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Tolkien, The Hobbit | Bilbo, Thorin, Smaug: psicologie interdividuali

Aggiornamento: 2 gen 2023



«“As soon as I clapped eyes on the little fellow bobbing and puffing on the mat, I had my doubts. He looks more like a grocer than a burglar!” Then Mr. Baggins turned the handle and went in. The Took side had won. He suddenly felt he would go without bed and breakfast to be thought fierce. As for little fellow bobbing on the mat it almost made him really fierce»


L’aspetto forse più sorprendente di un racconto come The Hobbit consiste nella sensazione che mentre si narra di un’avventura fantasiosa, i cui molteplici personaggi sono di tutti i tipi, ma quasi nessuno umano, si descriva e si porti alla luce qualcosa di profondamente vero della nostra realtà più quotidiana. Viene da pensare che ciò dipenda dal fatto che Hobbit, Nani, Stregoni, Draghi, ecc. rappresentino ognuno con le proprie caratteristiche specifiche un “pezzo” di Realtà, invece a ben guardare è corretto l’esatto contrario. Se infatti avessimo davvero a che fare con un’operazione analitica e astraente del genere, non ci verrebbe restituito nient’altro che una versione della Realtà dissezionata, i cui singoli “pezzi” rischierebbero fortemente di apparirci stereotipati. Invece non è questa la sensazione.

A ben guardare è piuttosto l’esplorazione di come al di sotto delle differenze specifiche, persino le più nette che l’immaginazione possa proporre, quelle tra “razze” diverse, tutti i personaggi si costituiscano come soggetti, nella loro psicologia, attraverso le relazioni con gli altri e le esperienze che vivono insieme, a cogliere qualcosa di profondamente essenziale della nostra Realtà, abbracciata nella sua concreta interezza.

Fin dal primo capitolo del libro ci viene mostrato in maniera chiara. Il protagonista è uno Hobbit senza una sua “natura” già precostituita, in lui c’è sia un lato Baggins sia uno Tuc, perché discende da queste due famiglie, ma come si andrà a costituire come soggetto non dipenderà né dalle sue origini e nemmeno da una sua decisione presa “dentro” di sé. Come non è Bilbo a invitare nella sua casa dei Nani, ma Gandalf, non è nemmeno lui a stabilire autonomamente chi egli stesso sarà: sono le parole di Gloin, non perché siano persuasive e ammalianti, ma al contrario in quanto, senza che nemmeno sia voluto, con loro aperta ostilità lo sfidano, a fargli desiderare di essere un avventuriero e uno scassinatore.



«“All the same, I should like it all plain and clear,” said he [Bilbo] obstinately, putting on his business manner (usually reserved for people who tried to borrow money off him), and doing his best to appear wise and prudent and professional and live up to Gandalf’s recommendation» [corsivo nostro]

È innanzitutto nella relazione con lo Stregone che lo Hobbit costituisce la propria soggettività. Come alle origini Ilúvatar aveva istaurato un rapporto maestro-discepolo con gli Ainur, così ora anche Gandalf “propone un tema”, un’avventura. Quella dinamica che nell’Ainulindalë in maniera apparentemente dogmatica era stata indicata come sorgiva addirittura del Mondo, ora prende corpo in un contesto molto più vicino al nostro quotidiano, dove rivela e conferma la sua capacità generativa: lo Hobbit e i Nani crescono seguendo Gandalf e in seguito anche attraverso l’amicizia tra loro, in quanto sono soggetti, le cui psicologie non sono monadi individuali e predeterminate dalla loro “natura”, ma interdividuali (1) e plasmate dai rapporti con gli altri individui, e all’unisono producono la grande storia che in questo libro viene narrata e mutano il mondo stesso in cui insieme agiscono.

Anche la grazia, che tiene sempre aperta la possibilità di un lieto fine nonostante tutti i limiti dei personaggi, pur continuando ad agire per vie misteriose come capitava in The Silmarillion, ora si inserisce in questo contesto di psicologie interdividuali e s’incarna nel più famigliare volto dell’altro. Non accadrà solo tramite il maestro Gandalf, anzi: alla fine per Thorin, altro soggetto che fin da subito si mostra condizionato dagli altri, ma nel cui caso si tratta dell’immagine opprimente degli avi, dei quali desidera essere degno erede, succederà con l’amico Bilbo.



«Thieves! Fire! Murder! Such a thing had not happened since first he [Smaug] came to the Mountain! His rage passes description—the sort of rage that is only seen when rich folk that have more than they can enjoy suddenly lose something that they have long had but have never before used or wanted»


In The Hobbit tutte le psicologie sono interdividuali, persino quella del Drago, ma ovviamente non sempre la compresenza dell’altro genera crescita e apre a una possibilità di salvezza: può anche causare scandalo e rivalità, da cui deriva un desiderio possessivo per gli oggetti esposti al rischio di essere contesi.

A riguardo proprio di quest’ultimo tema, tra i più celebri della narrativa di Tolkien, il caso della coppa per certi versi appare come l’esempio più emblematico – o più semplice – per cogliere la finezza psicologica dello scrittore, tutt’altro che ideologico o dogmatico. Per quanto si possa pensare che l’oggetto sia prezioso, come può accendere tanto desiderio, quindi tanta collera per la sua perdita?

La situazione in questo caso è ancora più paradossale: per chi è tanto ricco da possedere l’intero tesoro sotto la Montagna il valore intrinseco della coppa non può che essere insignificante. Se poi è un Drago non potrebbe mai farsene nulla. In fondo non l’ha mai desiderata, prima di perderla. Ma allora?

Tolkien non è ideologico né dogmatico: è lui stesso a esplicitare il paradosso. Consapevole che l’automatismo è sempre quello di concepire un soggetto dalla psicologia individuale che viene irretito da chissà quale fascino di qualcosa, invita a distogliere l’attenzione dal valore intrinseco dell’oggetto e a spostarlo sulla dinamica della perdita.

A ben guardare questa non è un tipo di perdita qualunque: lo palesa la prima parola del capoverso, la più importante. Si dice che la collega sia cieca, invece ci vede fin troppo bene e ha già fin da subito individuato la presenza invasiva degli altri prima ancora che gli occhi li scovino: “ladri!”

Smaug non è solo. In una simile collera nessun soggetto potrebbe mai esserlo. La sua psicologia non può che essere interdividuale, perché solo la dinamica del furto, segno della compresenza in una forma scandalosa di altri individui, altri che osano manifestare in maniera rivalitaria il desiderio di possesso per ciò che è proprio, può svegliare di rimando tanta improvvisa possessività.



«“For the Arkenstone of my father,” he [Thorin] said, “is worth more than a river of gold in itself, and to me it is beyond price. That stone of all the treasure I name unto myself, and I will be avenged on anyone who finds it and withholds it”»


La morte della figura del mostruoso della fiaba, del Drago, non produce il lieto fine, perché ciò che provoca rivalità e conflitto in realtà è la compresenza di desideri, che s’influenzano e alimentano a vicenda l’ossessione per stessi oggetti. Paradossalmente la quiete c’era prima, con Smaug: in quella desolazione intorno al tesoro, che teneva distanti tutti i desideri, ogni competizione per esso era assopita insieme con il suo guardiano, figura quindi non solo del mostruoso ma anche del sacro, del sacro proprio perché del mostruoso. Infatti non appena egli è morto, subito inizia la gara.

Ognuno è pronto a ribattere alle buone ragioni dell’altro con le proprie altrettanto buone. La consapevolezza dell’autore di come a dispetto dell’apparente solipsismo sordo di ciascuno in realtà tutte le psicologie siano interdividuali, si coglie nell’imparziale descrizione che mostra come tutti in fondo si imitino: sentendosi minacciati tutti minacciano e la colpa della crescente ostilità è sempre dell’altro.

In effetti Thorin appare come il più ossessionato e ostile di tutti, ma ciò non è dovuto né alla sua “natura” e nemmeno, ancora una volta, al valore intrinseco di un oggetto, sia pure l’Arkengemma, che infatti viene vista e apprezzata anche da altri personaggi. Egli stesso dice che essa per lui non ha prezzo. Cioè non ha un valore che sia misurabile, quando invece non potrebbe non averlo se si potesse calcolare sulla base delle caratteristiche intrinseche dell’oggetto, fosse pure esorbitante quanto un fiume d’oro. Ma allora da cosa deriva il suo valore?

Quella non è semplicemente l’Arkengemma, Thorin lo mette in chiaro: è l’Arkengemma di suo padre. Ciò che differenzia davvero questo Nano da tutti gli altri contendenti, è che nella sua psicologia non gioca solo un ruolo la rivalità con gli altri, ma pesa anche innanzitutto l’immagine dei suoi avi, di cui desidera eguagliare la grandezza. La maniera più immediata è tramite il possesso dei loro stessi oggetti. Qualsiasi attributo di un oggetto ha un corrispettivo in oro, una relazione come quella con il proprio padre non potrebbe mai averlo.



In questa escalation di rivalità persino il gesto di Bilbo di offrire una possibilità di riconciliazione tra le parti facendosi lui capro espiatorio, in quanto ladro dell’Arkengemma e accettando di spartire la quattordicesima parte del tesoro che avrebbe dovuto spettargli con gli Uomini e gli Elfi, fallisce. La guerra è ineluttabile.

In compenso, ennesimo paradosso solo apparente, sono gli Orchi e i Mannari nella loro ingenua furia vendicativa a riunire i rivali contro di loro (2). Eppure non è nemmeno la sconfitta di queste altre figure del mostruoso a dare alla storia un lieto fine, che rischia di non arrivare a causa del prezzo pagato per raggiungere la vittoria finale.

Invece prima di morire, a Thorin è concesso di rivedere Bilbo. È nel riaccogliere la relazione positivamente costituente con l’altro, la cui compresenza torna ad essere fondamento di una vera amicizia, che può ritrovare se stesso, libero da qualsiasi immagine produca scandalo. È nel riconciliarsi con l’amico ritrovato che si riappacifica anche con se stesso, non più gravato dal peso dell’immagine dei suoi avi.



(1) Il termine è coniato da René Girard in Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo


(2) Prima ancora che si giunga all’esito della Battaglia dei Cinque Eserciti, il fatto stesso che essa incominci è un madornale errore dello schieramento che la provoca: come The Silmarillion evidenzia ampiamente, un astuto stratega del calibro di Morgoth non si sarebbe mai intromesso nel mentre che i suoi nemici erano sul punto di distruggersi tra loro. In questo frangente si può cogliere la saggezza di Gandalf nell’aver avviato l’avventura prima che un Oscuro Signore prendesse il commando degli Orchi e li conducesse con maggior malizia.


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