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Das urteil 3 | Il matrimonio, inalienabile possesso?

Aggiornamento: 6 mar 2020




Non è un caso se, appena conclusa la lettera, Georg pensa subito di andare in camera di suo padre, «dove non era stato da mesi». Si vedono regolarmente, padre e figlio, che lavorano insieme e condividono i pranzi, ma da mesi Georg non era andato in camera del padre, non aveva più varcato la soglia del suo esclusivo dominio. Forte del possesso inalienabile costituito da Frieda e della lettera chiarificatrice da inviare all’amico in Russia – per ora ancora simbolo della vocazione alla scrittura – Georg varca i confini del reame paterno per prenderne definitivamente possesso, mettendo l’avversario davanti al fatto compiuto della sua vita definita una volta per tutte – nel matrimonio e nella vocazione letteraria – secondo il proprio puro e incontaminato intendimento.


«Georg notò con stupore come fosse oscura la camera del padre, anche in quel mattino soleggiato». Il padre avanza amichevole verso il figlio, la sua veste da camera si apre quando si muove. «Mio padre è ancora un gigante», pensa Georg – onore delle armi al vinto: se lo può concedere. Dopo un breve scambio, il figlio si decide a parlare con il padre della lettera che ha appena scritto, per informare l’amico in Russia del fidanzamento. Georg si illude che la questione del matrimonio rispetto all’amico in Russia (l’attività letteraria) si possa ridurre a un confronto tra sé e l’amico stesso – tra Kafka e la sua vocazione –, mentre è di fronte al padre, mediatore assoluto, che questo “connubio” dovrà essere sancito. Georg presenta al padre un “piano perfetto” nel quale il padre stesso sembra non avere un ruolo e rispetto al quale si richiede solo un assenso che sancirà il trionfo di un’ipostasi liberata, indipendente e assolutamente sovrana del figlio – tanto più simile, e mai così tanto, al padre totemico; tanto più simile, e mai così tanto, a “quella libertà di moto” che tanto ambiva a raggiungere. È a questa altezza che il padre, messo di fronte allo “scacco matto” del figlio, che gli ha sottratto ogni possibilità di riterritorializzarlo nel suo discorso, inizia la sua strategia di rivalsa. Vuole ribaltare il tavolo un attimo prima di questa mossa finale, e lo fa con una risposta apparentemente irrelata, ma che in realtà riporta il piano del discorso sul terreno della loro eterna contesa, che il figlio voleva passare sotto silenzio, vincendo a tavolino. «Sei venuto da me per consigliarti con me in questa faccenda. Questo, senza dubbio, ti fa onore. Ma non è nulla, è men che nulla, se ora non mi dici tutta la verità. Non voglio rivangare cose che non hanno nulla a che vedere con questa. Dopo la morte della nostra cara mamma ne sono accadute alcune non molto belle. Forse verrà anche per loro il momento giusto e forse prima di quel che non si pensi. In ufficio mi sfuggono molte cose, non dico che mi si nascondano – non voglio neppure farla, per ora, questa supposizione – non sono più abbastanza in forze, la mia memoria s’è indebolita, non riesco più ad abbracciare con un sol colpo d’occhio tutto l’insieme. In fondo, è legge di natura e poi la morte della nostra mammina mi ha accasciato molto più di te. Ma giacché si è toccato questo argomento, giacché siamo a questa lettera, ti prego, Georg, non mi ingannare. È una piccolezza, non ne vale la pena di perderci il fiato, dunque non mi ingannare. Hai davvero questo amico a Pietroburgo?». Richiamando i fatti poco piacevoli avvenuti dopo la morte della madre, verosimilmente la sua progressiva marginalizzazione in azienda, il padre rinfaccia l’arroganza solipsistica di Georg nel percorso di realizzazione della “via paterna”, dall’altra pone letteralmente in dubbio l’esistenza di quelle istanze plasmate dal figlio che esulano totalmente dal “circolo sanguigno”, ovvero dalla “vista del padre”, ovvero dalla sua mediazione. Il discorso che Georg sta facendo non ha davvero nulla a che fare con il vecchio padre?



La risposta di Georg è ancora più strana: «Lasciamo stare i miei amici, mille amici non potrebbero sostituire mio padre», e giù una serie di consigli da figlio premuroso preoccupato per la salute del vecchio padre. Cambiando discorso, Georg prova a impedire al padre di trascinarlo nel recinto sacro del suo Discorso, prospettandogli tuttavia una possibilità di continuare a esistere nella forma dell’invalido cullato e coccolato dal vincitore totemico («Intanto, Georg era riuscito a rimettere il padre in poltrona, e a levargli le mutande di maglia che portava su quelle di lino, e anche a sfilargli i calzini»). Messo alle strette, Georg assume in pieno la figura, che si era costruito per il suo futuro preconfezionato, del figlio premuroso. Un pensiero corre alla futura sistemazione del padre: in un momento di eccessiva confidenza, aveva pensato di relegarlo (seppellirlo) definitivamente nella vecchia casa – ora che il suo castello di carte sta crollando, teme e si immagina di portarlo in casa con sé e la futura moglie – per tenerlo sotto controllo, per ripagarlo di una moneta che quello non vuole ricevere.


In questo momento è il padre a condurre il gioco: mostrandosi fintamente docile alle cure del figlio, lo spinge a mostrare fino a qual punto sia intenzionato a portare il discorso ambiguo della presa in carico, sotto il quale si cela l’intenzione del controllo totale, esemplato dall’immagine della coperta che il padre, all’apparenza, accetta chiedendo addirittura se è “ben coperto”. Addirittura il vecchio si copre «da sé, tirandosi la coperta parecchio più in su delle spalle». Confortato dall’apparente arrendevolezza del vecchio al suo discorso e alle sue intenzioni, Georg cade nella trappola del padre, chiedendo il definitivo assenso del padre al suo discorso sull’amico in Russia: «-È vero che ora ti ricordi di lui?- domando Georg, ammiccandogli quasi per fargli animo». A questo punto, il padre riprende il controllo: si leva le coperte e comincia a urlare contro il figlio: «Mi volevi coprire, lo so, figliolino mio, ma coperto non sono ancora». Con una mossa di massima efficacia, il padre trascina all’interno del “cerchio sanguigno” un elemento che fino a quel momento Georg avrebbe creduto perfettamente al riparo dall’appropriazione del padre: l’amico in Russia il vecchio lo conosce bene, e sarebbe stato un figlio «secondo il suo gusto». A questo punto proviamo a lanciarci in un’ipotesi rischiosa. Sia chiaro, non è con fini autenticamente dialogici che dall’accusa del padre emerge questo vertiginoso non-detto, ci troviamo pur sempre nel parossismo di una tenzone mimetica estremamente concitata e violenta; eppure un silenzioso dubbio comincia ad emergere. Quando il padre rivela a Georg che l’amico sarebbe stato un figlio secondo il suo gusto e che, proprio per questo, «lo hai ingannato durante tutti questi anni», è come se insinuasse – forse siamo di fronte al suo massimo inganno – che la vocazione letteraria avrebbe potuto trovare accoglienza e comprensione se solo fosse stata condivisa con piena sincerità. Il padre si espone ancora di più in tal senso («credi forse che non abbia pianto per lui? Soltanto perciò ti rinchiudi nel tuo ufficio, nessuno deve disturbarti, e solo per scrivere le tue false letterine in Russia») e sembra implicitamente accusare Georg-Kafka di inventare ad arte ostacoli laddove realmente non ve ne sono. Non è forse questo un dispositivo narrativo che prefigura la poetica kafkiana dell’ostacolo (specie di quello più maturo)? Del resto anche Maria Zambrano ne Il sogno creatore (1) sostiene che essenziale per la poetica kafkiana sia il sogno di ostacolo, ossia quell’incapacità di raggiungere un obiettivo, magari a portata di mano, che nella mente del sognatore si allontana indefinitamente per via di una continua apparizione-invenzione di nuovi ostacoli. Georg è come tramortito dal potente schiaffo racchiuso in questo non-detto. Ma come? Mio padre conosce bene (forse meglio di me!) l’amico di Pietroburgo? La mente di Georg-Kafka vaga confusa in mezzo ai rimpianti: «lo vedeva sperduto nell’immensa Russia, sulla soglia del negozio vuoto, saccheggiato, ritto tra gli scaffali in rovina (…) Perché era poi dovuto andare così lontano?». Ovviamente una così assurda e improbabile apertura alla reciprocità e al dialogo poteva avvenire solo all’acme dell’indifferenziazione mimetica, quando ad ogni battuta le posizioni assunte si rivelano strumentali e illusorie.


Se il padre aveva in qualche modo mantenuto un contegno rivaleggiando intorno all’amico in Russia – riconoscendolo come elemento della comunione tra sé e il figlio –, perde però definitivamente il controllo quando, in un climax ascendente, il motivo del contendere diventa l’inappropriabile Frieda: la violenza dei gesti, delle espressioni, delle parole e un assurdo sempre più perturbante e grottesco vengono resi da Kafka con una sensazionale dovizia di particolari. Le ragioni del salto repentino, apparentemente pindarico, dal discorso sull’amico a quello sulla fidanzata sono chiare: appropriatosi l’amico, ricondotta la sua matrice simbolica nel recinto del “cerchio sanguigno”, il padre si deve ora preoccupare di mettere fuori gioco la seconda posta del rilancio del figlio, la fidanzata appunto. Ma dato che questa vive «soltanto per il rapporto con l’amico, vale a dire con ciò che è comune [al padre]», e dato che l’amico è già stato riappropriato, e per giunta «non essendoci state ancora le nozze», Frieda non può essere messa sul tavolo come posta di un eventuale rilancio di rivalità: nei piani di Georg, essa doveva fungere da perno dello scacco portato alla parte paterna (ricordiamo che, in quanto donna del figlio, essa è, almeno sulla carta, inappropriabile), ma, proprio in quanto non-ancora-moglie, non ancora inserita nel cerchio sanguigno della mediazione reciproca, la sua posizione sulla scacchiera era altamente precaria, «esposta a rivoluzioni russe», e pertanto doveva essere difesa dagli assalti simbolici del padre saldando la sua figura alla soluzione del problema con l’amico in Russia (allora non ancora riappropriato), del cui felice esito ella era quindi presentata come artefice agli occhi del padre, nella più completa esclusione di quest’ultimo. Ma siccome appunto l’amico è appena stato riappropriato dal padre, ella ora è sola e indifesa, ed è quindi «facilmente scacciata dal padre» (2). Come? Con quello stesso discorso squalificante e offensivo che, stando alla Lettera al padre, lo stesso Kafka dovette ascoltare più di una volta: «Perché ha alzato le sottane, cominciò con voce flautata il padre, “perché ha alzato le sottane a questo modo, quell’oca ripugnante” e per rappresentare la scena si tirò su la camicia tanto da scoprire sulla coscia la cicatrice della ferita riportata in guerra, “perché ha alzato le sottane così e così, ti sei fatto innanzi, e per poterti saziare indisturbato hai profanato il ricordo di tua madre, tradito l’amico e ficcato a letto tuo padre, perché non si potesse più muovere». Se si ricorda un altro passo della Lettera al padre, citato nell’articolo La mediazione impossibile, è prassi consueta del padre di Kafka ripartire il mondo nelle regioni del vizio e della purezza, e comminare al figlio l’esilio senza ritorno nelle prime: «Se al mondo ci fossimo stati solo Tu e io (idea cui ero molto vicino) con Te avrebbe avuto fine tutta la purezza del mondo, mentre da me sarebbe cominciata l’oscenità» (3). È così che il reame paterno è preservato dalle invasioni barbariche del figlio: il rivale è relegato nel deserto dell’indegnità, il Canaan della verità è riservato al Padre totemico, che non potendosi appropriare tutte le donne, come voleva Freud, si prende letteralmente tutto il resto del dominio simbolico. La mossa è più che vincente, e il padre della condanna, «raggiante nel suo acume», celebra il suo trionfo danzando scompostamente. Più avanti, ancora più saldo nel suo trionfo, il vecchio padre inviterà Georg a presentarsi al suo cospetto accanto alla fidanzata ormai innocua: «Prendi pure a braccetto la tua fidanzata, e vienimi incontro! Te la spazzo via dal fianco, e non sai come». La partita è stata vinta di nuovo dal padre: egli era, veramente, ancora un gigante.





***


(1) M. Zambrano, Il sogno creatore, SE, Milano 2017, cf. in particolare le pp. 137-146.

(2) Anni dopo, rievocando i suoi tentativi di sposarsi, Kafka ricorderà come il padre rispondesse alla notizia del suo ennesimo tentativo di matrimonio con parole di squalifica per la futura moglie che ricordano da vicino, anche se più temperate, quelle del racconto giovanile. «Quella avrà indossato una bella camicetta che la faceva carina, le ebree di Praga se ne intendono, dopo di che tu hai deciso naturalmente di sposarla» (da Confessioni e diari, op. cit., p. 681). Chissà quante volte una fanciulla o un amico di cui Kafka si era invaghito, presentati al padre, sono stati accolti con tanta sufficienza e spregio.

(3) Confessioni e diari, op. cit., p. 680.

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