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Immagine del redattoreGruppo Studi Girard

Le trasposizioni dell’opera di Tolkien | Focus sul tema del desiderio e della tentazione



Ad ogni trasposizione sul grande o piccolo schermo si accende il dibattito. Oltre alla valutazione del livello qualitativo del lavoro in sé infatti, si aggiunge anche il confronto con il libro a cui si riferisce. Succede sempre, l’opera di Tolkien non fa eccezione, se non per il fatto che la sua notorietà chiama in causa un pubblico e uno stuolo di “critici” molto più vasto rispetto alla media.

Succede sempre, perché se tradurre da una lingua a un’altra significa tradire, tanto più nel passaggio da una forma artistica ad un’altra è un fatto strutturale che non si possa restare fedeli, se con “fedeli” si intende seguire pedissequamente la narrazione del libro. Forse si potrebbe sostenere che sarebbe addirittura sbagliato provarci. Di un prodotto da fruire su uno schermo sono diverse le esigenze, in primis sul piano formale i tempi e i ritmi. Per questo probabilmente i migliori realizzati non sono quelli che hanno spiccato per fedeltà.

Ma come è stato giustamente fatto notare, ciò non comporta che non si debba almeno rispettare il significato del libro. Cambia la modalità comunicativa, ma non c’è motivo di tradire il contenuto profondo. Se si vuole dire altro, si può inventare una propria storia in un proprio mondo, ma prendere quella di qualcun altro per mandare un messaggio contrario è oggettivamente uno sgarbo nei confronti dell’autore del libro, che solo il vantaggio economico dato dallo sfruttare un successo commerciale già affermato può giustificare.

A partire da simili considerazioni, già tantissimo è stato scritto facendo il confronto tra libri di Tolkien e trasposizioni su diversi temi. In questo blog dedicato a un critico letterario, Girard, che specialmente su quello del desiderio ha incentrato i suoi studi, vogliamo sviluppare su di esso il confronto con le due trilogie cinematografiche, Il Signore degli Anelli e Lo Hobbit, più l’appena uscita prima stagione della serie televisiva Gli Anelli del Potere.



Seguendo l’ordine di produzione, partiamo dai film de Il Signore degli Anelli. In un articolo dedicato al libro di Tolkien abbiamo argomentato come il desiderio per l’Unico Anello insorga nella misura in cui insorge quello di emulare la grandezza del suo padrone, cioè Sauron. Il professore inglese sarebbe dunque da annoverare tra i grandi scrittori che secondo Girard hanno compreso come la struttura del desiderio non sia lineare, qualcosa che lega soggetto e oggetto, ma triangolare: c’è anche un mediatore, che indica che proprio quell’oggetto merita di essere desiderato.

Che non si tratti di una questione meramente teoretica, proprio un’opera come quella di Tolkien lo evidenzia, tanto più che mostra che è proprio il rivale ad assumere il ruolo di mediatore (mentre Girard tende a soffermarsi sulla dinamica contraria, in cui il mediatore diventa in un secondo momento rivale). La vera natura della tentazione è rappresentata dalla brama per l’Anello non perché il desiderio si rivolge a un oggetto “malvagio” secondo una visione manichea, ma perché imita la brama del Nemico.

Se attribuire al libro questo messaggio può lasciare perplesso chi ha visto solo i film o ha comunque meglio in mente quelli, ciò dipende dal fatto che essi ne presentano uno esattamente opposto.

Laddove nel libro, quando Frodo offre a Gandalf l’Anello, questi risponde che non desidera “eguagliare” l’Oscuro Signore, nel film si limita a dire che “eserciterebbe un potere troppo grande e terribile”. Laddove nel libro Elrond in maniera molto didascalica spiega a Boromir che qualora l’uso dell’Anello permettesse di sconfiggere Sauron, ciò si otterrebbe al prezzo di essere diventato a propria volta un nuovo Oscuro Signore, nel film l’ipotesi semplicemente non è contemplata e viene soltanto affermato a più riprese che dell’Anello solo Sauron può servirsi. La scena in cui si mostra che la decisione di Gollum di riprendersi l’Anello coincide con la delirante illusione di potersi sostituire all’Oscuro Signore e la scena di Sam che viene tentato dall’Anello con l’immagine di lui nuovo Signore di una Terra di Mordor trasformata in giardino nei film non ci sono.

L’unico personaggio nei film a parlare della tentazione di emulare la grandezza di Sauron è Galadriel, ma essendo l’unico caso, esso non appare come la conferma di una regola, ma come l’eccezione che ne conferma un’altra. Nei film la visione espressa è quella manichea, che vede la radice del problema proprio nel fatto che il desiderio si rivolga a un oggetto “malvagio”.

Peraltro il rifiuto di mostrare Sauron come mediatore, come il vero tentatore, causa la comparsa sullo schermo di una dinamica assurdamente contraddittoria. Si osserva fin dalla scena in cui, per prendere l’Anello lasciato per terra da Bilbo, Gandalf allunga le dita. Compare per un istante l’Occhio che lo induce a ritrarle. Al netto del fatto che non ha senso che Sauron si sveli e nemmeno che Gandalf comunque non si convinca ancora che quello è l’Unico Anello, perché cacciare via quelle dita?

Anche Frodo quando indossa l’Anello è spaventato dall’Occhio ed è indotto a toglierlo. Perché l’Anello invita a essere indossato, mentre Sauron spaventa inducendo a fare l’esatto contrario? Invece che essere un tutt’uno, le due volontà non sembrano andare molto d’accordo.

L’abitudine a pensare che il padrone non sia il tentatore, ma colui che invita a stare alla larga dal proprio oggetto, è l’unica spiegazione della comparsa sullo schermo di una dinamica che ne Il Signore degli Anelli non ha senso. In compenso diventa impossibile la trasposizione di scene come quella di Sam che utilizza l’Anello per rendersi invisibile agli Orchi di Cirith Ungol, salvando così la propria vita e quella di Frodo: un oggetto “malvagio” non può servire a qualcosa di buono.



Quanto appena analizzato, non cancella minimamente il fatto che la trilogia cinematografica de Il Signore degli Anelli sia sotto il profilo tecnico un capolavoro che ha fatto la storia, ma proprio questo ha comportato che anche la sua visione manichea è stata in qualche modo consacrata. Da quel momento sullo schermo non è detto che si riesca a godere dello stesso livello tecnico, ma è estremamente probabile che si assisterà al riproporsi di quella stessa visione.

Infatti, benché ben tre film siano stati prodotti anche per Lo Hobbit, guarda caso non compare la scena del furto della coppa da parte di Bilbo che provoca un’ira spropositata in Smaug, commentata nell’articolo dedicato al libro, perché in maniera emblematica evidenzia come un mediatore può accendere il desiderio persino per qualcosa di insignificante.

In compenso, pur di avvallare una visione manichea, in cui il problema sarebbe sempre il “cattivo” oggetto desiderato, si inventa che il tesoro sotto la Montagna è ormai maledetto ed è per questo motivo che Thorin impazzisce. Per ragioni ignote la maledizione colpisce solo il Re sotto la Montagna, mentre risparmia tutti gli altri Nani.

Ormai avvallato con la trilogia precedente che basta una prolungata inquadratura in slow motion su un oggetto per giustificare l’accendersi della brama per esso, o meglio, per non dover giustificare quella brama, come se l’immagine in sé rendesse tutto auto-evidente, la tecnica viene ripresa per Lo Hobbit e viene mostrato Thorin che tanto più indugia a fissare il tesoro tanto più diventa avido, quando il buon senso suggerirebbe che il continuo scorrere del tempo insinua più spesso la noia.



Arriviamo infine alla serie televisiva Gli Anelli del Potere. Sicuramente non ha attenuanti per aver maltrattato la sua protagonista, Galadriel, al punto da farle venire la brillante idea di tornare indietro a nuoto quando è già in prossimità di Valinor, o da lasciarla in un villaggio incenerito dal Monte Fato ma con ancora i suoi bei capelli d’oro, o da farle ricordare di aver perso non solo un fratello ma anche un marito dopo sette puntate, ma l’esser partiti dai prodotti cinematografici precedenti permette almeno di cogliere che se le attribuisce una certa schizofrenia – un giorno è ferocemente manichea, il giorno dopo predica contro il manicheismo – è perché a sua volta risente in maniera sintomatica di un problema che non inventa, ma eredita.

Dopo tanti successi che hanno consacrato certi stereotipi, a ben guardare si può essere comprensivi e sostenere che tutto sommato Galadriel non avrebbe potuto che raccontare la Guerra contro Morgoth come una crociata contro il Male e non una vile contesa a causa della brama per i Silmarill (anche la vicenda di Melkor e Fëanor è stata approfondita in un articolo dedicato). Risulta semplice conseguenza di ciò che lei non può essere mossa dal desiderio di ricevere il perdono dei Valar e di tornare a Valinor dal momento che all’interno della nuova versione degli antefatti della serie televisiva non c’è niente da perdonare, mentre al contempo non c’è motivo di biasimare il desiderio di vendetta contro Sauron, che in questa crociata coincide con l’adempimento del proprio dovere.

Date le circostanze, è effettivamente apprezzabile che si cerchi di risolvere il problema facendo in modo che sia una nuova figura ad affrontarlo, Adar: grazie a lui per la prima volta sullo schermo viene insinuato lo scandaloso sospetto che il rivale, il nemico, possa svolgere un ruolo di mediatore. In questo modo per un istante viene da pensare che l’esibita ipocrisia di Galadriel non è altro che la denuncia di quale assurdo problema la serie televisiva è stata costretta ad ereditare non a causa di Tolkien, ma a dispetto di lui.

Eppure proprio con la creazione dei Tre Anelli, che dovrebbe essere il culmine della prima stagione, si assiste al tradimento ultimo del professore, il più grave anche perché con meno attenuanti. Se infatti quell’evento dovrebbe significare la ricaduta del desiderio, Girard lo chiamerebbe “metafisico”, in una vanagloriosa emulazione per realizzare una copia del Reame Beato nella Terra di Mezzo, emulazione ovviamente incentivata dal mediatore Sauron, nella serie televisiva viene presentato l’esatto contrario: i Tre Anelli rispondono a un bisogno “reale”, “oggettivo”, quello della sopravvivenza degli Elfi. Di nuovo il manicheismo si impone, come sempre grossolanamente, questa volta per esaltare la purezza di una certa materia.



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