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Tolkien, The Lord of the Rings | Perché Sauron è il protagonista

Aggiornamento: 2 gen 2023




In cerca di motivi per desiderare l’Anello

Ciò di cui Bilbo ha bisogno è di una vacanza fino alla fine dei suoi giorni. Questo continuo allungarsi della sua vita lo fa sentire “come del burro spalmato su di una fetta di pane troppo grande”. Perciò ha preso la sua decisione di partire e lasciare tutto a Frodo. Perché allora non quell’anello…?



«“Here it is in my pocket!” He hesitated. “Isn’t that odd now?” he said softly to himself. “Yet after all, why not? Why shouldn’t it stay there?”»


Date le premesse esposte dallo stesso Hobbit solo un attimo prima, questa domanda retorica è strana: egli dovrebbe chiedersi se c’è un motivo per tenere l’anello, non se c’è per lasciarlo.

Gandalf gli conferma che di quell’oggetto non avrà più bisogno, eppure le reazioni di Bilbo sono ancora più strane. Prima egli ribadisce la sua legittima proprietà: strano perché nessuno la sta mettendo in dubbio, non è – o non dovrebbe essere – questo il punto. Poi, messo di fronte all’inconsistenza delle sue presunte motivazioni per tenersi ciò che è suo, passa ad accusare l’interlocutore:

«“Well, if you want my ring yourself, say so!” cried Bilbo. “But you won’t get it. I won’t give my precious away, I tell you.” His hand strayed to the hilt of his small sword»


Se a prima vista verrebbe da interpretare queste parole come l’effetto della paranoia di chi è ossessionato da qualcosa che qualcuno gliela rubi, considerata la palese infondatezza di tale accusa e soprattutto come si arriva a formularla, nel momento in cui si è a corto di giustificazioni del proprio desiderio possessivo, è lecito sostenere che è corretta l’interpretazione esattamente contraria: Bilbo più che temere che Gandalf desideri l’anello, sembra desiderare che sia così. Se lo Gandalf desiderasse quell’oggetto, allora anche lo Hobbit sarebbe giustificato a desiderarlo e a difenderne la proprietà.

Il fatto è che per tutta la scena fino alla sua conclusione, quando una volta rinunciato all’anello Bilbo confida che effettivamente si è liberato di un peso, egli non riesce a trovare un solo motivo per continuare a possedere quell’oggetto. Eppure se lo ha cercato, il desiderio c’è stato realmente: ma allora perché?

Sollevare una questione del genere potrebbe sembrare bizzarro, nella misura in cui si sa già che quello si scoprirà essere l’Unico Anello. Invece proprio per questo è a maggior ragione pertinente: appare scontato che questo oggetto sia irresistibilmente desiderabile, perché nel corso della storia sono tanti i personaggi a bramarlo, eppure è sufficiente che Gandalf interpelli il primo di loro a comparire nel racconto, Bilbo, ed egli non riesce a sostenere nemmeno che sia davvero desiderabile, tanto meno che lo sia irresistibilmente.

Può essere allora che Tolkien non abbia dato per scontato il fenomeno del desiderio per tematizzare soltanto quello della tentazione, ma abbia sollevato il problema della seconda a partire da quello del primo.




Amore e odio


Scavando nel passato dell’Anello emerge che non solo non è così ovvio che esso venga bramato, ma non è nemmeno del tutto vero che la brama è l’effetto che suscita. Il tipo di legame che si istaura con questo oggetto è molto più complesso e tutt’altro che ovvio.

Gollum, racconta Gandalf, «hated it and loved it». I due sentimenti coesistono. Enfatizzarne solo uno dei due sarebbe arbitrario.

Dopotutto anche nello stesso Bilbo si riscontra una certa ambivalenza. Gandalf la ritrova persino nella pergamena in cui Isildur offre la sua testimonianza:



«It is precious to me, though I buy it with great pain»


Se il fattore si ripresenta sempre, allora è strutturale di quello specifico legame. Tanto è vero che Gandalf capisce che si tratta sempre dello stesso oggetto, prima posseduto da Isildur, poi da Gollum, poi da Bilbo, prima ancora di verificarne la scritta di fuoco.

Tutti, dunque, chiamano l’Anello “tesoro”, eppure se si confessano, hanno solo da descrivere le grandi sofferenze che esso provoca. Quindi non solo l’amore non è l’unico sentimento, ma dei due sembra quello molto meno giustificato rispetto all’odio: ma allora come può insorgere tanta brama, al punto da indurre quasi a credere che si possa dare per scontata?

Una pronta risposta potrebbe essere che l’Anello irretisce i soggetti con la sua magia. Ma ammesso che Tolkien voglia riproporre una concezione così arcaica di magia che agisce nella psicologia come nella natura agirebbe un’anonima forza fisica, non ci sarebbero personaggi che parlano del loro “tesoro”, solo romantici “Io” che lamentano come la loro volontà sia oppressa e piegata da un “non-io”. Questa ipotesi, che vorrebbe risolvere nella maniera più semplice la questione della brama, a ben guardare conduce invece alla conclusione esattamente contraria: se fosse corretta, il soggetto costretto dalla magia a volere l’oggetto non avrebbe nessuna brama, l’unico sentimento in una simile condizione sarebbe l’odio, per l’oggetto che schiavizza e per il proprio sé impotente. Si passerebbe dunque dalla considerazione che l’amore per l’Anello è scontato a quella che quest’amore in realtà non ci dovrebbe essere. Invece c’è.

Perciò, per quanto un senso di costrizione sia innegabile, come lo è il fatto che i soggetti provano effettivamente odio, questo oggetto deve in qualche modo suscitare un reale fascino perché possa generare una brama: ma come ci riesce?




Se il Signore dell’Anello è Sauron


Per comprendere pienamente il legame che si istaura tra l’Anello e i vari soggetti, bisogna soppesare con attenzione tutte le informazioni che su di esso forniscono i personaggi più competenti.

Gandalf dichiara che l’Anello ha una volontà. Quindi a maggior ragione è chiaro che esso non agisce con una forza anonima simile a una fisica, piuttosto riesce a sedurre. Ma il modo ancora non è chiaro.

Oltre a questa, un’altra informazione risaputa merita di essere soppesata. C’è infatti una scena, che sembra inserita nel libro solo per insospettire il lettore, per destare in lui domande su ciò che sembra scontato:


«“Hurray!” cried Pippin, springing up. “Here is our noble cousin! Make way for Frodo, Lord of the Ring!”

“Hush!” said Gandalf from the shadows at the back of the porch. “Evil things do not come into this valley; but all the same we should not name them. The Lord of the Ring is not Frodo, but the master of the Dark Tower of Mordor”»


Non capita spesso che un autore decida di essere così esplicito nello spiegare il titolo del suo libro. D’altra parte non capita nemmeno così spesso che il titolo di un libro sia dedicato non all’eroe della storia, ma all’antagonista, che quindi emerge come il vero protagonista.

Quindi è Sauron il protagonista della storia? Ma come può esserlo uno che passa tutto il suo tempo immobile in cima alla sua Torre Oscura? È davvero sufficiente che sia lui il Signore dell’Anello e pertanto il Signore di tutti gli Anelli?



In realtà a ben guardare, Sauron non è inattivo. Anzi, effettivamente è il più attivo di tutti, se si pensa che non dorme mai. Si rischia di sottovalutarlo perché la sua principale attività è osservare. Sembra quasi innocua, invece non lo è affatto. L’Occhio Senza Palpebra è sempre alla ricerca del suo Anello, arde dalla brama per esso, così la esibisce per reclamare che esso è di sua legittima proprietà.

Così allo stesso modo anche i suoi rivali finiscono per desiderare quella proprietà per sé: che siano allora influenzati direttamente da lui, sia pur così distante, a Mordor? Può il desiderio essere generato dalla rivalità, che provoca competizione per le stesse cose?

Si è visto che Bilbo cerca di giustificare il proprio accusando qualcun altro di averlo, non elogiando le proprietà dell’oggetto, i suoi poteri magici o altro. A prescindere che raggiunga il suo obiettivo o fallisca miseramente, il tentativo non può che insorgere dall’intuizione che dev’essere il desiderio di un qualche rivale a far scaturire di rimando il proprio, quindi a dargli una giustificazione, un motivo per esserci.

L’Anello in sé non sembra essere nulla di irresistibile. Verrebbe da pensare che Tolkien abbia scelto un oggetto troppo insignificante per affrontare la questione della seduzione e della possessività e verrebbe da risolvere il problema con un’interpretazione “allegorica”: l’Anello allora corrisponderebbe a qualcosa di più “concreto”, un’arma nucleare o un oggetto sessuale; invece si sottovaluta il fattore decisivo: se c’è una volontà, non si tratta veramente di un oggetto, piuttosto di un soggetto. O meglio, dal momento che quella volontà è il riflesso di quella di un altro, il riflesso di un soggetto: il proprio padrone.

La vittima da irretire resta facilmente ingannata proprio perché crede di aver a che fare con una semplice cosa. Così non si accorge del vero pericolo e non sa spiegare come è caduta nella trappola, non ne sa uscire. Non ci si sbaglia a pensare che un semplice anello sia abbastanza vuoto di significato, ci si sbaglia a non pensare che è proprio questo a permettere a Sauron di riempire quel vuoto con la sua presenza, con la sua brama.

Il vero segreto del fascino seduttivo dell’Anello non è mai la sua magia di rendere invisibile o di allungare la vita. Nessun oggetto a ben guardare potrebbe essere per forza irresistibile. Di qualsiasi cosa si può non avere interesse o perderlo nel tempo (specialmente se prolungato indefinitamente). Ma l’Anello riflette e manifesta di voler corrispondere al desiderio, reso perciò così vicino, così percettibile, così influente, di un rivale, il suo legittimo proprietario, che soltanto a quell’Unico si rivolge e si dedica interamente.

Si può smettere di pensare che l’invisibilità o il prolungamento della vita siano desiderabili, ma come si può pensare che non sia un “tesoro” inestimabile ciò che non smette mai di ardere unicamente dalla voglia di possedere uno come Sauron?



Al Nemico, proprio perché è il grande Nemico, si attribuisce la massima competenza in merito ad oggetti di grande valore e armi potenti. È per questo che la rivalità, al posto di essere un ostacolo al contagio di desiderio, istiga la competizione, perciò la brama per le stesse cose.

Lungi dal rimanere sul vago con la scelta di un semplice anello, Tolkien esplora le dinamiche della seduzione e della possessività nella loro forma più essenziale. In ultima istanza l’oggetto in sé è niente, la strabordante brama di un rivale del più alto livello è tutto. Da sola è talmente persuasiva che nemmeno un fatto storico, come la sconfitta dell’Oscuro Signore quando ancora aveva l’Anello al dito, può insinuare il minimo dubbio.

La testimonianza di Boromir al Concilio di Elrond lo dimostra in maniera emblematica:


«“Why should we not think that the Great Ring has come into our hands to serve us in the very hour of need? Wielding it the Free Lords of the Free may surely defeat the Enemy. That is what he most fears, I deem”»


La convinzione che un oggetto che ha preso il nome di Flagello d’Isildur sia un’arma efficace contro Sauron si fonda sul pensiero che anche lui la condivida, l’idea è resa seducente dall’immagine di Sauron intimorito.



I fatti, come le proprietà dell’oggetto, sono di scarsa incidenza, quando si tratta del desiderio. La brama si stuzzica, stuzzicando la fantasia, che si rivolge ai presunti pensieri del rivale, stimolata da null’altro che la brama di quello, così contagiosa.

Paradossalmente se l’Oscuro Signore compisse altre attività che starsene immobile ad osservare, rischierebbe solo di diminuire il suo prestigio ad ogni passo falso. Invece non fa nulla oltre a esibire la sua brama, riflessa e corrisposta dall’Anello si è indotti a fantasticare che nessuna al mondo è più giustificata di quella e non occorre altro per catturare l’attenzione e monopolizzare i desideri.

Istigati a entrare in competizione con il Nemico nel reclamare per sé l’Anello Dominante, si è trascinati a sfidarlo sul suo terreno, dove non si ha scampo. Si agisce nella maniera più congeniale per lui, tanto più ci si illude di contrastarlo. Di nuovo è Boromir a dimostrarlo con la tragica sorte.

Sauron si erge a protagonista assoluto della storia, proprio perché non ha bisogno di fare nulla per scriverla: sono gli altri che lo devono fare per lui. È il Signore degli Anelli perché essi sono a loro volta tutte concrezioni dei desideri di Elfi, Nani, Uomini, che attraverso l’Unico egli domina, trova, ghermisce e incatena nella sua oscurità.




Un modello di grandezza


«“If any of the Wise should with this Ring overthrow the Lord of Mordor, using his own arts, he would then set himself on Sauron’s throne, and yet another Dark Lord would appear”»

Tolkien presenta le dinamiche di seduzione e di possessività nella loro forma più essenziale come quasi mai i racconti arrivano a fare, non certo con l’obiettivo di trasformare una narrazione in un saggio di antropologia, ma di portare in scena il fenomeno della tentazione nella sua vera drammaticità. Se il desiderio non è una linea retta che collega soggetto e oggetto, ma un cerchio, un anello, che incatena tanti soggetti intorno all’oggetto conteso, il vero problema traspare nella misura in cui si approfondisce non l’effetto dell’uso dell’Anello, ma l’influenza esercitata attraverso di esso da Sauron sugli altri.

Le parole con cui Elrond risponde a Boromir non sono espressione di un moralismo piccolo-borghese, per cui non si deve desiderare “troppe cose”, né di uno manicheo, per cui non si deve desiderare “certe cose”. Contendere al Nemico il suo possesso equivale a eleggerlo a proprio modello nella scelta non solo dell’oggetto da desiderare, ma in fondo anche, nella misura in cui esso è un mezzo, del tipo di potere e di grandezza a cui ambire attraverso di esso. La vera tentazione non consiste tanto nel bramare il “tesoro” di proprietà di Sauron, quanto nel farlo perché, sia pure inconsapevolmente, si brama di essere pari a lui, spodestarlo per prendere il suo posto.



Ancora una volta la testimonianza di Boromir dimostra che Elrond non si è sbagliato:

«“The fearless, the ruthless, these alone will achieve victory. What could not a warrior do in this hour, a great leader? What could not Aragorn do? Or if he refuses, why not Boromir? The Ring would give me power of Command. How I would drive the hosts of Mordor, and all men would flock to my banner”»

Dopo aver stuzzicato la fantasia con l’immagine di Sauron il Grande intimorito, l’Anello può spingersi oltre con quella di Aragorn messo da parte: non è difficile supporre quale sarebbe l’ultimo passo, dopo che è stata giustificata l’ambizione di avere tutti gli uomini sotto il proprio comando. Rendere vicina e percettibile la brama del proprio padrone produce un contagio proprio nella misura in cui appare innanzitutto desiderabile la grandezza di chi dev’essere preso a modello.

A questa però sarebbe astratto sostenere che ci si rivolgerebbe sempre e comunque, come se ci fosse una “pulsione innata”. Occorre un’astuzia per presentarla in maniera realmente seducente. È infatti il vero ruolo dell’Anello, che dimostra la sua non indifferente abilità irretendo persino uno come Gollum:


«“See, my precious: if we has it [the Ring], then we can escape, even from Him [Sauron the Great], eh? Perhaps we grows very strong, stronger than Wraiths. Lord Smjagol? Gollum the Great? The Gollum! Eat fish every day, three times a day; fresh from the sea”»

Ovviamente la grandezza dell’Oscuro Signore non consiste certo in ciò, ma come è altrettanto ovvio che Gollum non potrebbe mai competere con lui. Infatti la coerenza è data proprio dalla compresenza di questo doppio delirio: senza la delirante illusione di poter prendere a modello Sauron, non ci potrebbe essere l’altrettanto delirante tentazione di contendergli l’Anello, sarebbe troppo palese l’assurdità di un simile tentativo, non sarebbe una vera tentazione perché non potrebbe avere presa.

Non ha nessuna importanza che ci sia o meno una reale possibilità di imitare la grandezza dell’Oscuro Signore, basta desiderarla per imitarne la brama per il suo “tesoro”. Perciò tanto più sarebbe assurdo voler prendere Sauron a modello, tanto più si manifesta l’astuzia dell’Anello che induce tale desiderio, la vera drammaticità della tentazione.



Non importa nemmeno per quale motivo si vorrebbe spodestare l’Oscuro Signore, conta solo il pensiero che per riuscirci occorre un potere e una grandezza pari ai suoi. Allora si è già assunta la sua logica improntata nei rapporti di dominio. In ciò consiste la vera malizia dell’Anello, di cui Sam può tranquillamente sfruttare la magia per rendersi invisibile agli Orchi di Cirith Ungol senza che questo sollevi nessun problema morale, anzi di fatto gli salva la vita (poi quella di Frodo e la loro missione), mentre inizia il vero dramma quando esso riesce a strumentalizzare persino il desiderio di uno mosso solo da buone intenzioni:

«Wild fantasies arose in his mind; and he saw Samwise the Strong, Hero of the Age, striding with a flaming sword across the darkened land, and armies flocking to his call as he marched to the overthrow of Barad-dûr. And then all the clouds rolled away, and the white sun shone, and at his command the vale of Gorgoroth became a garden of flowers and trees and brought forth fruit. He had only to put on the Ring and claim it for his own, and all this could be»

Sembra assurdo che si possa avere come modello Sauron se si vuole compiere del bene, invece basta essere indotti a desiderare di compierlo con lo stesso metodo con cui l’Oscuro Signore compie il male, cioè con l’Anello.



L’Occhio Senza Palpebra non avrebbe bisogno che l’oggetto abbia una sua volontà, se effettivamente fosse sufficiente esibire la sua brama per contagiare, invece occorre anche un’astuzia che sappia nascondere la distanza, non tanto spaziale, che per certi versi è quella che conta meno, ma qualsiasi impedisca di pensare di competere, tra Sauron il Grande e la sua vittima, persino la meno grande o la meno interessata alla grandezza. Grazie alla collaborazione di un riflesso della propria volontà celato in un oggetto quasi insignificante si riesce a mettere alla prova praticamente tutti, senza che nessuno risulti in qualche modo invulnerabile all’ipotesi di poter rivaleggiare.

Potrebbe sembrare bizzarro che per comprendere il fascino dell’Anello si debba spostare l’attenzione sulla brama del suo padrone e per comprendere il fascino della grandezza del suo padrone si debba spostare l’attenzione sull’astuzia dell’Anello, ma a ben riflettere è insito nel concetto stesso di inganno – senza il quale non avrebbe senso parlare di tentazione, se non in termini moralistici – che lo sguardo sia spontaneamente attirato nella direzione opposta a dove dovrebbe dirigersi per cogliere la verità. L’Oscuro Signore e il suo “tesoro” sono nulla l’uno senza l’altro, ma ciò viene nascosto dal dato empirico della loro distanza spaziale. Sono realmente un tutt’uno, alla base di un grande sistema di manipolazione dei desideri.

Sebbene si possa pensare che resistere alla tentazione significhi diminuire la propria libertà, rinunciare a una parte delle proprie possibilità, lo svelamento di tutto ciò conduce alla conclusione contraria: significa sottrarsi a un sistema, che è totalitario a un livello così estremo da intervenire sul cuore stesso della soggettività, il suo desiderio, in cui l’universale emulazione della parodia di un motore immobile nel cercare di arraffare il massimo del potere uniforma tutte le volontà producendo il massimo servilismo.




Un rivale vale l’altro

Una parte della questione da cui si è partiti resta ancora irrisolta: proprio la scena iniziale di Bilbo, che è stata lo spunto per cercare di comprendere in cosa consista la seduzione che genera possessività, ancora rimane enigmatica.

Lo Hobbit, infatti, non sa nulla di Sauron, quindi l’Anello non può presentargli la sua brama per contagiarlo: allora in che modo in quello specifico caso ci riesce?

Lungi da confutare le conclusioni raggiunte, nella sua particolarità questo episodio le conferma nella misura in cui manifesta che la struttura essenziale del meccanismo della seduzione si conserva anche quando non può esserci sempre lo stesso personaggio nel suo consueto ruolo.

In assenza della possibilità di esibire il desiderio di niente meno che l’Oscuro Signore di Mordor, l’Anello comunque non rinuncia alla tecnica che lo contraddistingue, l’unica realmente efficace, e sfrutta quello di un rivale ben noto alla vittima, molto meno grande, ma sufficientemente bramoso per generare il necessario contagio. Prima non si è precisato proprio tutto, quando si è menzionato che lo Hobbit “ribadisce la sua legittima proprietà”:

«“It is mine, I tell you. My own. My precious. Yes, my precious.”

The wizard’s face remained grave and attentive, and only a flicker in his deep eyes showed that he was startled and indeed alarmed. “It has been called that before,” he said, “but not by you”»

Come sempre Gandalf centra il punto decisivo con la sua osservazione ed è proprio per questo che riceve subito dopo la gratuita accusa dell’interlocutore. Dopotutto del fatto di ritrovarsi a imitare la brama del proprio rivale nella contesa dell’oggetto non è solo difficile accorgersi, ma è anche scandaloso da riconoscere. Per questo Bilbo preferirebbe che fosse Gandalf un modello per il proprio desiderio. Ma la verità è un’altra.

Solo il pensiero di Gollum può istigare Bilbo a difendere la propria legittima proprietà come se ci fosse un contendente pronto a metterla in discussione, a ritenere di avere tra le mani un vero “tesoro” di cui il suo vero padrone non potrebbe mai rinnegare il valore né vorrebbe mai sbarazzarsi.



Il caso dello stesso Sméagol è ancora più emblematico: non è una coincidenza che tutta la storia dell’ossessione per il suo “tesoro” sia iniziata con una contesa con Déagol, tanto accesa da essere terminata con un omicidio. È grazie a ciò che l’Anello ha incatenato a sé la sua vittima. Lo dimostra la ridicola menzogna del “regalo di compleanno” con cui quella vorrebbe sostenere che esso è una sua legittima proprietà: questo goffo tentativo di “rimozione” prova meglio di qualsiasi confessione, di cui ci sarebbe da soppesare la sincerità, che l’ossessione per l’oggetto è tenuta viva da un’altra, quella per il rivale morto, eppure così presente nella mente da provocare uno sdoppiamento di personalità. Gollum è legato all’Anello, ma a ben guardare lo è ancora di più a Déagol al punto che una parte di sé ha dovuto prenderne in qualche modo il posto.

Tutta questa enfasi sia di Gollum sia di Bilbo nell’affermare la legittimità della loro proprietà è palesemente funzionale a esorcizzare il pensiero che il loro storico rivale avrebbe da obiettare. E come mai questo pensiero evidentemente così persistente?

Caso vuole che entrambi i personaggi siano venuti in possesso del loro “tesoro” senza riceverlo in dono, ma prendendolo con la forza o con un tranello: l’Anello non può istigarli a un insistente difesa del loro diritto attraverso l’esibizione di quello di Sauron, ma l’ambiguità di quella circostanza gli offre comunque un valido spunto. La rammenterà alla sua vittima costantemente, tanto più questa perderà ogni altro motivo per desiderare l’oggetto sottratto all’altro. Il pensiero, reso incontestabile dall’aver commesso l’atto di appropriazione contro la volontà del precedente proprietario, che quell’altro non avrebbe mai compiuto la rinuncia è l’unico elemento efficace per preservare per imitazione (vera o presunta non ha importanza, purché la vittima ci creda) il desiderio. Il suo essere vuoto di significato si conferma un vantaggio per un semplice anello: il soggetto lo riempie con il ricordo dell’evento che ha dato inizio alla propria vicenda, con la brama del proprio personale rivale sempre presente nella memoria.



In definitiva l’unico punto fondamentale è che ci sia sempre un rivale, che generi competizione per lo stesso oggetto. Si spiega allora perché la compresenza di odio e amore è un fattore strutturale. La possessività non è mai innocente, ma sempre una tentazione, non solo perché schiavizza il proprio desiderio invece di renderlo libero di esprimersi, ma anche perché è sempre connaturato un elemento di conflittualità nei confronti dell’altro.

Tra Déagol, Sméagol e Bilbo nessuno è presentato come prestigioso modello di grandezza per l’altro, eppure proprio perché sono tutti simili e la competizione è alla pari, essa appare tanto più giustificata: non c’è la legittimità offerta dalla scusa di sfidare il grande Nemico, ma c’è quella di una reale possibilità di prevalere.

Che ciò possa istigare allo sforzo estremo lo prova cosa effettivamente accade tra Déagol e Sméagol. L’Anello sprona entrambi, perché ognuno dei due deve assistere alla sempre maggiore esasperazione della brama dell’altro per essere motivato a esasperare di rimando la propria. In questo circolo vizioso l’assassinio diventa l’unico possibile termine. Con un omicidio fondatore di un rapporto di dominio indissolubile l’Anello incatena la sua vittima: non si può più rinunciare a un “tesoro” per il quale si è sacrificato l’amico.

Così come Isildur non può assolutamente rinunciarvi, proprio per il fatto (non “nonostante”) che lo ha acquistato al prezzo di una “grande sofferenza”, la morte del padre Elendil.

È lecito sostenere che anche Bilbo, se avesse compiuto l’assassinio di Gollum, avrebbe avuto molta più difficoltà a interrompere il suo legame con l’Anello, in tal modo consacrato con il sangue del nemico. L’affermazione di Gandalf che la sua pietà potrebbe cambiare il corso di molti destini in parte già si è avverata nel caso dello stesso Hobbit. Se è la rivalità a rendere seducente la possessività, allora è la rinuncia ad andare fino in fondo nella contesa con l’altro il primo passo per la rinuncia al possesso dell’oggetto conteso.




Frodo, un caso particolare

Tra tutti i personaggi Frodo si distingue non perché è il Signore dell’Anello, ma perché è colui che riesce ad accettare di esserne solo il Portatore. La sua quasi completa mancanza di desiderio di essere lui il protagonista della storia lo rende il meno vulnerabile alla tentazione di imitare il protagonismo di Sauron, di desiderare la sua grandezza.

A dispetto del pensiero che la bramosia sia scontata e della stessa spiegazione del sistema di manipolazione dei desideri, che potrebbero indurre in entrambi i casi a credere che allora non ci sia via di scampo, Frodo si comporta nella maniera esattamente contraria rispetto a Bilbo e offre l’Anello a Gandalf. Lui si allarma comunque, però questa volta non preoccupato per l’amico ma per se stesso:

«“Do not tempt me! For I do not wish to become like the Dark Lord himself”»

Può essere che la consapevolezza che la tentazione consiste proprio nell’imitazione della grandezza di Sauron sia sufficiente per resistere, forse però la saggezza non basta. Se il contagio di brama dell’Oscuro Signore non ha presa su Gandalf, sebbene sarebbe facile che lo avesse per il fatto che egli avrebbe una possibilità concreta di eguagliare il Nemico, potrebbe dipendere anche dalla possibilità di imitare qualcun altro. Se il vero tentatore è sempre un rivale, allora la scena è credibile, perché c’è Frodo che rivale non è: paradossalmente proprio il gesto di offrire, esternando un’assenza di volontà di contesa, un’assenza di brama, anche se espone al rischio, al tempo stesso suggerisce anche che non c’è bisogno di contesa, che si può non avere brama, suggerisce la possibilità del rifiuto.

Nella misura in cui il caso di Déagol e Sméagol dimostra che il meccanismo di manipolazione dei desideri richiede la collaborazione di due rivali, la collaborazione sia di Frodo sia di Gandalf nel non rivaleggiare tra loro può essere considerato un fattore seriamente efficace per disinnescare il meccanismo.



Infatti l’episodio si ripete in maniera molto simile con Galadriel. Di nuovo Frodo offre l’Anello, alla Dama di Lórien.

«“I do not deny that my heart has greatly desired to ask what you offer. For many long years I had pondered what I might do, should the Great Ring come into my hands, and behold! It was brought within my grasp. The evil that was devised long ago works on in many ways, whether Sauron himself stands or falls. Would not that have been a noble deed to set to the credit of his Ring, if I had taken it by force or fear from my guest?

And now at last it comes. You will give me the Ring freely! In place of the Dark Lord you will set up a Queen. And I shall not be dark, but beautiful and terrible as the Morning and the Night! Fair as the Sea and the Sun and the Snow upon the Mountain! Dreadful as the Storm and the Lightning! Stronger than the foundations of the earth. All shall love me and despair!”»

Estremamente consapevole, Galadriel espone lei stessa con enfasi cosa significherebbe essere pari a Sauron, possibilità anche per lei concreta come per Gandalf: perseguire il bene negli stessi modi in cui si produce il male non può che generare una contraddizione.

La Dama è saggia, ma la prova chiaramente è comunque ardua da superare. Solo il fatto che Frodo scongiuri qualsiasi possibile rivalità tra loro due ed eviti addirittura che lei sia tentata di costringerlo con la forza a cedere l’Anello, facendole affrontare solo la tentazione di accettarlo, le offre un vero supporto: anche questo è lei stessa a precisarlo.



Dunque Frodo non è sedotto dalla grandezza degli altri. Anzi, ha la tendenza a volersi mettere da parte di fronte ad essa, invece che provare a imitarla. Il Portatore dell’Anello riesce così a salvare i grandi come Gandalf e Galadriel e a portare avanti la missione fino ad arrivare al Monte Fato. Eppure proprio dopo tanta sofferenza, proprio quando ormai manca solo il gesto più semplice…

«“I have come”, he said. “But I do not choose now to do what I came to do. I will not do this deed. The Ring is mine!”»

In questo caso sarebbe fin troppo facile gridare allo scandalo per l’oscurantismo religioso di Tolkien incapace di accettare che almeno un personaggio non ceda alla tentazione, invece se si riflette con attenzione su questa scena ci si accorge che essa non è meno credibile di tutte le altre.

Ormai è chiaro che ogni episodio riguardi l’Anello sembra pura espressione di un’ideologia o di un dogmatismo religioso, senza che nulla venga rivelato sull’intima consistenza della Realtà umana, fin tanto che non si pone attenzione al ruolo di Sauron. Anche questo non è diverso dagli altri.

Frodo sa di chi è l’Anello, non può esserselo dimenticato, perché è la ragione per cui è lì. Ma in quel frangente qualcosa è realmente cambiato. Per la prima volta nella storia basta il semplice gesto di un semplice Hobbit e Sauron non è più nulla. Già prima ancora che accada: lui è in balia della volontà di Frodo, quindi già non è più nulla. Ma se Sauron non è più nulla, allora non è più lui il Signore dell’Anello. Lui l’ha creato, ma ora Frodo ha il potere di distruggerlo. Ora è Frodo che ha potere sull’Anello.

Non serve che Frodo sia persuaso a immaginare un Sauron intimorito, ad ambire a spodestarlo. Sauron è realmente intimorito. Sauron è realmente spodestato. È la realtà dei fatti in quel preciso istante. Per un istante Frodo è realmente il protagonista della storia.

Ma a causa della malizia dell’Anello sarà solo a suo svantaggio. Un sistema così totalitario da manipolare i desideri non può essere contrastato da uno sforzo di volontà, occorre sempre qualcosa che disinneschi il meccanismo da cui il sistema è sorretto. Ogni tentativo di prevalere diversamente, nella misura in cui fallisce, finisce per celebrare l’assolutezza del sistema tanto più si è impegnato a smantellarlo, eppure esso non è infallibile.



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