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Das Urteil 2 | Il matrimonio, inalienabile possesso

Aggiornamento: 6 mar 2020



Nell’articolo precedente abbiamo chiarito la funzione del dispositivo narrativo dell’”amico in Russia”: espediente di messa in scena della “via mediana”, ovvero l’indeterminabile oscillazione di Kafka tra la tentazione della scrittura e quella della mediazione paterna, ipotecata tuttavia dalla tara dell’irrealizzabilità per l’inarrivabile supremazia del mediatore. Dialogando immaginariamente con l’amico in Russia, Kafka si fa tentatore di sé stesso rispetto alla via paterna, nella cui direzione si è appena riaccesa una speranza di realizzazione, contemporanea all’inizio dello scambio epistolare con Felice Bauer – avvenuto, ricordiamolo, appena due giorni prima della stesura del racconto.



Kafka si fa i proverbiali film. Ecco finalmente una donna, con la quale fantastico già di un viaggio in Palestina (1), e con la quale forse, nella mia testa, sono già sposato e con figli. Una moglie, per giunta, che vorrebbe tanto che quell’amico in Russia, ipostasi della vergognosa e segreta vocazione letteraria, partecipasse al matrimonio e divenisse finalmente parte integrante della vita di Georg, riunificando le membra disgiunte di un corpo adulto che ancora stentava a manifestarsi. E scrive La condanna: il fast forward in vitro della sua vita da commerciante ammogliato, di ritorno dall’esilio della via mediana nel pacifico reame borghese voluto dal padre. «Georg Bendemann crede di avere il padre dentro di sé e considera pacifica ogni cosa, tranne una fugace e malinconica pensosità», sintetizza la nota dell’11 febbraio 1913: il padre è “dentro”, è introiettato alla maniera del protozoo che fagocita il suo simile, che così è anche domo e reso inerte – lui che sembrava allora così gigantesco! – ma la “malinconica pensosità” allude alla presenza di un rimosso, alla pressante incombenza di un non-detto che attende di manifestarsi. Con tutta la sua tara di fallimento e sterilità, il deserto della letteratura è estroflesso ed esorcizzato nella figura malaticcia dell’amico in Russia. Egli deve essere tenuto all’oscuro di tutto, perché non sia scandalizzato dall’alternativa che Georg (il Kafka del futuro, sposato con Felice) gli prospetta (2). «Non desiderava altro [Georg] che lasciare intatta l’immagine che l’amico s’era fatta della sua città natale, durante quel lungo intervallo di tempo, ed a cui s’era ormai assuefatto» (3) Perché scandalizzarlo inutilmente con questa ennesima tentazione di ritorno e risoluzione? Soprattutto, l’amico non deve sapere di Frieda (di Felice?), colei che permetterà a Kafka (a Georg?) di realizzare la via della mediazione paterna.


Eppure, Frieda non è della stessa idea. Se il matrimonio deve avvenire, nel rispetto dell’indicazione di desiderio mediata dal padre, questo dovrà comprendere anche l’amico in Russia, ovvero la vocazione letteraria. Nel racconto, Frieda Brandenfeld è la fidanzata di Georg, ed è ovviamente un travestimento di Felice Bauer, conosciuta da poco (4). Ma di quale Felice? Quella incontrata fugacemente una sera e subito eletta a promessa sposa? Quella donna a cui appena due giorni prima aveva inviato la prima di una lunga serie di lettere? È chiaro che a questa altezza Frieda non è (ancora) Felice, ma una proiezione di come Franz Kafka vorrebbe che fosse la “moglie dello scrittore” (5), artefice devota e benigna di una pacificazione del dissidio paterno e vocazionale che permetta al povero fanciullo Georg/Kafka di non dover passare di nuovo sotto lo sguardo tremendo del padre, per riceverne la benedizione finale – per rispondere, finalmente, della loro relazione. La fidanzata di Georg non è dunque felice (!) della reticenza del futuro marito: vuole che anche l’amico in Russia sia informato del matrimonio e che vi partecipi. Georg rintuzza, devia il discorso: «egli si sentirebbe a disagio, e diminuito, forse m’invidierebbe e ripartirebbe solo soletto, certo scontento e incapace di superare questa sua scontentezza». Ma «se avevi degli amici come lui», dice saggiamente Frieda, in un passaggio non facilmente ascrivibile alla nuda logica del racconto, ma motivato da un improvviso collasso del piano narrativo su quello esistenziale, «se avevi degli amici come lui, Georg, non avresti dovuto neanche fidanzarti». E come darle torto? Se volevi fare lo scrittore, Georg – Franz! –, e se la scrittura comportava una così grande tara di non-detti e impedimenti, non avresti dovuto neanche fidanzarti – se la tua vocazione è quella, non dovresti continuamente tentare di rispondere a quella che vuole per te tuo padre. Semplicisticamente, Kafka torna a decretare, per bocca della liberatrice, l’inconciliabilità delle due vie. Il seguito del racconto sembrerà muovere in un’altra direzione, ma l’epilogo tombale, segnato dal suicidio (comminato) del desiderante, sancirà ancora una volta l’impossibilità di risolvere il conflitto.



Mentre è sommerso dai baci della fidanzata, Georg si decide ad ascoltarla – ma di nuovo: ad attuare il suo piano autistico – e a risolvere la questione dell’amico, portando gli uni al cospetto degli altri sotto la sua mediazione assoluta. La decisione è presa nel momento del possesso fisico della fidanzata – che abbiamo già segnalato essere l’inappropriabile assoluto, l’unico possesso autentico del figlio, escluso dal “cerchio sanguigno” degli oggetti del padre, la cui prossimità dona un talismano di assoluta supremazia a Georg – talismano che non può essere appropriato, se la donna del figlio è, come dovrebbe, un tabù. «Son fatto così e così mi deve prendere», dice Georg coprendo di baci la sua fidanzata, esaltato dal possesso di quel che suo padre non potrebbe mai sottrargli. Trionfante per questa conquista, Georg si convince a scrivere una lettera all’amico in Russia nella quale saranno chiariti tutti gli equivoci e sarà data sobria ma non contegnosa comunicazione del fidanzamento. È questo un momento che, nell’immaginazione di Georg, corrisponde a una conversione alla “verità”: presentarsi con tutto sé stesso senza inganni di fronte all’amico, alla fidanzata – e in ultima istanza al padre – comporterà la dissipazione di quel fondo di malinconia che ancora, stranamente, lo tormentava in una situazione apparentemente delle più felici. Si tratta di una conversione, però, che è l’esatto opposto di quella romanzesca: anziché risvegliare il protagonista a una coscienza lucida e completa dei rapporti, delle dipendenze degli uni e degli altri e della sua collocazione all’interno di questa rete, la conversione alla verità “letteraria” di Georg non ha altro scopo che cristallizzare e sancire una volta per tutte una posizione contrattuale più forte nei confronti del padre, che vedrà così il suo reame – di imprenditore, di marito e di padre – completamente colonizzato dall’immaginario del figlio, il quale annienterà così una volta per tutte il rivale e appianerà le oscillazioni e le differenze mimetiche nella pace dei cimiteri. «Non sarebbe il mio matrimonio una buona occasione per togliere di mezzo una buona volta tutti gli ostacoli?» scrive Georg all’amico – e anzi, direttamente al padre. Sarò marito, imprenditore e scrittore, riesumando dalle sue latebre il mio segreto capriccio, la mia arma più formidabile, contro la quale nemmeno mio padre può nulla: la scrittura.





***

(1) Così, alla bersagliera, nella primissima lettera a Felice: “Se è ancora dell’idea di intraprendere quel viaggio, sarò non solo opportuno, ma assolutamente necessario fin d’ora che cerchiamo di intenderci per questo viaggio” (F. Kafka, Lettere a Felice, Meridiani Mondadori, 1971, p. 1).

(2) Perché letteratura e vita ammogliata dovrebbero essere reciprocamente escludenti? È lo stesso Kafka a pensarlo: la tutela della propria indipendenza sarà uno dei motivi, forse il principale, della rottura del fidanzamento con Felice. Si legga a riguardo il classico saggio di Elias Canetti Der andere Prozess. Kafkas Briefe an Felice, 1969 (E. Canetti, L’altro processo, Guanda, Milano 1990).

(3) F. Kafka, Racconti, Meridiani Mondadori, p. 144.

(4) Ricordiamo, dalla nota di diario dell’11 febbraio 1913 (F. Kafka, Confessioni e diari, Meridiani Mondadori, p. 377) che «Frieda ha altrettante lettere di felice e la medesima iniziale, Brandenfeld ha la stessa iniziale di Bauer e con la parola “Feld” una certa relazione anche nel significato».

(5) Anche E. Canetti fa notare come Kafka cerchi in Felice, di fatto, un’approvazione integrale della sua carriera come scrittore (cf. in particolare op. cit., p.63).

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