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Das Urteil 5 | Finale di partita

Aggiornamento: 6 mar 2020


Il Ponte Carlo a Praga






Veniamo alla quinta e ultima parte della nostra analisi de La condanna. Rifiutato nella sua proposta di apertura, il padre ribadisce la sua posizione dominante («sono ancora il più forte e di molto») ed insieme nega al figlio ogni libertà e autonomia («tu credi di avere la forza di venir sin qui, e non ti muovi soltanto perché così vuoi» - ma il sottinteso è che, ormai, vi sia solo l’eteronomia più stringente). La forza del discorso del padre sta, di nuovo, nel pieno controllo del “cerchio sanguigno”: «da solo sarei stato costretto forse a cedere, ma la mamma mi ha ceduto la sua forza, col tuo amico ho stretto una magnifica alleanza, la tua clientela l’ho qui in tasca».

La derealizzazione assume allora due vesti differenti: 1- vi è una derealizzazione creatrice da intendersi come produzione di una realtà a partire dal desiderio del personaggio e di Kafka stesso: derealizzazione finalizzata quindi all’annichilimento dell’ostacolo che porta scandalo e che blocca l’attuazione del desiderio (« “Perfino nella camicia ha delle tasche!” si disse Georg credendo con questa osservazione di rendere inverosimile il padre davanti al mondo intero. Lo pensò solo per un istante, perché dimenticava sempre tutto di continuo»; 2- vi è poi una derealizzazione “subita”, nel senso che il mondo narrativo perde progressivamente sostanza lasciando posto solo ai particolari più allucinati e grotteschi, autentica drammatizzazione dell’incubo, come quel giornale dal titolo indecifrabile che il padre gli lancia e sul quale Georg concentra inutilmente la sua attenzione, un po’ per distrarsi dall’ingerenza del discorso paterno e un po’ perché, completamente disorientato, prende in considerazione ogni ombra proveniente da questo incubo che avvolge l’alterità e la realtà esterna avvertita come minacciosa ed espropriante con lo scopo di riorientarsi. Perché Georg continua a dimenticare? Perché all’acme della crisi mimetica il suo desiderio non ha più presa sul reale, non è in grado di saldare una realtà che resista alle spallate del padre modello-ostacolo. L’alterità recupera un’oggettualità resiliente alla soggettività idealistica, e la mente di Georg, costretta a processare un mondo ordito dal desiderio di un altro, non sta dietro alla ridda dei fenomeni che si accavallano.


Dopo un’ulteriore rassegna dei suoi trionfi («Prendi pure a braccetto la tua fidanzata…», con sicumera, e «[il tuo amico] sa già tutto, proprio tutto! […] Le tue lettere le sgualcisce senza leggerle colla sinistra, mentre colla destra tiene spiegate le mie per leggerle»), e un’accusa da parte del figlio («Dunque mi hai aspettato al varco!») che incontra il compatimento del vincitore, il padre tira finalmente le somme del discorso, pronunciando la condanna congiuntamente a una lucidissima sintesi di tutto quanto è stato detto ed è avvenuto tra i due personaggi: «Ora sai dunque ciò che esiste al di fuori di te, finora non conoscevi che te stesso. Eri davvero un bambino innocente, ma ancor più un essere diabolico! E perciò sappi: ti condanno a morire affogato!».

In queste poche parole c’è tutto: l’accusa di idealismo assoluto al figlio («non conoscevi che te stesso»), la vittoriosa affermazione dell’istanza paterna a lungo sopita («ora sai dunque ciò che esiste al di fuori di te»), che prende la forma della legge attraverso l’enunciazione della condanna, il rimprovero per la “diabolicità” dell’espediente architettato dal figlio per escludere il padre e disattivarne il potere, e congiuntamente l’attestazione dell’innocenza con cui la manovra è stata architettata – commistione di innocenza e malignità che attraversa, nelle più varie forme e proiezioni, tutta la narrativa di Kafka, e culmina nella chiusa della Lettera al padre. In particolare pare implicita una proiezione di impurità su un desiderio che si concepisce come assoluto e idealizzante: è la natura stessa della legge-desiderio del padre, la cui inappellabilità e contraddittorietà sono ricordate appunto nella Lettera al padre.


L’espediente della morte del protagonista è un classico “dispositivo di fuga” comune a molta parte della prima narrativa kafkiana: si è già visto come, nel racconto giovanile Descrizione di una battaglia, la morte dei doppi mimetici servisse a placare un conflitto altrimenti non risolvibile senza un riconoscimento reciproco. Ne La condanna, in particolare, la messa in scena della morte segue una procedura apparentemente macchinosa, quasi automatica: come se, una volta annientata la totalità idealistica di Georg, non restasse altro che affrettare l’esito naturale della sconfitta dell’idealismo con la morte: la scala scivola sotto i suoi passi come un piano inclinato, il corpo è «cacciato fuori dalla camera» come da una forza divina, e quindi «spinto irresistibilmente verso l’acqua». La morte, però, come attesta la nota del 13 dicembre 1914 (1), è anche una messa in scena consolatoria: «in tutti quei passi buoni e convincenti [che ho scritto] si tratta sempre di qualcuno che muore, cui la morte riesce molto difficile e in ciò è contenuta per lui un’ingiustizia o almeno una durezza, sicché il lettore, almeno secondo la mia opinione, ne rimane commosso». Georg, come Kafka, vive e scrive sempre di fronte a una platea di spettatori chiamati a validare il suo discorso, o a commuoversi quando questo è infranto. È questo il momento più alto della menzogna romantica kafkiana: nel rifiuto del confronto e del riconoscimento dell’altro, l’alterità è recuperata nella distanza di una platea di osservatori commossi per la sventura del protagonista – che non ha fatto altro che accrescerla e fuggirne. La responsabilità dell’ostacolo, della morte e della sofferenza sono riversate interamente sul vincitore, mentre il fanciullo innocente, vedendo spegnersi il suo piccolo mondo, gode almeno della consolazione di una schiera di spettatori empatici che possano sancire, nonostante tutto, la sua permanenza nel giusto.

La “conversione” (romanzesca) a cui era stato chiamato da Frieda, movimento che avrebbe dovuto portarlo ad un autentico confronto con la presenza paterna così da ricondurre a unità le ipostasi generate dal suo desiderio scandalizzato, si è trasformato in un bluff ingestibile. Quella di Kafka è forse davvero una scrittura che necessita dell’ostacolo per esistere. Al culmine del romanticismo consolatorio, poco prima di gettarsi dal ponte, Georg pronuncia le sue ultime patetiche parole: «Cari genitori, pure vi ho sempre amati!», quindi si getta. Subito il mondo affatturato dalla sua menzogna svanisce: nello spazio liberato dalla sua scomparsa, risorge la realtà cruda e impassibile – «un interminabile andirivieni di persone e di veicoli», indifferenti a quel mondo confuso che è scomparso in fondo al fiume.


***


(1) Confessioni e diari, op. cit., p. 510-11.


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