top of page
Immagine del redattoreGruppo Studi Girard

Le moderne fiabe di Andersen | Parte 4: Capri espiatori e la verità degli ultimi

Aggiornamento: 19 nov 2020





Il dramma del meccanismo del capro espiatorio, apice di quello della violenza, è onnipresente nell’opera di Andersen, in particolare proprio nelle fiabe più famose. Sarebbe stata una mera formalità teorizzarlo, ma la critica moderna non è capace di vedere nulla di reale nella letteratura. Spaventata anche solo dall’idea di questo presunto “salto metafisico”, deve confinare ogni problematica nella psiche dell’autore.

Così succede che Il brutto anatroccolo diventa il racconto di una psicopatologia, come se fosse il protagonista a convincersi che è brutto e ad auto-condannarsi.

Quando l’anatra presenta i suoi figli al pollaio, tutti uguali tranne uno,


«le altre anatre lì intorno li guardarono e esclamarono: “Guardate! Adesso arriva la processione, come se non fossimo abbastanza, e, mamma mia com’è brutto quell’anatroccolo! Lui non lo vogliamo” e subito un’anatra gli volò vicino e lo beccò sulla nuca. “Lasciatelo stare” gridò la madre “non ha fatto niente a nessuno!” “Sì, ma è troppo grosso e strano!” rispose l’anatra che lo aveva beccato “e quindi ne prenderà un bel po’!”» (H. C. Andersen, Fiabe, Mondadori, Milano 2012, p. 187)


Per l’ennesima volta dobbiamo ribadire che la narrazione di Andersen è tanto limpida da non lasciare alcun appiglio: nulla accade nella “psiche” di qualcuno, ma è tutto lì “fuori”. La situazione è già tesa, questo lascia intendere la polemica sui nuovi arrivati (polemica dai toni famigliari per noi italiani e non solo per noi): serve solo un capro espiatorio su cui sfogarsi e quello brutto e diverso da tutti è perfetto per questo ruolo. L’unico elemento poco realistico della vicenda in effetti è proprio che non si mascheri minimamente il meccanismo: alla difesa presentata dalla madre non si risponde con qualche scusante anche solo vagamente convincente. Sarebbe potuto sembrare un eccesso di zelo da parte dell’autore, ma a fronte del fatto che non è stato comunque compreso, non lo si può certo rimproverare.

Sottolineiamo che anche il cigno è uno degli ultimi nel senso definito nel precedente articolo: certamente è anche capro espiatorio, ma l’essenziale è che non viene definito dalla violenza (Edipo, tanto per restare nel solito metro di paragone, invece sì). Non grazie a iniezioni di autostima; anzi, è proprio nel momento in cui cede alla tentazione, vuole abbondarsi alla morte sacrificale in onore ai bellissimi cigni («“Uccidetemi!” esclamò») e abbassa lo sguardo, che scopre nel riflesso dell’acqua la verità: lui è uguale a loro. Se la menzogna è all’origine della violenza, è la verità a definire gli ultimi e non viceversa.



Le fiabe di Andersen sono così: oscillano fra una rappresentazione chiara e inequivocabile e il recupero di una narrazione più mitica nel senso di tradizionale. D’altra parte è pioniere in questo campo e forse si può anche pensare che sia stato intenzionale: le une servono come chiave di lettura delle altre, indicandoci quindi che sono un’interpretazione di tutta la tradizione.

Non dobbiamo dunque troppo stupirci se in Il tenace soldatino di stagno non compare nessuna folla, solo un cattivo troll e le disavventure sembrano accadere per caso. Le analogie tra il brutto anatroccolo e il soldatino senza una gamba non possono certo essere casuali: entrambi si distinguono dal resto del gruppo di “fratelli” per segni vittimari, entrambi sono odiati, entrambi a un certo punto si ritrovano espulsi ed è da quel momento che iniziano le disavventure. Semplicemente con il secondo si recupera il linguaggio del mito: il soldatino viene misteriosamente scaraventato giù dalla finestra, iniziano le peripezie sulla sua barchetta, viene ingoiato da un pesce e alla fine bruciato.

Tutti hanno notato che oltre a essere definito dal segno vittimario, l’assenza di una gamba, lo è anche dalla sua tenacia, ma potrebbe essere interpretata come un’accettazione, in senso sacrificale, del male. A ben guardare, invece, è il pensiero rivolto alla graziosa ballerina a tenere a galla il soldatino:


«Ah, se solo la fanciulla fosse qui sulla barca con me, allora non mi importerebbe che fosse anche più buio» (p. 102)


La sua tenacia si esprime nel custodire questo legame. Dopo la fiamma che pone fine alla sua storia e a quella della ballerina, è proprio il suo cuore a sopravvivere, accanto al lustrino dell’amata: un segno tangibile che se nemmeno la violenza distruttrice lo ha definito, è perché non ha spezzato quel legame.



Possiamo quindi comprendere l’attenzione di Andersen per gli emarginati e i capri espiatori: nessuna solidarietà partitica e risentita lo muove, come si diceva all’inizio del nostro percorso, ma l’intuizione che spesso sono proprio loro quegli ultimi, che non si lasciano definire dalla violenza. Egli sottolinea che sia il cigno sia il soldatino tornato a casa non si sono insuperbiti: non sta affatto giustificando la sofferenza perché sarebbe educativa (come hanno creduto in molti), sta dicendo che solo se non le si risponde a tono (ma ciò può sempre accadere e in alcune sue fiabe, più tradizionali, che non analizziamo, succede proprio questo), allora non si è definiti da essa. Questo è certamente un fattore fondamentale per poter invertire la dinamica.

L’altro è evidentemente l’ancorarsi alla verità, che può costituirsi a partire da un semplice riflesso dell’acqua, come da una profonda relazione amorosa. È ciò che Andersen difende: la verità contro la menzogna, non il debole contro il forte né una vita sofferta contro una comoda.

È questo l’unico tema della fiaba Non era buona a nulla, esempio facilmente fraintendibile nel senso appena esposto, eppure non meno trasparente.


«Non è buona a nulla: fa proprio pena questa gente! Di’ a tua madre che dovrebbe vergognarsi, e non diventare anche tu un ubriacone; ma tanto lo diventerai di sicuro! Povero ragazzo, vai adesso!» (p. 412)


Così sentenzia il giudice davanti al protagonista. Non è falso che la donna guadagna molto poco e beve, ma la verità nascosta è che lavora come lavandaia tutto il giorno, benché malata, finché quasi «esce il sangue dalle unghie», per mantenere il figlio, e per sopravvivere all’acqua gelida del ruscello beve vino per scaldarsi: il protagonista, semplicemente perché conserva il rapporto con lei, lo sa.


105 visualizzazioni0 commenti

Comments


bottom of page