò che concerne la dimensione del diritto internazionale moderno (siamo infatti nell’epoca di Alberico Gentili e Grozio), Schmitt vede in atto lo stesso meccanismo che ha portato alla creazione dello Stato come soggetto politico sovrano. «Apparentemente, il nuovo ordine moderno prende forma fronteggiando questo disordine con il confinarlo fuori di sé, negli spazi extraeuropei e nel mare, con le nuove linee d’amicizia [prima le raya poi le amity lines]. Ma come lo Stato moderno (…) non espunge davvero da sé il “politico”, ma ne è anzi attraversato e ne è reso “concreto”, così l’ordine internazionale moderno è in realtà costituito da quel disordine che confina fuori di sé» (9). In qualche modo possiamo dire che la prestazione teorica del pensatore nato a Plettenberg consista nel constringerci a pensare la tenuta di ogni ordinamento e di ogni assetto istituzionale o territoriale, quale correlato di un rimosso corrispondente ad un dis-ordine da cui occorre separarsi e che deve essere confinato: nel caso della creazione dello Jus publicum europaeum, nell’indefinitezza del mare (simbolo luminoso di tutto ciò che non è lo Stato nella sua consistenza terrena, spazio liscio, infinitamente attraversabile, costretto all’anomia e allo sconfinamento, così come alla liquidazione di ogni limite, origine elementare di tutti quei valori liquidi esportabili appunto in forma talassocratica e imperialistica) ed insieme nella vastità di territori vergini, nudi come le popolazioni che li abitano, verso cui è possibile far confluire il serbatoio di violenza che il sistema del diritto internazionale nascente è riuscito in qualche modo a normare.
L’ineludibile presenza della violenza, l’infondatezza verso cui il “politico” spalanca ogni sistema, l’epocale assunzione di responsabilità verso cui converge la decisione sul “come” interpretare la tensione polare tra amico e nemico (si potrebbe dire anche sul “dove” sfogare una violenza che rischia di farci crollare nell’indifferenziazione), sono tutti elementi che rendono sofferente e tragico il pensiero di Schmitt e il suo, in alcune occasioni totalmente fallimentare, obbligarsi a riflettere costantemente sulla forma in grado di neutralizzare la crisi e armonizzare la stasis, al fine di trattenere e prevenire lo scoramento e il dolore degli eventi “penultimi” che precedono l’Eschaton: è il motivo per cui il suo pensiero è essenzialmente cristiano e per cui, in controluce, è possibile intravvedere in lui degli spiragli quasi messianici.
Illuminato quindi il fondo oscuro da cui scaturisce e si differenzia portandone comunque in sé l’impronta, possiamo dunque dire che la concretezza dello jus publicum europaeum è propriamente il carattere situato, orientato, della sua forma, della sua razionalità: tale concretezza si manifesta nel rapporto tra politica e guerra. Secondo Schmitt, infatti, la grande prestazione storica della modernità è la limitazione della guerra che riesce a trasformare il bellum justum delle guerre civili di religione (ma anche della guerra civile che sovverte il governo legale quando riconosciuto illegittimo o quando sostiene un sovrano riconosciuto legittimo contro un governo che ha sconfinato nell’illegale) in guerra tra Stati sovrani, hostes aequaliter justi: in questo trionfo dell’artigianato statale moderno viene realizzato un contenimento del tutto inedito dell’ostilità, attraverso un calibrare ben preciso di alcune distinzioni strategiche essenziali, per esempio quella fra nemico esterno e criminale (interno), oppure fra militari e civili.
È fondamentale comprendere che la delimitazione della violenza ricostruita ne Il nomos della terra non dipende da ideologie razionalistiche o progressi “illuministici” dell’umanità. Nasce al contrario dal concreto schema geografico, storico e politico che oppone l’equilibrio della terraferma alla libertà dei mari (una storia, quella della libertà dei mari, che Schmitt opportunamente ricostruisce a partire dal bando e alla definizione del pirata quale nemico del genere umano imposto dalla corona inglese; la libertà della navigazione e dei traffici, una libertà a tutti gli effetti normata, di nuovo, si fonda sul rimosso di un’esistenza piratesca fuorilegge che viene forzatamente esclusa dall’ambito legale, per giunta fatta surrettiziamente rientrare per opportunismo nello schema della guerra corsara). Lo Jus publicum europaeum è dunque l’esito della trasformazione della guerra da bellum justum (un guerra fra nemici che si giudicano e definiscono diseguali, e da un punto di vista giuridico e da un punto di vista morale, ciascuno dei quali discrimina l’altro poiché reputa di essere nel giusto, nella posizione quindi di condurre una crociata in nome dell’umanità) in guerra fra hostes auequaliter justi, separata da ogni nozione di justa causa. «Il diritto entra in rapporto con la guerra solo in ordine alla determinazione dello jus ad bellum– cioè solo per capire se il nemico è uno Stato sovrano, e quindi uno justis hostis e non un privato – e dello jus in bello, cioè per stabilire attraverso il libero consenso degli Stati sovrani le regole di limitazione della guerra (essenzialmente, la distinzione fra militari e civili, e il trattamento dei prigionieri)» (10).
Ovviamente, nonostante dal testo traspaia un afflato nostalgico, Schmitt non è così ingenuo da pensare la Storia secondo un’ottica puramente conservatrice, nel senso della speranza di un impossibile ritorno ad una forma di razionalismo che era appunto situato in maniera precisa e irripetibile. Ma il suo sguardo genealogico intorno alla fondazione del Moderno, aiuta a comprendere ed insieme aiuta ad immaginare le nuove urgenti risposte epocali che si impongono a partire dalle infinite e mutevoli trasformazioni che i più disparati fattori (politici, tecnologici, spirituali) impongono all’umano. Tutte le istanze di deterritorializzazione con cui la Tecnica destruttura i passati codici e abbatte i precedenti confini fissati, conduce obbligatoriamente all’imperativo di dover frenare il nichilismo implicito nella trasfigurazione dei valori calibrata nell’orizzonte precedente: l’insorgere di nuove forme comporta il tramonto delle regole che trattenevano la violenza e, con la fine della modernità, è chiaro che ogni concetto cerca di realizzare disperatamente la sua totalità. Una totalità che tuttavia non è “concreta”, nel senso schmittiano del termine, la cui natura, al contrario, consiste proprio proprio nello sconfinamento, nel ritorno dell’illimitato verso l’illimitato, della negazione quindi del “politico” o meglio della sostanzializzazione del “politico”, che, per ciò che concerne la guerra, traduce l’equazione nemico totale=guerra totale.
In Schmitt troviamo la ricostruzione storico-genealogica della deriva mimetica che divampa nel campo della filosofia della guerra e vede sui fronti opposti gli imperi continentali con il loro disperato tentativo di ritrovare una radice identitaria nell’espulsione concreta dell’altro e dall’altra parte i poteri atlantisti che operano un’espulsione preventiva e astratta di qualsiasi altro soggetto sovrano non allineato a quei supremi valori che, soli, illuminano di vera luce l’umanità.
Quale può essere la frontiera estrema di tale invasione deterritorializzante del valore (laddove con gli spazi definiti crollano correlativamente anche le soggettività che li abitano)? Dato il pacifismo come neutra dottrina morale, ogni guerra diventerà allora o l’atto criminale di uno “Stato canaglia” oppure la guerra punitiva salvifica in nome della stessa pace, che significa però il terrificante ritorno della justa causa. Un’opera di ingegneria valoriale, di creazione simulacrale dell’identico dovrà anticipare la guerra come possibilità: la guerra non è più concepibile come una modalità, certo brutale, di relazione; ciò che va riformato e corretto nel suo germoglio è l’esistenza di una differenza che può portare scandalo e rivelazione. Risulta chiaro allora come la prospettiva adottata da Schmitt proceda a partire dal riconoscimento della guerra come realtà inemendabile, co-essenziale alla natura stessa dell’essere umano; il meglio che possiamo fare è tentare di cogliere e realizzare, autentica sfida epocale, la forma in grado di contenerla: l’orizzonte escatologico che chiaramente si staglia dietro il pensiero di Schmitt è la misteriosa figura del Katechon.
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(1) Cfr. Il concetto di "politico" contenuto in Carl Schmitt, Le categorie del "politico", Il Mulino, Bologna, 1972.
(2) Cfr. Carlo Galli, Genealogia della politica - Carl Schmitt e la crisi del pensiero politico moderno, Il Mulino, Bologna, 2010, p. 774.
(3) Cfr. Karl Von Clausewitz, Della guerra, Mondadori, Milano, 1970, p. 811; ma anche nel Libro I, Cap. 1, Clausewitz sostiene che la guerra è sempre un atto politico e mai un'attività a sé stante, cfr. Ibid. p. 24.
(4) Cfr. Ibid., p. 38.
(5) Cfr. Carlo Galli, Genealogia della politica, p. 775.
(6) Cfr. Ibid., p. 776.
(7) Cfr. Carl Schmitt, Posizioni e concetti - In lotta contro Weimar, Ginevra, Versailles 1923-1939, Giuffré Editore, Milano, 2007.
(8) Cfr. Carl Schmitt, Il nomos della terra nel diritto internazionale dello "Jus publicum europaeum", Adelphi, Milano, 1991.
(9) Cfr. Carlo Galli, Genealogia della politica, p. 884.
(10) Cfr. Carlo Galli, Ibid., p. 885.
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