Riprendiamo a parlare di quello dei racconti di Franz Kafka che sembra condensare l’essenza dello scandalo paterno come motore della proliferazione scritturale, secondo la nostra interpretazione: La condanna (Das Urteil). Il racconto data al 1912, anno cruciale nella vita di Franz Kafka per la coincidenza del fidanzamento con Felice Bauer e l’inizio di una stagione letteraria riccamente produttiva e ormai matura, che si concluderà solo con la morte dello scrittore più di dieci anni dopo.
Nell’articolo introduttivo abbiamo evidenziato la centralità della figura dell’amico in Russia per la decodificazione del contenuto del racconto. L’amico è infatti un nodo oscuro, un punto cieco da cui origina il gioco dei mascheramenti simbolici, sbrogliato il quale sarà possibile non solo comprendere il significato del racconto ma anche ammirare come il senso di spaesamento e di rarefazione, cifra stilistica del “realismo” kafkiano, derivi essenzialmente da questa oscurità non lucidamente tematizzata. Nel precedente articolo facevamo notare anche come la questione dell’amico fosse indubbiamente il travestimento dietro al quale rimaneva adombrata la doppia mediazione tra padre e figlio; ma appunto, la natura di questa doppia mediazione cifrata è assai complessa. Intanto questa identità è mutevole, o meglio assume delle sfumature cangianti a seconda di colui che ne parla, il che esclude la possibilità di definirla in maniera unitaria e inequivocabile. La più lucida definizione di questo processo è quella che concede Kafka stesso nella già citata nota dell’11 febbraio 1913, dove si dice che l’amico in Russia non è solo il collegamento tra padre e figlio, ma anche la loro «massima comunione». Occorre interpretare questa “comunione” alla lettera, forse anche in senso trinitario, come luogo simbolico in cui si compie l’indifferenziazione mimetica tra padre e figlio, e all’interno del quale il sorgere della differenza ad opera di una delle due polarità (padre o figlio) muterà il volto dell’amico stesso, figura confusiva assimilabile a ciò che Girard definirebbe “mostruoso”. Quando Kafka scrive che «Georg fruga con voluttà in questa comunione, crede di avere il padre dentro di sé e considera pacifica ogni cosa», egli intende dire che la pace può darsi solo quando l’istanza paterna sembra risolta, sussunta, assorbita in una soggettività che, idealisticamente, rientra in sé inghiottendo l’alterità, ma da questa comunione (che coincide con il luogo simbolico dell’amico, sempre seguendo la nota) è sempre possibile che «sorga il padre come antitesi»: dall’indifferenziazione mimetica apparentemente pacificata dalla scelta di Georg di seguire la via paterna, è sempre possibile che sorga una nuova differenza che ri-polarizzi la rivalità, rinfocolando l’infinito duello tra padre e il figlio. La replica costante dello spettacolo di differenze forti può quindi essere spiegata proprio come la rimozione della natura già profondamente indifferenziata-indifferenziante del conflitto mimetico: è la ripetizione della menzogna romantica. È questo il motivo per cui la figura dell’amico in Russia è così ambigua e contraddittoria: egli incarna, di volta in volta, una nuova concrezione discorsiva del conflitto mimetico, un nuovo volto posticcio, una nuova “visione delle cose” mediata dalla “vista del padre” o da quella che potremo chiamare la “prospettiva di fuga” di Kafka/Georg.
Nella prima parte del racconto – e probabilmente a monte dell’intenzione narrativa iniziale – l’amico funziona da dispositivo metaforico-sperimentale di una modalità d’esistenza che l’autore (Kafka) si trova a vivere concretamente, a volte patendola, altre strumentalizzandola con arguzia: è una “via mediana” che sembra essere l’intersezione confusiva tra la vocazione per la scrittura e la chiamata paterna alla realizzazione borghese. Kafka non riesce a decidersi, ossia a responsabilizzarsi di fronte ad altri (e l’Altro è ovviamente il padre) perché teme costantemente l’eventualità del fallimento e dell’umiliazione ma anche il potenziale scandalico di una possibile realizzazione. Il fatto che Kafka parli di questo amico come del “collegamento tra il padre e il figlio” significa in ultima istanza che ogni possibile soluzione (anche il percorso della “via mediana” stessa) non può in alcun modo prescindere dallo scontro con l’alterità incarnata emblematicamente dal padre, fonte perturbante di mediazione per il desiderio del figlio. A riprova di ciò sta il fatto che l’amico si presenta come un commerciante (proprio come il protagonista e come il padre, che lavorano infatti nella stessa azienda), la cui attività inizialmente andava bene ma che da diverso tempo presenta notevoli problemi. Non solo: pare che la sua barba nasconda una «pelle giallognola che pareva accennare a una latente malattia»: quasi alludendo all’affievolirsi della vocazione letteraria, al perenne stato di indecisione che Kafka scrittore viveva in quel particolare periodo della sua vita. Inoltre l’amico in Russia vive da sradicato, non è riuscito a stringere rapporti significativi né personali né professionali, così che sembra prospettarglisi una vita di solitudine e di conseguenti fallimenti.
Ecco come Kafka, per bocca di Georg, riflette sull’amico: «Cosa scrivere ad un uomo che evidentemente aveva sbagliato strada, che si poteva compiangere ma non aiutare?». Allontanarsi dallo sguardo del mediatore significa vedere i propri oggetti del desiderio perdere di prestigio, i dubbi cominciano ad ottenebrare la mente del desiderante, viene a mancare la fiducia nella scelta e nella decisione della strada intrapresa. Nella trasfigurazione simbolica, Kafka si immagina intraprendere una delle vie sopra descritte ma è consapevole della latente dipendenza del suo convincimento dal riconoscimento paterno. Lo stallo scandaloso della situazione è dato dal fatto che, una volta recisa la radice, non è più possibile fare ritorno sotto il mantello protettivo del mediatore se non a prezzo di un’avvilente umiliazione, pensiero che per Kafka risulta massimamente inaccettabile. «Forse consigliargli di tornare in famiglia, di trasferire di nuovo la sua esistenza in patria, di riprendere le antiche relazioni d’amicizia?» - «ma questo significava semplicemente dirgli insieme che i suoi precedenti tentativi erano falliti, rassegnandosi a farsi guardare da tutti cogli occhi spalancati come chi rimpatria per sempre; che soltanto gli amici avevano capito qualcosa, mentre lui era un fanciullone, cui non restava che obbedire a quelli che erano rimasti e avevano avuto successo nella vita». La via della letteratura o la via della realizzazione borghese emancipata dal desiderio del padre, ossia “libera” dal suo sguardo panottico, non solo risulta essere una mera illusione, ma viene figurata in ogni caso come un deserto, un percorso solitario di esiliato costretto a subire il peso della distanza unita al rischio perenne del fallimento. Paradossalmente, quindi, il fatto di prendere distanza dal mediatore, il farsi autonomo di Kafka-Georg, rende ancora più pressante e incombente la presenza del padre: tale è la gabbia simbolica del double bind mimetico. Proprio da qui risuona esiziale la già implicita condanna che la coscienza scandalizzata di K. prefigura per le sorti dell’amico “russo”: «forse non si sarebbe neppure riusciti a farlo tornare a casa e se ne sarebbe rimasto così, nonostante tutto, all’estero, amareggiato da tutti quei consigli e ancor più lontano di prima dagli amici» - «se poi avesse accettato il consiglio e, arrivato in patria, si fosse sentito oppresso, si fosse sentito umiliato, e avesse finito col non avere più né patria né amici, non sarebbe stato meglio per lui restare all’estero, così com’era?».
La via “mediana” è già una condanna? Ogni decisione sembra prospettare il confronto con lo sguardo altrui, l’oppressione di un obbligo che deriva dal rendere conto ad altri: dentro questa anfibolia è già contenuta la sentenza finale. La via “mediana” è inoltre quella delle virtualità sempre possibili, sempre attualizzabili, una via insomma che lascia aperta la fuga: un percorso a partire dal quale, al di là di ogni svolta, oltre ogni punto cieco, possono irradiarsi nuovi labirinti e cunicoli, dove possono proliferare assurdi incontri o rivelarsi pericolose architetture “istituzionali”. Una via, tutto sommato, dell’indecisione. Lo spettro che agita la scrittura di Kafka è quindi la perenne presenza-assenza dell’alterità, spettralità che il nostro vorrebbe comprimere nella costruzione di un sé totalizzante e totalitario (1).
Georg-Kafka, nel racconto, scrive lettere alla scrittura, scrive alla scrittura. Questo cortocircuito è particolarmente rivelativo per due aspetti che solo in Kafka riescono ad aprire prospettive così abissali e profonde: 1- per Kafka la scrittura e la sua posizione dentro la scrittura, il dialogo interno fra narratore e scrittura, la duplicazione dell’Io con le sue frammentazioni, i suoi desideri, risultano essere l’unico modo per tematizzare la possibilità di una soluzione alla vita e tale soluzione è il più delle volte un’assoluzione, uno sciogliersi dai legami con la vita stessa, con i suoi doveri e obblighi che insieme si dà come dichiarazione di non colpevolezza. 2- La scrittura ha una funzione gnoseologica rispetto al proprio sé: è un percorso di conoscenza e indagine che deve procedere nell’intelaiatura onirico-narrativa della propria coscienza colpevole; trovare la radice della colpa, forse per reciderla o forse per accoglierla, interpretare i rapporti e i desideri nel loro farsi immaginativo, nel trauma stesso delle proprie ossessioni.
Un ulteriore elemento significativo riguardo la figura dell’amico è che Georg, nel racconto, dice che non si potevano dare «notizie vere e proprie» all’amico; l’amico è ostacolato nel suo ritorno in patria per via della difficile situazione politica in Russia, un’ulteriore forma cifrata per mostrare sia l’esternalizzazione del desiderio sia la creazione fittizia di ostacoli che non permettono di prendere una decisione risolutiva. Cosa è cambiato negli anni di assenza dell’amico nella vita di Georg? La morte della madre aveva portato Georg a mettere molto più impegno negli affari tanto che, magicamente, l’azienda aveva cominciato ad aumentare i ricavi, prospettando ulteriore crescita e progresso. Le congetture dello stesso Georg mostrano come la madre rappresenti l’istanza sedante, pacificatrice, differenziante (ossia in grado di differire) il conflitto tra il padre e il figlio: un’istanza di “ordine” a suo modo – ma latrice di un indirizzo di pacificazione che, come fece la signora Julie Löwy, madre di Kafka, era teso sempre a ristabilire la “giusta” supremazia del padre sul figlio, come in ogni buona famiglia borghese che si rispetti. Morta la madre, il “circolo sanguigno” diventa più frenetico e rischioso. «Forse, quand’era ancora viva la madre, il padre, imponendo all’andamento della ditta unicamente la sua volontà, gli aveva impedito di avere un’attività propria; forse, pur continuando ad occuparsi degli affari, il padre, dopo la morte della madre, s’era fatto più discreto». La liberazione prometeica degli spiriti animali di Georg, ora che il testa a testa con il padre è libero dall’arbitrato partigiano della madre, coincide con un fisiologico – ma non volontario né pacifico – ritiro della figura del padre, le cui conseguenze possono solo eufemisticamente tradursi con la parola “risentimento”.
Seguendo la traccia dell’amico in Russia come metafora della “via mediana” arriviamo quindi a configurare la doppia mediazione strutturata nel triangolo Georg-Padre-Amico in Russia. Nel gioco delle duplicazioni mimetiche, lo scandalo si innesta simultaneamente tra il desiderio di Georg-Kafka e il padre mediatore assoluto (desiderio che palesa la sua dipendenza proprio nella sua volontà di differenziarsi uscendo dalla schiavitù mimetica, con l’unico risultato però di inasprirla ulteriormente) e tra Kafka scrittore e le sue aspettative (pedinate dallo spettro del fallimento) in cui Kafka diviene egli stesso modello-ostacolo di se stesso in un processo di progressiva lacerazione e frammentazione che può essere visualizzata (ed esorcizzata?) solo nella finzione sperimentale a mezzo di un supporto terzo: la scrittura. Cortocircuito illimitato, narrazione potenzialmente infinita: il mondo della scrittura (come il mondo onirico) rischia di tramutarsi in un campo infinito di proiezioni di sé in polarità che contengono tracce di questo triangolo originario, così che l’antitesi continuerà instancabilmente a ricomparire e il paesaggio narrativo sarà sempre esposto all’invasione dell’incubo.
***
(1) Nel senso che il suo vero desiderio sarebbe quello di poter infrangere le leggi che lui stesso si dà, come opportunamente segnalato sia da Baioni in Giuliano Baioni, Kafka e parabola, Feltrinelli, Milano, prima ed. 1962 che da Cacciari in Massimo Cacciari, Icone della legge, Adelphi, Milano, 1985.
Comments