Nell’ultimo articolo abbiamo sviscerato le tappe del ribaltamento simbolico che il padre opera sui “doni avvelenati” che il figlio porta al suo cospetto nel tentativo di sancire definitivamente la sua supremazia sul rivale anziano e infermo. Con la violenza che deriva dalla consapevolezza dell’influsso quasi magico che il suo discorso ha sul figlio, il padre derealizza completamente il mondo di rapporti strutturato dal figlio e si riappropria di tutte le poste – oppure le «spazza via dal fianco» senza fatica, come avviene per la fidanzata Frieda. Prima di vedere come si conclude l’infelice tentativo di rivoluzione dell’ingenuo Georg, torniamo un istante a considerare la figura dell’amico in Russia, integrandone l’analisi con alcune riflessioni di Girard.
L’amico in Russia può essere accostato a quello che Girard ne La violenza e il sacro definisce “kydos”. Al parossismo del conflitto mimetico, laddove la doppia mediazione ha completamente indifferenziato i ruoli e le polarità, si produce un “talismano di supremazia” (così come ne riferisce Benveniste nel Vocabolario delle istituzioni indoeuropee), un oggetto simbolico determinante il prestigio il cui possessore «vede decuplicata la propria potenza, mentre coloro che ne sono privi hanno le braccia legate e paralizzate» (1). Allo stesso modo, ne La condanna, fino a metà del racconto Georg detiene il kydos, ovvero si mostra come custode e volto luminoso della comunione con l’amico in Russia (e di tutte le cose comuni), mentre il padre pare soccombere alla monopolizzazione del discorso che Georg produce nei confronti del presunto amico: il padre viene infatti manipolato come un invalido, portato di peso a letto e messo sotto le coperte. «Possiede sempre il kydos colui che ha dato il colpo più forte, il vincitore del momento, colui che fa credere agli altri e può egli stesso immaginarsi che la sua violenza ha definitivamente trionfato» (2). Sappiamo già dalla nota più volte citata che il trionfo di Georg non si eserciterebbe solo sull’amico in Russia, o meglio sappiamo che la figura dell’amico, tra le altre cose, cela il legame con tutto il mondo paterno (azienda, madre, clientela): esso funge quindi da autentico trofeo o talismano di supremazia – e proprio la condensazione di tutte le poste nel plesso simbolico che lo riguarda lo rende così precario, esposto a «rivoluzioni russe». «L’oscillazione del kydos è il rapporto tra dominante e dominato che non cessa di invertirsi, non lo si può ricondurre alla dialettica del padrone e dello schiavo poiché non ha stabilità alcuna, poiché non comporta alcuna risoluzione sintetica… al limite, il kydos non è niente». L’amico in Russia, soprattutto nella parte conclusiva del racconto, rivela sempre più la sua natura di fantasmatica posta in gioco, controllando la quale la comunione si configura come il dominio esclusivo di uno dei due contendenti. La sua natura aleatoria e sottile, come di riflesso, ha il potere di mostrare quanto sia confuso, agitato e vano il continuo movimento dei contendenti per occupare una posizione definitiva: l’essenza del gioco, infatti, sta proprio nella sua dinamica infinita. Non vi può essere riconoscimento, poiché non ci troviamo appunto in una configurazione dialettica: solo il riconoscimento altrui potrebbe fermare definitivamente il teatro dei doppi e la delirante corsa al mascheramento. Ma non è questa la storia di Georg e suo padre: in assenza di riconoscimento, a valere è sempre la legge del più forte – cioè del padre. Alla fine del contrattacco, il kydos è in mano al padre, la fidanzata è spazzata via, e Georg è solo di fronte al titano erto nella sua infinita potenza.
Georg è letteralmente all’angolo («s’era rifugiato in un cantuccio»), la partita è persa. Con geniale estemporaneità, Kafka accenna a un «proposito da tempo dimenticato», che risovviene a Georg in quel preciso momento, ma che è subito dimenticato, «come quando si fa passare dalla cruna di un ago un filo troppo corto». L’impressione che se ne riceve, leggendo, è di una completa derealizzazione, una rovinosa perdita di presa sulla realtà, la cui vorticosa fluttuazione, affatturata dalle rivoluzioni simboliche del padre, toglie letteralmente il terreno sotto i piedi a Georg. È interessante notare come l’effetto di derealizzazione del mondo narrativo cresca proporzionalmente e simultaneamente al divampare dell’indifferenziazione mimetica. Girard stesso ne parla in Menzogna romantica e verità romanzesca: «a mano a mano che la funzione del metafisico si ingrandisce, nel desiderio, la funzione del fisico diminuisce. Più il mediatore si avvicina, più la passione si intensifica e l’oggetto si svuota di valore concreto. (…) il progressivo assottigliamento del reale non avviene senza l’esasperazione delle rivalità che il desiderio genera» (3). Seguendo lo schema girardiano di Menzogna romantica, siamo obbligati a collocare Kafka tra quegli scrittori che esplorano il destino del desiderio mimetico in maniera così radicale da riuscire a plasmare tutto il mondo narrativo a partire da quel nucleo di senso. Se in Dostoevskij ci si trova immersi nella polifonia di voci, in Kafka resistono solo dettagli vividi di un mondo totalmente slabbrato, privo di confini, costantemente mutevole. In Kafka è possibile apprezzare, in maniera quasi parossistica, come i flussi di desiderio, nella loro massima liquidità, mettano sotto scacco la soggettività idealistica, la quale tende a rarefarsi nella misura in cui la concretezza del reale (ossia l’irruzione del desiderio e del discorso dell’altro) ritrova la sua piena oggettualità.
In preda all’eccesso dell’indifferenziazione mimetica il padre, tronfio per la propria supremazia, si lascia andare a un idealismo speculare a quello di Georg proclamandosi “difensore” dell’amico in Russia. Al che Georg, chiaramente indispettito dalla sicurezza eccessiva del padre – che rispecchia quella del suo idealismo – lo accusa, in maniera contraddittoria, di essere un “commediante” «ma si rese subito conto di aver fatto una mossa sbagliata e si morse la lingua». Per una soggettività che si vuole idealisticamente totalitaria non vi è scandalo più insostenibile del vedere il proprio rivale mimetico imitarlo: dare del commediante al padre significa attribuirsi la medesima colpa e il dolore di quel morso ne rivela l’esiziale fondo di verità. Come un riflesso pavloviano il padre restituisce a Georg la “cattiveria” del suo autismo idealistico, recitando la parte del padre sofferente costretto ad ammirare la gioia del figlio che «se ne andava lieto per il mondo, conchiudendo affari che io avevo preparato, facendo salti dalla gioia, passando dinanzi a suo padre con la faccia compunta di un galantuomo!». La mossa del padre è di un’astuzia diabolica e ci permette di focalizzare l’attenzione sul senso del processo di derealizzazione nello schema narrativo kafkiano. Nel momento in cui il padre pronuncia la domanda «credi forse che non ti ho amato, io, da cui tu sei nato?», offre a Georg una possibilità di resa al suo discorso, curvandosi in avanti come verosimilmente altre volte era già successo in passato: infatti Georg lo prevede («ora si piegherà in avanti») ma il gesto di falsa ospitalità colonizzante viene subito riletto dalla totalità discorsiva di Georg come speranza che il padre cada e si fracassi. Ma il padre cade solo nel desiderio del figlio pertanto «vedendo che Giorgio non s’avvicinava, [il padre] si raddrizzò ancora». Questo attimo rivela come la lotta dei doppi sia in fondo una guerra tra due posizioni idealistiche che, per esistere, devono assicurarsi della più completa nullificazione dell’altro. La scrittura e le riflessioni di Kafka saranno sempre agitate dal tema di una libertà spirituale in grado di schiacciare l’ostacolo esterno ma, a questo livello della sua attività di scrittore, tali istanze eminentemente filosofiche o astratte restano vincolate allo schema simbolico dello scandalo mimetico originario. In tale attimo di rivelatività il dispositivo della narrazione kafkiana viene tradito dal pensiero del suo avatar Georg: egli, infatti, vorrebbe produrre idealisticamente il reale, vorrebbe togliere l’esistenza all’ostacolo paterno anticipando col desiderio il farsi stesso del racconto. Ma l’alterità resiste, il padre resiste: «vedendo che Giorgio non s’avvicinava, si raddrizzò ancora». Questo semplice evento è narrato dal punto di vista dell’istanza paterna proprio un istante dopo essere stato interpretato dall’istanza di Georg come sogno di caduta. La rapidità con cui si alternano le posizioni testimonia la frenesia della crisi mimetica in atto, testimoniando la sotterranea lucidità del Kafka narratore.
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(1) R. Girard, La violenza e il sacro, Adelphi, Milano, p. 212.
(2) Ibid. p. 212-13.
(3) R. Girard, Menzogna romantica e verità romanzesca, op. cit., p. 75.
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