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Verso un'altra teoria del partigiano | Terza introduzione: Schmitt e il Katéchon

Aggiornamento: 28 mar 2022


Questo articolo è parte di un saggio ben più ampio in corso di scrittura che verrà progressivamente pubblicato sul blog. Gli obiettivi del saggio sono diversi: una critica all'interpretazione girardiana del pensiero di Clausewitz; proporre la filosofia politica di Carl Schmitt e le sue ricostruzioni genealogiche di alcuni concetti politico-militari come possibile alternativa; scegliere la soglia in cui le teorie di Girard e Schmitt si avvicinano per distinguersi con più forza, mantenendo come base di lavoro Clausewitz, come snodo da cui divergere con prospettive ermeneutiche differenti.





Come abbiamo visto, secondo Girard lo svelamento della reciprocità mimetica unito al collasso di tutte le forme giuridico-politiche in grado di trattenere l’anomia sarà propriamente la forma dell’avvento anticristico che ci condurrà dritti davanti al Giudizio finale; quella nube indifferenziata di violenza risolta dal meccanismo sacrificale all’origine della cultura umana coincide con l’estasi sacrificale dei momenti ultimi: dalla lettura dell’ultimo Girard sembra quasi affiorare una certa fretta e curiosità, un intimo desiderio di vedere realizzato l’orizzonte provvidenziale della salvezza che asseconda precisamente l’elemento sublime, estatico, del sacrificio. E se dal punto di vista filosofico tale operazione intellettuale è preda dello stesso idealismo che vorrebbe criticare, dal punto di vista escatologico-messianico si palesa quale vertiginosa imitazione della tentazione diabolica. Non c’è modo di frenare il decorso degli eventi; la conversione rappresenta l’unica e ultima presa di coscienza.

La prospettiva di Schmitt è diametralmente opposta: contro il tacito accelerazionismo del pensiero di Girard, il giurista tedesco promuove il drammatico sforzo di ricercare e realizzare quelle forme storico-epocali in grado di ritardare il verificarsi degli eventi penultimi, i più dolorosi e convulsi, i più anomici e incerti; ritardare per concedere nuovo tempo nella consapevolezza che tra Storia e Regno vi è discontinuità profonda e incommensurabile: l’apertura che si dona nell’attesa (autentico resto e dispiegamento narrativo del tempo donato dagli agenti che trattengono l’iniquità e l’anomia) deve essere segnata, e ogni volta sempre più rischiosamente (nella misura in cui viene sancita, per chi sa coglierla, una distanza sempre più infinita), dalla separazione di un mondo come pura immanenza e il Regno come piena trascendenza. Il pensiero di Schmitt è, sin dalle sue prime opere, silenziosamente costruito intorno ad una escatologia katechontica. In questa sede non sarà possibile restituire un’analisi completa sul tema ma è indubbiamente cruciale fissare alcuni punti fermi dentro una materia così complessa e misteriosa per far emergere al contempo la differenza essenziale rispetto al pensiero apocalittico di Girard ed insieme cogliere il riflesso su una possibile filosofia della guerra.

Essendo il Katéchon l’immagine di una forza operante per trattenere l’avvento dell’Anticristo, sembrerebbe naturale, partendo da questa differenza antinomica, riconoscere la possibilità di individuare nell’Anticristo dei caratteri morali speculari ed opposti a quelli del Katéchon – specie se tali “caratteri” venissero identificati e agiti da forze storiche e politiche che incarnano oggettivamente questi valori – così che, in ogni conflitto militare-politico, si possa sostenere con certezza chi tra i contendenti sostenga la parte dell’uno e dell’altro. Tale proiezione dell’ordine teologico nell’orizzontalità immanente del mondo significherebbe tuttavia il riaffermarsi rovinoso di una teologizzazione del rapporto amico-nemico, ossia la copia ribaltata del concetto schmittiano di “politico”. La missione teoretica schmittiana, unita alla sua prestazione ermeneutica e genealogica, è invece precisamente quella di de-teologizzare i conflitti, de-sostanzializzando il “politico” da ogni contenuto ontologico, mostrandolo esclusivamente quale principio relazionale.


Fissiamo dunque i presupposti teoretici che donano spessore e profondità all’essenza katechontica del pensiero di Schmitt:

1- I concreti rapporti politici non sono per Schmitt il risultato di diverse posizioni ideologiche dei soggetti in relazione tra loro; il “politico” è un principio che attiene alle concrete dinamiche esistenziali, per cui vi è la reciproca percezione di un’ostilità latente o manifesta. Detto altrimenti, nell’ottica del crudo realismo schmittiano (di chiara derivazione hobbesiana e agostiniana) il “politico” è un concetto consustanziale all’esistenza; nel semplice esistere mi riconosco politicamente polarizzato contro una differenza ed è questo dato esistenziale e strutturale che innesca tutti gli aspetti sovrastrutturali (ideologici, filosofici, religiosi, politici, economici). Derrida, in Politiche dell’amicizia, decostruisce tale principio formale parlando di una precedenza fantasmatica del nemico rispetto all’amico che condizionerebbe sin dal suo albeggiare il differirsi della differenza e l'orizzonte delle possibilità. In parte concordo con il percorso segnato da Derrida che comunque riconosce l’importanza imprescindibile di Schmitt: un passo necessario nella strada verso un pensiero della differenza. Personalmente credo sia necessario essere addirittura più schmittiani dello stesso Schmitt e spogliare il principio relazionale del “politico” da ogni vestigia di differenza già prematuramente sostanzializzata: scommettere quindi, partendo da una micropolitica dell’esistenza, nella capacità magistrale che una differenza non precedentemente sclerotizzata e fissata una volta per tutte può esercitare su un soggetto che si riconosca responsabile all’interno di tale dinamica. In ogni caso, per Schmitt l’elemento dell’ostilità che porta con sé il “politico” è un dato a priori, ineludibile, rischioso, da pensare profondamente.

2- Il diritto interviene invece a posteriori per regolare e limitare la conflittualità. A questo livello riconosciamo precisamente la responsabilità dell’ordinamento politico, non solo nella misura in cui un soggetto sovrano si dà e si riconosce una volta riconosciuto il nemico, il proprio Altro, ma anche perché è solo a livello della sovranità che la dimensione teologico-politica fa la sua comparsa quale indispensabile criterio dell’ordine, con tutti i suoi corollari relativi alla questione della rappresentazione.

3- Il moderno liberalismo tecnocratico (figlio bastardo della neutralizzazione moderna dei conflitti di religione e dell’epoca rivoluzionaria) ma anche le utopie socialiste atee, le quali peraltro smarriscono per strada il vento messianico implicito e per questo misconosciuto nel marxismo di ascendenza blochiana o benjaminiana, sostengono che il progresso delle condizioni tecnico-materiali riuscirà naturalmente a produrre un soggetto moralmente nuovo, mansueto, definitivamente buono, tanto che lo Stato diventerà una pura funzione dell’amministrazione e da esso sarà bandito ogni forma di autorità e sovranità. Come ovvia conseguenza, nella prospettiva di tali dottrine viene negata l’esistenza stessa dell’ostilità originaria tra gli uomini, con il drammatico risultato però che questa finisce per rientrare in gioco con un’intensità moltiplicata.


4- Il Katéchon, nella prospettiva di Schmitt, traduce una visione del mondo nella quale viene difesa la possibilità di interpretare la lotta politica come puro dato esistenziale, come imprescindibile momento del difficile percorso che porta al riconoscimento. Ciò significa che, se una forza politica vuole effettivamente essere tale, deve rinunciare a qualificare se stessa come forza del bene e il proprio occasionale nemico come il volto dell’Anticristo. Se il concetto di “politico” viene de-sostanzializzato, ciò che resta è la necessità di assumere come costitutivo del proprio esistere la pluralità, la relatività e la debolezza, significa cioè riconoscere un cuore passivo al centro dell’identità da cui l’altro mi chiama in causa e verso cui l’obbligo di rispondere acquista molteplicità di senso e sfumature. Chi combatte contro un soggetto politico combatte quindi contro uomini reali, non contro il socialismo il liberalismo o l’ateismo. Sottraendo dal “politico” le sovrastrutture ideologiche ritrovo la persona, riconosco che il mio nemico è sempre una persona e che la dignità dell’uomo concreto è sempre superiore a ciò che egli pensa o ha compiuto nella sua vita. Peraltro, un corollario di tale personalismo ritrovato al cuore del “politico” porta con sé una conseguenza sociologica: se il sogno di ideologie quali il liberalismo e il socialismo è la creazione di un supercorpo sociale in grado di riprodurre nell’immanenza l’unità del corpo glorioso con cui Cristo farà ritorno al tempo della Parusia, il concetto del “politico” (portato ovviamente alle estreme conseguenze, ossia oltre la polarizzazione amico-nemico sul piano del diritto internazionale e del diritto interno) spinge a smembrare l’essenza ideologica e immaginale dei soggetti collettivi, perché questi ultimi non sono altro che la somma di uomini differenti ma l’unità e la dignità sono custoditi solo dalla persona nella sua esistenza singolare.

5- Il Katéchon, in un orizzonte che unisce lo storico e l’escatologico, diviene un utile strumento ermeneutico per individuare quale sia effettivamente la «buona battaglia» (2Tm 4,7) da combattere, ma tale lotta non definisce e separa in maniera manichea buoni e cattivi. Se così fosse tornerebbe al centro una decisione umana che si pensa, si racconta e si impone come assoluta, così che il detentore sovrano di tale decisione finirà per plasmare l’immagine di un mondo giusto come qualcosa di dipendente dall’eliminazione integrale (o dalla neutralizzazione silenziosa e mite) del nemico dalla storia. Il volto oscuro del prometeismo delle ideologie figlie della secolarizzazione e della Rivoluzione, attraverso la trasfigurazione quantitativa operata dal positivismo, diviene il manifesto per l’accelerazione verso la semprenuova età dello Spirito. Proprio per questo Schmitt, rileggendo la sua vicenda in chiave mitico-metafisica-storico-escatologica, in Ex Captivitate Salus (1), si definisce l’Epimeteo cristiano, in opposizione dunque alla pretesa del doppio mimetico fraterno di sottrarre a Dio la propria essenza divina per meglio pro-gettarla nell’immanenza storica e concependo il futuro nella forma di un piano da realizzare secondo lo slancio tecnico che ha dato origine alla “libertà” umana piuttosto che dono concesso da una volontà tanto trascendente quanto incomprensibile. La natura epimeteica del pensiero schmittiano (autentica epifania palesatasi nella solitudine della cella, proprio a testimonianza del tragico fallimento del maldestro tentativo prometeico della fase nazista del suo pensiero in totale contraddizione con i presupposti teoretici di opere come Teologia politica e Il concetto di “politico” (2) ma rispondenti ad una tentazione implicita, un richiamo verso il nucleo costituente del potere, di grandi opere storico-giuridiche come Dottrina della costituzione (3)) guarda alle rovine della storia da una prospettiva vicina all’angelo di Benjamin, contempla il mistero delle rovine e della volontà trascendente che governa le dinamiche del mondo senza mai risultare definitivamente comprensibile. Secondo la chiave epimeteica, l’uomo è necessariamente costretto al ritardo rispetto alla storia, riflette drammaticamente guardando il cumulo delle macerie, ed è propriamente da questa urgenza ricostruttiva, ritardante, curativa, che un soggetto storico-politico, che legittimamente si rappresenta e autocomprende come Katéchon, deve trovare la forza per la responsabilità, qualora si impegni in un conflitto reale, ossia politico. La verità e la giustizia non sono comunque di questo mondo e non sono proprietà né dell’amico né del nemico e pertanto nessuno può riconoscere in sé il principio assoluto del Bene né riconoscere nell’Altro l’assoluto Male (una prospettiva che condurrebbe immediatamente a stermini indiscriminati e disumani, violazione di qualsivoglia jus in bello e reintroduzione della justa causa quale motivazione della discesa in campo). La concreta umanità degli attori in gioco non permette alcuna assolutizzazione del giudizio. La possibilità del riconoscimento reciproco (autentico ribaltamento del principio mimetico della reciprocità violenta) può essere ri-scoperta nella consapevolezza che entrambi gli schieramenti in lotta si trovano alla medesima distanza dalla trascendenza della verità: è nella distanza rispetto alla trascendenza che si apre la possibilità di un’autocomprensione come soggetti necessariamente condizionati dalla finitezza storica, dalla debolezza, dall’ignoranza. Amico e nemico trovano nella distanza l’identità tanto profondamente misconosciuta: la trascendenza spogliata da vestigia idolatriche porta con sé il segreto della trascendenza dell’altro come mio prossimo; accogliere tale prospettiva, obbligarmi all’altro in quanto responsabile della sua dignità, è il primo passo verso una conversione e una riconciliazione come canto-cura delle differenze.

6- Il risultato più immediato e prezioso di tale sofferta autocomprensione del Katéchon quale forza storica privata di ogni garanzia trascendente (è proprio nell’assenza di suddetta autocomprensione che il Katéchon acquista quell’ambiguità anticristica che traspare sia nelle Lettere di Paolo sia nelle varie occorrenze tra le opere dei Padri della Chiesa) consiste precisamente nella de-teologizzazione dei rapporti amico-nemico, ma non una sua riduzione alla pura orizzontalità immanente. Se il “politico” perdesse completamente il riferimento suggerito dalla distanza della trascendenza, finirebbe per sostanzializzare la polarità amico-nemico e i belligeranti finirebbero per trarre dall’immanenza stessa un’energia finalizzata all’espulsione violenta dell’altro. Al contrario, la de-teologizzazione del “politico”, la de-assolutizzazione della guerra, quindi la non-criminalizzazione del nemico, dipende totalmente dal mantenere viva dentro di sé la traccia della trascendenza e dalla consapevolezza tutta cristiana dell’ineliminabile limitatezza e incompiutezza dell’immanenza. Come dimostra la sua riflessione sulla secolarizzazione in Teologia politica e il suo affresco di filosofia della storia ne L’epoca delle neutralizzazioni e delle spoliticizzazioni, quei poteri che ambiscono alla totale laicità e secolarità, finiscono a loro volta per teologizzarle, assolutizzando la realtà terrena, trasformando automaticamente l’inimicizia, l’ostilità e il conflitto con risultati terrificanti. Un autentico pensiero del Katéchon guarda al modello offerto dal Grande Inquisitore come all’astuzia più diabolica: l’evoluzione storica delle forme rappresentative che incarnano di volta in volta il Katéchon deve sempre mantenersi disposta all’ascolto del logos trascendente, un dire umile e fragile che trova forza nella sua resilienza, nella sua debolezza. Il Katéchon dunque trattiene sottraendosi dalla tentazione di fissarsi come forma assoluta e dominante; esso è piuttosto la voce eterna degli sconfitti della Storia, una lode della piena trascendenza nella forma dell’accoglienza e del lavoro costante della Passione per donare sempre un poco di tempo in più, per consegnare all’umano una nuova possibilità.


Non è compito del presente saggio fare una rassegna completa delle occorrenze della figura del Katéchon nel pensiero di Schmitt; tuttavia concentrarsi su un paio di queste risulterà decisivo per comprendere il tono complessivo che il presente scritto vuole mantenere.

Se nella prima fase “internazionalista” e nei primi tentativi di affrescare una filosofia della storia in cui all’elemento geografico corrisponde un’evoluzione politico-spirituale, la figura del Katéchon era impiegata in un senso esclusivamente conservatore e, soprattutto in Terra e mare, la sua azione veniva considerata positivamente, con gli scritti post Seconda Guerra mondiale si assiste ad una svolta particolarmente chiarificatrice. Nel Glossario (4), l’idea del Katéchon assume i connotati di una forza storico-escatologica che si oppone alla deriva della tecnica che tutto pianifica e alle devastazioni che genera l’esplosione incontrollata dell’ostilità umana di cui l’autore stesso è stato testimone durante il secondo tragico conflitto mondiale. Il Katéchon viene sempre più a coincidere con il nomos della terra (in effetti nel capolavoro del 1950 Schmitt sistematizzerà più compiutamente l’evoluzione storica della figura annunciata da Paolo ai Tessalonicesi, esplicitandone fonti scritturali, patristiche, medievali e valorizzando l’idea di un impero cristiano quale impronta in cui si inscrive il moderno jus publicum europaeum), cioè con un concetto di diritto fondato su ordinamento e localizzazione, con l’idea di una personalità del comando (l’autorità sta nella persona) e infine la Chiesa quale autentico e ineludibile modello della rappresentatività in chiave teologico-politica: queste sarebbero le forze in grado di trattenere il crollo dei tempi verso una conflagrazione di stampo sempre più gnostico-apocalittico. Ma nel Glossario, in mezzo al furioso risentimento che anima lo scritto, comincia a crescere in forma embrionale l’aspetto che personalmente ritengo decisivo per spingere il pensiero di Schmitt verso risvolti messianici: il riconoscimento di un pensiero della sofferenza, di un’agonia, di un patire e comprendere, di una connaturata esposizione alla sconfitta e alla Croce, quale proprietà fondamentale del Katéchon.

Tale nocciolo patetico e debole trova consacrazione nel diario della sconfitta di Schmitt, Ex Captivitate Salus. In quest’opera, infatti, davanti alla propria umiliazione e allo scacco teoretico contro cui collassò la sua esperienza nazista, il Katéchon diviene l’emblema dei vinti, diventa la voce di quei vinti che non vogliono rinunciare a «scrivere la storia», testimonianza scandalosa di una resistenza concettuale che tenta di arginare i marosi di un pensiero sempre più impersonale, positivistico, assiologicamente neutro. Schmitt inserisce il suo percorso lungo quella particolare deviazione dell’Antica via degli empi che ospita gli incompresi della filosofia politica: Machiavelli, Hobbes, Tocqueville, Donoso Cortes. L’oscurità della cella induce Schmitt a riflettere sulla natura “crocifissa” dell’esperienza umana della storia e sulla funzione esemplare e di modello che assume la vicenda umana di Cristo e della sua crocifissione. La sua morte da schiavo privato di ogni diritto e di ogni dignità, l’umiliazione totale a cui andò incontro per mano di un potere arrogante e autodivinizzantesi diventa l’emblema della persecuzione del nemico da parte dei vincitori della guerra giusta, diviene sintomo dell’incapacità storica del perdono come possibilità e dono per scrivere e sperare insieme in una Giustizia che sarà sempre comunque più profonda e antica delle parti in causa. Ecco che, anticipando per l’appunto il grande affresco storico-giuridico del Nomos della Terra, già in Ex Captivitate Salus l’idea di una formalizzazione razionale del rapporto amico-nemico in virtù di una trascendenza “altra”, della de-teologizzazione del “politico” attraverso la mediazione giuridica, del riconoscimento dello justus hostis, della possibilità di retrocedere dall’ostilità assoluta all’inimicizia concreta, diventano figure del Katéchon in contrapposizione a tutti i fanatici e impolitici fautori della guerra giusta, dell’ascesa agli estremi avallata dalla criminalizzazione del nemico.


In fondo possiamo dire che, nella riflessione schmittiana, il Katéchon rappresenta, o meglio, incarna il nucleo segreto da cui promana l’architettura stessa del pensiero del giurista ed insieme la forza verso cui converge il senso storico della sua opera, il compito che silenziosamente Schmitt affida ai suoi lettori.

Il Katéchon infatti diviene principio di ordine, norma, potere e legge alternativo alla deriva nichilistica che vuole reificare la trascendenza della forma a mera funzione, rispetto a cui potere impolitico e legge positiva dovranno solo farsi esecutori, nemmeno interpreti. Il Katéchon, al contrario, rappresenta quella figura misteriosa, quel concetto-limite in grado di mettere in collegamento pensiero politico e soggetto storico, nella drammatica consapevolezza appunto che non esiste un ordine concreto privo di un criterio dottrinale di riferimento.

Se l’antiteologia politica offerta dal delirio positivistico assolutizza l’immanenza, tanto da smarrire il senso assiologico della forma e negare la trascendenza mirando addirittura alla pianificazione del Regno su questa terra quale imitazione svuotata di quello celeste, la teologia politica schmittiana, che trova nel Katéchon la sua declinazione escatologica, riconosce la centralità del “politico” quale campo d’azione storica di quel soggetto che, decidendo, informa la sua epoca realizzando un potere concreto. Ma tale soggetto cerca disperatamente la sua legittimazione nel tentativo di realizzare una trascendenza che eternamente si sottrae (in quanto proprietà di nessuno) o, per dirla con Derrida, tenta di incarnare una giustizia sempre a-venire: l’azione storica di tale soggetto politico, responsabile della decisione, non può mai ambire quindi ad esaurire il modello cui si riferisce.

Il Katéchon, in tal senso, si salda perfettamente con l’ineludibile importanza della rappresentazione nella teologia politica di Schmitt. La persona rappresentativa rende visibile la trascendenza, una realtà altrimenti invisibile e quindi, di per sé, inefficace sulla realtà. Il modello iconico che Schmitt adotta sin dai tempi di quella piccola e folgorante opera dal titolo Cattolicesimo romano e forma politica (5), in cui la rappresentazione veniva propriamente fissata intorno ad una complexio oppositorum (laddove, appunto, ogni polo è immagine di una certa mancanza che dona più spessore a quel che effettivamente c’è o concretamente si realizza), si fonda su una teologia dell’incarnazione che trova nel corpo del Cristo incarnato la cifra di quella trascendenza altrimenti invisibile.

La persona pubblica abita questa soglia vertiginosa: ambisce alla “pienezza” dell’ufficio ecclesiastico ma nella drammatica realtà dischiusa dal “politico” il soggetto decidente deve realizzare la forma dell’ordinamento consapevole del suo essere orfano di una legittimità totalmente realizzata e riconosciuta. La Chiesa, in tal senso, detiene il modello della rappresentazione, rappresenta la possibilità stessa del rappresentare, tenta, a mio avviso anch’essa disperatamente, di realizzare storicamente ciò che l’incarnazione di Cristo testimonia.

Lo Stato dovrebbe compiere un’operazione strutturalmente analoga a quella della Chiesa, la quale opera in virtù della mediazione di Cristo. Tale catena di analogie e mediazioni, dal sapore decisamente agostiniano, allontana progressivamente lo Stato quale forma della mediazione razionale tra immanenza e trascendenza dalla sua origine effettivamente trascendente senza tuttavia mai recidere del tutto il legame. Riconoscere e assumere il peso di questa distanza, cogliere il senso profondo di tale assenza di legittimità, non deve tuttavia spingere alla deriva nichilistica o alla divinizzazione prometeica dell’immanenza. Il risultato minimo, eppur grandioso, di questo disperato tentativo di incarnare la forma della trascendenza nella sofferta consapevolezza della distanza infinita che ci separa dalla realizzazione integrale della Giustizia consiste, lo abbiamo detto, nella de-teologizzazione della guerra e del nemico, proprio perché, una volta denudato l’ambito del “politico” come quel luogo in cui mai ci può essere un radicamento ontologico e valoriale definitivo, diventerà impossibile e impensabile una immediata e totale identificazione di un soggetto storico con il Katéchon e del suo avversario con l’Anticristo.

La sovranità non esaurisce mai l’oggetto ideale cui tende la sua stessa rappresentazione; la sovranità è anch’essa inchiodata alla Croce. Solo responsabilizzandosi di fronte alla Passione e al dolore, la decisione a cui il sovrano è obbligato può imprimere al “politico” quella relatività e quella debolezza ad esso realmente consustanziali: solo così possono tramontare i falsi idoli sostanzialistici e l’illusoria tentazione della volontà di potenza. Lo Stato è impaniato nella dimensione tragica della “fatticità del politico” proprio come l’esser-ci è coinvolto nella sua gettatezza.

Se la teologia politica aiuta a definire il criterio strutturale dell’ordine, la radice di quest’ultimo deve essere individuata nella sua tensione verso la trascendenza, verso le cose ultime sia dal punto di vista assiologico sia da quello propriamente inerente alla storia della salvezza; è la trascendenza stessa che, sottraendosi, offre l’apertura dell’orizzonte storico, ossia la possibilità di realizzazione di un fine sempre in forse e mai teleologicamente definibile, controllabile e manipolabile; è la tensione verso la trascendenza la segreta ragion d’essere della politica. Ma, contemporaneamente, è il suo ritrarsi che restituisce la politica alla sua dimensione creaturale e laica senza peraltro costringerla all’orizzontalità immanente dei miti nazionalistici o delle spoliticizzazioni nefaste di natura squisitamente positivistica e tecnica (6).


In conclusione di questa introduzione utile a definire non solo alcuni spunti teoretici della filosofia politica e dell’escatologia filosofica di Carl Schmitt ma anche il senso profondo che anima il presente scritto nato dall’esigenza di criticare alcune posizioni eccessivamente semplificate, riduzioniste e teleologiche contenute in Portando Clausewitz all’estremo, vorrei provare a chiarire la questione della natura apocalittica o meno del pensiero di Schmitt.

Tra le sue estemporanee annotazioni sul pensiero di Schmitt, Girard fondamentalmente continua a sottolineare che la volontà di difendere a tutti i costi il diritto di guerra come strumento per normare l’ostilità latente tra i vari soggetti politici che definiscono il quadro internazionale si fonda su un pensiero non sufficientemente radicale incapace di comprendere profondamente l’accelerazione apocalittica implicita nella dissuasione nucleare. L’indecisione sovrana che determina l’indifferenziazione progressiva tra guerra e pace, una violenza che prolifera sempre più imprevedibile e suicidaria, l’ombra oscura dei funghi atomici celata nella stanza proibita del nostro immaginario, annunciano, secondo Girard, quanto la riflessione di Schmitt sia fuori tempo massimo e la fine della possibilità di ogni razionalità politica (una ritualità ormai inconsistente). Benoit Chantre, incalzato dall’autorevole maestro, fissa tali posizioni in una frase concisa: «La minaccia assoluta per Schmitt era insomma più la fine di un mondo regolato dal diritto di guerra che la fine del mondo» (7).

Una posizione in larga parte opposta rispetto allo Schmitt iper-razionalista presentato da Girard ci viene offerta da Jacob Taubes. Non è qui possibile aprire la parentesi della tormentata ma profondissima relazione intellettuale che l’ebreo Taubes ha intrattenuto con l’ex nazista Schmitt: il presentire un indescrivibile fascino magistrale nel pensiero del “nemico”, il portare alla luce contro l’intellighenzia francofortese la perturbante vicinanza tra la teologia politica schmittiana e il pensiero di Walter Benjamin, rendono la vicenda intellettuale della loro relazione un caso di studio interessantissimo. Tuttavia, oltre ogni ragionevole dubbio, possiamo affermare che l’inquadramento offerto da Taubes del pensiero di Schmitt sia complessivamente più autorevole e veridico rispetto alle prese di posizione di Girard basate su una conoscenza abborracciata di pochi testi.

L’intensa amicizia teoretica tra Schmitt e l’autore de La teologia politica di San Paolo, ha portato quest’ultimo ad indagare con particolare attenzione il versante escatologico che rimane in ombra nel pensiero del giurista, suggerendo in tal senso una interessante definizione: per Taubes, Schmitt può essere definito come apocalittico della controrivoluzione. L’insistenza che Schmitt pone sull’ordine delle cose umane e sul concetto di auctoritas quale forma svuotata, terrena, della veritas, risulta essere per Taubes un elemento fortemente controrivoluzionario, mentre la figura del Katechon corrisponderebbe al versante escatologico in cui ritrovare la traiettoria di questa controrivoluzione. Ecco un interessante spunto di Taubes tratto da In divergente accordo: «Carl Schmitt pensa da apocalittico, ma dall’alto, a partire dai poteri costituiti; io penso a partire dal basso. Ci accomuna l’esperienza del tempo e della storia come termine, come termine ultimo davanti al patibolo. Questa è originariamente anche un’esperienza cristiana della storia. Il Katechon, ciò che arresta, su cui si posa lo sguardo di Schmitt, è già un primo segno di come l’esperienza cristiana del tempo della fine venga addomesticata adattandosi al mondo e ai suoi poteri» (8). Da questo piccolo passo possiamo a tutta prima notare come la posizione di Girard sia quantomeno sbagliata se non fuorviante. È propriamente la consapevolezza apocalittica, il terrore degli eventi penultimi, il dolore scatenato dallo sprigionarsi dell’anomia, che spinge Schmitt verso una profonda tematizzazione del Katéchon, verso strategie di contenimento della violenza e limitazione dell’ostilità, verso una teoria della sovranità che sappia superare attraverso la forma rappresentativa e l’autorità la brutale contingenza dell’eccezione, il Nulla di norme fondativo di ogni ordine, senza perdere il riferimento alla trascendenza che non può mai realizzarsi completamente nell’Idea di diritto.


Non è uno sterile e gelido razionalismo quello che anima il percorso intellettuale di Schmitt, piuttosto il pensiero del giurista è sin dalle origini mosso da un timore tutto religioso delle cose ultime che, tuttavia, non produce mai in lui il desiderio di abbassare lo sguardo o voltare la testa lontano dalla storia. La consapevolezza cristiana della storia e dell’escatologia corrisponde totalmente all’elemento drammatico e mai trionfalistico suggerito dalla sua teoria della sovranità e dalla centralità del “politico” come forme della resistenza storica a una violenza sempre più indifferenziata e anomica.

Taubes, riconoscendosi dall’altra parte della barricata (chiaramente sulla scia di Benjamin, con cui condivide non solo lo s-radicamento ebraico ma anche la fede marxista), si definisce invece un apocalittico della rivoluzione e giudica controrivoluzionario l’approccio intellettuale schmittiano che legittima l’attaccamento ad un ordine in grado di procrastinare il presente eone. Ritardare l’evento apocalittico significa, nell’ottica marxista di Taubes, frenare l’accelerazione rivoluzionaria che proviene dagli oppressi e i sommersi della società presente: tanto per il primo Benjamin di Per la critica della violenza quanto per Taubes esiste una «violenza divina, che è insegna e sigillo, mai strumento di sacra esecuzione, è la violenza che governa» (9) al di là del diritto e che si oppone alla violenza mitica che pone il diritto e che si autodichiara come dominante e che si conserva grazie alla violenza poliziesca che amministra i mezzi del dominio storico del diritto mitico. La violenza divina sarebbe quindi una violenza pura che porta con sé la tempesta scatenante della gioia della fine, il desiderio della liberazione definitiva. Va da sé che una tale prospettiva sarebbe comunque a dir poco problematica e quantomeno poco prudente.



Fare di Schmitt un apocalittico della controrivoluzione significa non comprendere però l’aspetto cruciale della complessiva visione escatologica del controverso giurista. Innanzitutto occorre rilevare come il rapporto del Katéchon con il presente eone sia contrassegnato dalla provvisorietà, da un fondo di vanitas che, secondo l’Ecclesiaste, ammanta ogni esperienza e quindi ogni potere terreno (una provvisorietà, una contingenza che, peraltro, abbiamo già più volte notato essere il fondamento della sovranità e dell’ordinamento in Schmitt e che fa da drammatico contraltare alla formalità relazionale del “politico”) e quindi mai semplicemente dal tentativo di un suo consolidamento e dilatazione. Dentro l’orizzonte escatologico la figura del Katéchon ha primariamente il compito di segnalare il salto e la discontinuità tra storia e Regno; esso caratterizza l’essere penultimo della battaglia politica, cioè il suo essere consegnato ad una dimensione secolare che non è mai compiuta, che può né autogiustificarsi né autofondarsi; inoltre separa nettamente il mondo come piena immanenza e il Regno come piena trascendenza: la soglia è governata dalla decisione divina e la logica della loro corrispondenza risiede nella rivelazione, la quale può essere solo accolta e indagata ma mai gestita e addomesticata.

In secondo luogo accogliere tale logica significa assumersi una precisa responsabilità per la custodia e la protezione di un mondo che Dio ha consegnato all’uomo ma non verso il Regno che Egli donerà loro nel momento della Parusia. Personalmente ritengo che l’esperienza cristiana del mondo possa significare la prospettiva più feconda per quanto concerne il rapporto con la propria finitezza e con la creaturalità testimoniata dal volto altrui, tuttavia mi sento di dire che vi sono molteplici strade per incarnare questo tipo di esperienza: la fede è una di queste ma la dedizione e l’attenzione alla pratica quotidiana della propria e dell’altrui Passione porta con sé una forza messianica tanto resistente quanto più piccola e dimenticata sembra diventare. Custodia e responsabilità si impongono come dovere della politica, da cui scaturiscono due impegni che non vanno mai disgiunti e di cui occorre assumere il dramma del loro eterno irrealizzarsi in un dato “qui e ora”: da una parte la lotta per mettere in forma il principio del “politico”, ossia immaginare una politica e uno Stato che abbiano la relazione e l’altro al proprio centro quale forma gemellare e anticipante l’identità (penso alla geminazione del sovrano nella riflessione di Kantorowicz; nella proposta messianica la trascendenza è suggerita all’interno della relazione stessa, quasi fosse una rivelazione che scardina dall’alto l’immanenza del “politico” portando più in alto, o meglio, al di là, il senso della pluralità, del conflitto, dell’accordo o del disaccordo), dall’altra l’ascolto umile e continuo della parola sul Regno, il ricordo immemoriale di una trascendenza e di una Giustizia che viene prima di qualsiasi decisione terrena e che nessuna legge potrà colmare, una passività originaria che va assunta come autentica micropolitica dell’esistenza e che dispone spazi più umani di relazione: una micropolitica della debolezza e della passione per sovvertire silenziosamente e senza violenza la macropolitica della potenza.

Infine la lotta per l’ordine non può, e soprattutto non deve, essere esclusivamente conservatrice, bensì deve costantemente porsi come dinamica e creativa. La consapevolezza della caducità di tutto ciò che è umano e terreno non deve spalancare la porta alla posa nichilista e alla attesa passiva e inerte dello scatenamento delle cose ultime. Già Paolo avvertiva della perversione implicita in tale atteggiamento, della tentazione diabolica, della superbia con cui questa falsa disperazione si prende gioco della vera disperazione dei sommersi e degli ultimi, una forma sublime e religiosa di astuzia della ragione per cercare di controllare l’incontrollabile e accelerare il corso del Regno. Non bisogna quindi arrendersi ma rinnovare ogni volta il proprio sforzo che tende a superare le forme corrotte perché in queste si combatte la corruzione, ossia il mistero dell’anomia, e questo è il compito che il Padre ha affidato all’uomo. Una lotta a tutti gli effetti rivoluzionaria: una rivoluzione che però non consiste nel ribaltamento violento, piuttosto nel lento, perenne, seppur fallibile, tentativo di realizzare delle forme in grado, ogni volta di più, di inscrivere la Croce all’interno della sovranità, di inscrivere il “politico” come relazione dentro la politica della sostanza e dell’identità.


Lo stesso Taubes in Escatologia occidentale sostiene che «il principio apocalittico contiene in sé un potere che distrugge le forme e uno che le crea. A seconda delle situazioni e dei compiti prevale una delle due componenti, né l’una né l’altra possono però mancare. Se manca l’elemento demoniaco distruttivo, allora il rigido ordinamento, la positività che vige nel mondo non può essere superata. Se però attraverso l’elemento distruttivo non appare la “nuova alleanza” la rivoluzione affonda inevitabilmente nel vuoto nulla» (10). Ebbene, nella creazione delle forme consiste appunto l’intento ordinativo di Schmitt, con il sensibile obiettivo della limitazione dell’ostilità e della violenza; ma simultaneamente, ogni forma politica che si incarna nel presente porta con sé, proprio nel suo essere Katéchon, la propria fine e questa intrinseca debolezza la trasforma in un ricettacolo, in un ventre passivo da cui scaturiscono forme sempre rinnovantesi: nella presenza dell’altro che turba la tenuta della forma presente riconosciamo propriamente l’elemento rivoluzionario, la tensione verso un messianico divenire.

Ecco allora che Schmitt, proprio come Taubes e Benjamin, ma secondo una sua personale declinazione è ascrivibile tra gli apocalittici della rivoluzione. Ciò che il Katéchon sempre rinnovantesi protegge è la persistenza del tempo che resta, un concetto fondamentale nella teologia paolina. Solo il lavoro sofferente, lo sforzo responsabile nel tempo che resta, rende la vita più degna e fecondi i tempi; responsabilizzarsi nel tempo che resta, farsi guardiani del proprio fratello, significa inverare l’imperativo cairologico come pienezza di vita, di sguardo, di tatto, sperando che per nessuno ci debba mai essere una fine ma che per tutti ci possa essere su questa terra una qualche traccia di Giustizia in più. Rendersi degni del Regno non significa desiderare l’emendazione dell’esistente, piuttosto, nell’ottica schmittiana, ri-orientare costantemente il desiderio di Giustizia in funzione della capacità, sempre effimera e fallibile, di affrontare la sfida dell’anomia.




***


(1) Cfr. Carl Schmitt, Ex Captivitate Salus, Adelphi, Milano, 1987.

(2) Entrambi i testi contenuti in Carl Schmitt, Le categorie del "politico", Il Mulino, Bologna, 1972.

(3) Cfr. Carl Schmitt, Dottrina della costituzione, Giuffrè editore, Milano, 1984.

(4) Cfr. Carl Schmitt, Glossario, Giuffrè editore, Milano, 2001.

(5) Cfr. Carl Schmitt, Cattolicesimo romano e forma politica, Giuffrè editore, Milano, 1986.

(6) Nicoletti, dopo aver stabilito l’indubbio carisma cristiano che assume la visione della politica di Schmitt mediante la sua interpretazione della «forza che trattiene», sostiene che «ripensare il nesso tra teologia e politica, interrogarsi sul nocciolo teologico del potere e sulla trascendenza insita in ogni sistema politico, non significa affatto rimettere in discussione la laicità del politico, la sua mondanità, e proporre ambigue sacralizzazioni e mitizzazioni (…). La laicità della politica non è garantita dalla sua separazione dal teologico o dalla negazione di questo. Questa negazione può portare con sé un’assolutizzazione del politico che favorisce il nascere di miti totalizzanti e può indurre a nuove divinizzazioni del politico. La laicità può vivere solo se è mantenuta la differenza col teologico, ma perché questa differenza sia mantenuta è essenziale che sia mantenuto il rapporto, dialettico, con la trascendenza; solo l’apertura alla trascendenza garantisce l’equilibrio del politico nella sua mondanità». Cfr. Michele Nicoletti, Trascendenza e potere. La teologia politica di Carl Schmitt, Morcelliana, Brescia, 1990, p. 636.

(7) Cfr. René Girard, Portando Clausewitz all'estremo, Adelphi, Milano, 2008, p. 116.

(8) Cfr. Jacob Taubes, In divergente accordo, Quodlibet, Macerata, 1996, p. 33.

(9) Cfr. Walter Benjamin, Angelus novus. Saggi e frammenti, Einaudi, Torino, 2006, p. 30.

(10) Cfr. Jacob Taubes, Escatologia occidentale, Garzanti, Milano, 1997, p. 31.

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