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Le moderne fiabe di Andersen | Parte 2: Il desiderio di felicità

Aggiornamento: 19 nov 2020



Se si commenta un solo episodio di una specifica fiaba, quello dei maggiolini in Mignolina, dove una comunità si schiera contro un’estranea e l’allontana, resta il sospetto che sia semplicemente il frutto di una compresenza fortuita di elementi, che per puro caso sono stati inseriti dall’autore in cerca di nuove avventure (o piuttosto disavventure) per la sua protagonista e noi abbiamo frettolosamente voluto vedere legami con la teoria girardiana (da cui siamo ossessionati). Procediamo dunque con ordine e indaghiamo innanzitutto se davvero Andersen ci racconta che il desiderio è mimetico.

Ci accorgiamo così che i suoi personaggi sono spesso ossessionati da qualcun altro. Analizzeremo solo alcuni esempi, quelli che riteniamo più interessanti.

Il primo è la fiaba Abete: racconta la storia di un albero che desidera sempre essere altro e alla fine rimpiange di non essere mai stato felice. Al di là della morale che è chiara, la domanda è: perché questo desiderio?

All’inizio della storia sente i commenti dei figli dei contadini: «Oh, com’è carino così piccolo» (H. C. Andersen, Fiabe, Mondadori, Milano 2012, p. 195); dovrebbe essere contento, invece non lo è. Perché l’ancora piccolo abete è dispiaciuto? «Oh! se solo fossi grosso come gli altri alberi». Gli altri abeti sono grandi e lui vuole essere come loro. Abbiamo di un nuovo (come coi maggiolini) il gruppo che afferma, qui in maniera implicita, non dichiarata, un modello. E si aggiunge un nuovo elemento: l’altro è un modello perché lo si immagina possessore di quella felicità, compiutezza, di cui si è mancante e di cui ci si vuole appropriare diventando come lui.



«“Perché non ci fidanziamo, dato che siamo insieme nel cassetto?” ma la palla che era fatta di marocchino e si credeva una signorina per bene non volle neppure rispondere» (p. 182)


La fiaba si intitola I fidanzati, ma in realtà il trottolino e la palla non si fidanzeranno mai. Lui cerca sempre di mostrarle che sono simili e che quindi starebbero bene insieme, lei cerca sempre di porsi su un gradino più alto.

Si introduce il tema della civetteria: la felice autosufficienza dell’altro non è più qualcosa di semplicemente immaginato, ma è l’altro stesso che la insinua volutamente con il suo atteggiamento. Lungi dal far diminuire il desiderio con il suo comportamento, la palla (ne sia consapevole o meno è indifferente) lo alimenta.

Quando il trottolino viene dipinto di rosso e di giallo e riceve un chiodo d’ottone, si sente finalmente degno del suo amore. E lei come lo respinge?


«ma io non posso accettare sono quasi fidanzata con un rondone! Ogni volta che sono per aria, si affaccia dal nido e mi dice: “Accetta? accetta?” e ora ho già detto di sì dentro di me, e questo è quasi un fidanzamento»


Andersen sa bene che l’autosufficienza della civetta, la sua condizione psicologica felice, è tutta una messinscena: la bugia del “quasi” fidanzamento nella sua ingenuità è esplicativa. Come si diceva, mettersi su un gradino più alto alimenta il desiderio: non è forse degna di essere desiderata una palla di cui già un altro si è innamorato? Ora oltre l’amore di lei verso se stessa si aggiunge anche l’amore del suo “quasi” fidanzato, colui che ha “quasi” raggiunto la felicità, da imitare.


«Più pensava alla palla, più il trottolino se ne innamorava; proprio perché non poteva averla, provava sempre più amore, e il fatto che lei avesse scelto un altro era quello che più gli dispiaceva»


È indubitabile che lo scrittore danese descriva con consapevolezza la dinamica.

Capisce infatti anche che i ruoli possono sempre mutare: le apparenze sono tali perché una qualsiasi oscillazione le può invertire. La fiaba si conclude con la palla, tutta rovinata, abbandonata nel deposito della spazzatura e il trottolino, ora tutto bello dorato, più che mai desiderato da chi gioca con lui.

Non è certo un caso che il Sosia di Dostoevskij, tanto celebrato da Girard, abbia come più diretto precursore il racconto L’ombra di Andersen. Un uomo e la sua ombra gareggiano nel catalizzare su di sé la stima degli altri, cioè essere modello, fino a quando il totale trionfo della seconda capovolge i ruoli apparentemente così, si potrebbe quasi dire “ontologicamente”, differenti: la fiaba si conclude con l’ombra diventata l’uomo e l’uomo la sua ombra.



Ma lo scrittore danese non ci parla solo di un desiderio mimetico annichilente, la fiaba Margheritina sembra composta in esatta opposizione rispetto alla prima da cui siamo partiti, ovvero Abete. In una situazione simile è la dinamica ad essere completamente capovolta: il fiorellino appena sbocciato è tutto felice di ogni cosa lo circonda. L’ammirazione per l’altro non è sparita, ma improvvisamente non è più fonte di infelicità. È evidente che sia questo ciò che Andersen vuole comunicare quanto propone l’incontro con l’allodola:


«guardava con una certa riverenza verso quel fortunato uccello, che poteva cantare e volare, ma non era triste per il fatto di non poterlo fare lei stessa» (p. 95)


Questo sguardo nuovo non è il frutto di un voltafaccia dell’autore, che ha dimenticato di colpo il dramma della natura mimetica del desiderio:


«Le peonie si gonfiavano per diventare più grandi delle rose ma non era certo la grandezza che importava! I tulipani avevano i colori più belli e lo sapevano bene, e stavano ben diritti per farsi notare meglio»


Tutti gli altri fiori, così grandi e così belli, ne sono vittime, vittime della disperata competizione per strapparsi a vicenda quella presunta autosufficienza e felicità, che in verità nessuno di loro possiede. Il narratore osserva e documenta sempre il vortice di interpretazioni basate sulle apparenze senza lasciarsi trascinare, senza dimenticare cosa è reale.

Ma come non cadere nelle trappole del desiderio mimetico? Come non lasciarsi accecare? La margheritina, così piccola e insignificante, potrebbe invidiare gli altri, potrebbe essere risentita della loro poca considerazione, invece così non accade: perché? Forse non comprendiamo l’interesse di Andersen per questi personaggi, o lo fraintendiamo, perché abbiamo una concezione sacrificale dei cosiddetti “ultimi”.




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