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Verso un'altra teoria del partigiano | 3.2: Schnur e i libellisti della rivoluzione

Aggiornamento: 24 ago







L’obiettivo che si propone Schnur consiste nel rendere flagrante la vocazione espulsiva e annichilente del diritto delle genti rivoluzionario. Per fare ciò, pone al centro della sua analisi due concetti, quello di unità onnicomprensiva e quello di intrinseca impossibilità di riconoscimento politico, che, nella prospettiva dello studioso tedesco, risultano evidentemente consustanziali oltreché drammaticamente consequenziali. La spiegazione di quelli che potremmo definire i due assiomi cardinali dell’universalismo rivoluzionario viene svolta commentando brani estrapolati dalle opere di due politici e libellisti, Anacharsis Cloots e Jacques-Pierre Brissot, i quali, se certamente non risulteranno ignoti allo studioso sufficientemente dedito agli anni della Rivoluzione francese, dovranno senza timore essere rubricati quali pensatori “marginali”, anche solo da un’ottica filosofico-politica che qui teniamo in considerazione.

Occorre peraltro segnalare che una simile operazione intellettuale non è nuova a Schnur: già con Individualismo e assolutismo – Aspetti della teoria politica europea prima di Thomas Hobbes (1600-1640) il pensatore tedesco si era mosso genealogicamente mantenendo come bussola la convinzione che lo spirito di un’epoca, specie se di drammatica transizione (in quel caso la risoluzione delle guerre civili di religione attraverso la codificazione di un paradigma di sovranità decisionistico), si riveli maggiormente nella sensibilità di pensatori rimasti ai margini della storia canonizzata delle idee; intellettuali che possono essere definiti polemisti ed eruditi più che filosofi politici nel senso riconosciuto del termine, ma non per questo meno rigorosi, studiando i quali può accadere che le correnti convinzioni proiettate su un periodo storico vengano messe in discussione se non addirittura ribaltate. Il senso del margine che Schnur fa suo come orientamento e metodo ci ricorda quindi che per valutare criticamente un periodo della storia delle idee occorre non solo guardare alle fastose ed eterne architetture speculative ma anche esplorare gli spazi e le atmosfere che si delineano intorno perché, in fondo, è anche dalle macerie e dai resti più o meno dimenticati che diventa ricostruibile l’immagine di un mondo.

Il magmatico fluire di citazioni e rimandi agli scritti dei personaggi summenzionati è chiuso ed insieme intarsiato dal movimento che Hegel mette in luce nelle pagine della Fenomenologia dello Spirito dedicate alla Libertà assoluta e alla sua opera peculiare, la morte e il Terrore. In effetti, Schnur delimita il cuore pulsante del suo saggio con due rimandi espliciti a Hegel, quasi che il primo fungesse da invio dei concetti da svolgere e il secondo raccogliesse ed enunciasse le brutali e ineluttabili conseguenze che tali concetti custodiscono. Risulterà quindi utile, nei limiti e con gli obiettivi posti dal presente lavoro, passare dall’uno all’altro affinché, nel reciproco rischiararsi, risulti ancor più luminosa la natura distruttiva dell’universalismo illuministico-rivoluzionario, sia dal lato della violenza scatenata contro la differenza, contro l’altro, nella ricerca della perfetta quanto impossibile coincidenza di essenza e realtà, dover essere ed essere, sia il rimbalzo inevitabilmente suicidario che, per dirla con un lessico mediato da Hegel, ogni sistema avverte una volta che l’espulsione concreta della differenza ri-conferma l’impossibilità della relazione con l’essere-altro quale originaria e astratta posizione del Sé.

È opportuno ancora una volta ricordare che, nel presente saggio, la questione dell’alterità e della differenza non deve essere assunta come Il Discorso metafisico, quindi etico, definito e ultimativo che soffocherebbe con la sua ombra l’analisi critica di testi che di metafisico hanno poco o nulla: la via d’accesso alla differenza è sempre situata, concreta e ci viene consegnata dalla forma concettuale del “politico”, il riconoscimento cioè di un amico e di un nemico; privilegiando fino all’impossibile l’elemento relazionale tanto nella distanza non scandalizzante quanto nella contrapposizione, sottolineando allo sfinimento che, in fondo, l’unica reciprocità sussistente è precisamente quella testimoniata da unicità e differenza ri-trovate durante il movimento del riconoscimento concreto della controparte, l’obiettivo è dunque quello di rigiocare il concetto di “politico” come luogo di effettiva apertura, di orizzonte donantesi per alterità e differenza, mostrando al contempo l’essenza drammaticamente polemogena (per non dire belligena) e insofferente all’altrui alterità di quei sistemi che, in nome di un’astratta posizione valoriale e una disincarnata universalità, rimpiazzano il riconoscimento con l’inclusione al fine di ricondurre l’altro al modello (di ragione, di umanità, di giustizia) configurato dalla totalità che si auto-pone in maniera astratta.


Chi sono allora Anacharsis Cloots e Jacques-Pierre Brissot? Nonostante i toni accesi e vagamente grotteschi con cui Schnur affresca brevemente i due ritratti, egli ci tiene a sottolineare che, normalmente, gli studiosi tendono a minimizzare, in special modo rivolgendosi a Cloots, la loro effettiva importanza politica e la capacità di radicare e rendere concreta la loro esaltazione ideologica, con particolare riferimento al settore degli affari esteri.

«Anacharsis Cloots (1755-1794) era un nobile prussiano di origine olandese, che già prima della rivoluzione aveva fatto di Parigi il centro della sua vita» (1). Formato in ambiente gesuita e insofferente alla disciplina offerta dall’Accademia militare di Berlino, preferì vivere da apolide in giro per l’Europa fino a trovare stabilità nei salotti parigini. Personaggi come Cloots risultano particolarmente scandalosi per coloro che interpretano eventi storici come la Rivoluzione francese secondo schemi eccessivamente rigidi: al contrario, è propriamente la sua natura paradossale, sradicata e non riconducibile ad un quadro totalmente diafano a fare di Cloots una figura particolarmente rivelativa, inaugurante un secolo di significativi rivolgimenti mimetici per ciò che concerne l’equilibrio tra passioni individuali e ideologie collettive (tema riconoscibile nelle disamine di un Tocqueville o nella prosa di uno Stendhal).

Anche «coloro che lodano le sue buone intenzioni» cercano di minimizzare la sua concreta influenza politica. Poiché, dice Schnur, appare «come un po’ spostato, un mezzo matto, se non proprio un invasato» nel suo farsi fervente testimone della nuova filosofia, vien più facile agli studiosi fugare gli imbarazzi cercando di sganciare il suo nome dalla causa rivoluzionaria: ma quale romanziere avrebbe trovato soluzione più indicativa per quella complessa transizione storica se non tratteggiare un nobile che riconferma romanticamente la propria passione per la distinzione facendosi crociato della causa rivoluzionaria? Dall’obliqua prospettiva offerta dal paradosso esistenziale di Cloots e dalla traduzione della sua devozione in enunciazioni teoriche, Schnur intende desumere le conseguenze estreme del diritto delle genti rivoluzionario.

«Cloots era qualche cosa di più che uno stravagante dedito alla pubblicistica. Già allo scoppio della rivoluzione egli disponeva, essendo molto ricco, di legami influenti; pubblicava i suoi articoli su giornali autorevoli» (2). Significativo per esempio è l’episodio in cui nel 1790 presentò all’Assemblea Costituente la deputazione straniera (ma è bene sottolineare che i personaggi in questione risiedevano tutti a Parigi) dei rappresentanti del genere umano, «i quali dichiararono l’adesione dell’umanità alla rivoluzione». Salta subito all’occhio il desiderio di omogenea totalità quale motore della posizione teorica dispiegantesi in realizzazione politica: tale reductio ad unum che nega e sublima ogni concreto essere-altro auto-ponendosi e imponendosi come coscienza astratta che informa il reale, deve essere interpretata come un falso movimento: falso movimento nella misura in cui l’incommensurabile e infinita varietà dell’umano, data nella sua concretezza, non viene incontrata e, al limite, dialetticamente ri-compresa, al contrario viene uniformata attraverso il dispositivo sacrificale della rappresentazione politica, attraverso la negazione espulsiva e il misconoscimento delle differenze.

Schmitt non smette di riferirsi alla sovranità, quindi al movimento ascensionale della rappresentazione politica, come a quel punto dell’ordinamento inequivocabilmente aperto alla trascendenza e irrimediabilmente rivolto alla drammatica provvisorietà di un’immanenza condizionata dal “politico”: in tale provvisorietà è riconoscibile l’essenza vicaria e relativa del sovrano (3). Contrariamente, la coscienza astratta che si dice “umanità” soggiace alla tentazione politica più rovinosa: avvicinando pericolosamente trascendenza e immanenza, illudendosi inoltre di poter vincolare e domesticare la piena legittimità offerta dalla trascendenza facendola coincidere con la legalità del sistema che codifica stabilmente (quindi deforma) il criterio del “politico” (essendo quest’ultimo costitutivamente dinamico nella sua definizione sostanziale, stabile solo nella sua forma relazionale), la coscienza che si auto-pone sovranamente, offuscando i cieli della trascendenza, sostituendosi quale unico idolo riconoscibile a dominio dell’immanenza, troverà solo nell’annichilimento dell’altro e nell’eterno rispecchiamento l’unica prova della propria (presunta) pienezza: il maldestro tentativo di nascondere a se stessa lo scandalo di non poter emulare il modello della vera, sovrabbondante, trascendenza.

Prima di cadere vittima della ghigliottina sotto il Terrore di Robespierre è infine rilevante segnalare al lettore che Anacharsis Cloots venne eletto due volte alla Convenzione (dove partecipò alla commissione per gli affari esteri) e che fu uno dei propagandisti di spicco nonché focoso propugnatore della cosiddetta “crociata contro i tiranni”, ideologicamente ed economicamente supportata dai Girondini.

Curiose analogie ma anche sostanziali differenze rispetto alle vicende di Anacharsis Cloots sembrano caratterizzare l’esistenza di Brissot. Egli, a differenza del prussiano, era di origini sociali modeste ma, proprio come il nobile agitatore della causa rivoluzionaria, condusse una vita piuttosto travagliata, tra l’apolide e l’esule. Studente di diritto, non ne seguì una consequenziale e stabile professione. «Aveva fatto molti viaggi, in Svizzera, a Londra, negli Stati Uniti e a Londra aveva fondato e diretto un giornale, che presto tuttavia cessò le pubblicazioni. Là era stato anche incarcerato per debiti, e si diceva di lui che avesse svolto fino al 1789, per bisogno di denaro, l’attività di informatore della polizia. (…) All’inizio del 1789 si recò negli Stati Uniti, sia per raccogliervi esperienze per la rivoluzione in Francia sia per speculare, per conto proprio e di amici possidenti, in valori fondiari e per trattare il riscatto di un prestito statale concesso dalla Francia agli Stati Uniti» (4). Rispetto ad Anacharsis Cloots risulta quindi piuttosto evidente che Brissot, come del resto la schiatta sociale di provenienza suggeriva, fosse più propenso a sporcarsi le mani in affari più o meno loschi e che, in sostanza, fosse maggiormente dotato di quelle qualità che deve avere un uomo disposto, più che versato, all’azione. Ciò non significa tuttavia che egli non fosse anche un prestigioso agitatore intellettuale: imbevuto del pensiero di Rousseau, una volta tornato a Parigi a rivoluzione già esplosa, fondò “Il patriota francese” che in breve tempo divenne l’organo d’opinione della Gironda. Ma i motivi per il quale Brissot suscita interesse agli occhi di uno studioso come Schnur sono, ancora una volta, le posizioni in materia di diritto internazionale e politica estera assunte negli anni successivi al 1789: in effetti, Brissot, una volta divenuto membro dell’Assemblea legislativa e affermatosi come uno dei capi più influenti della Gironda, divenne presidente della Commissione per gli affari esteri. Partecipando al Club dei Giacobini, fu aperto sostenitore della guerra contro l’Austria, o meglio, contro tutte le monarchie e fautore di una politica estera aggressiva, in grado di esportare la rivoluzione in tutta Europa. Fu così che entrò in aperta collisione con le posizioni assunte da Robespierre, quasi fosse un’anticipazione dello scontro strategico oltre che ideologico tra la rivoluzione permanente propugnata da Trockij e lo staliniano “socialismo in un solo paese”. Ad ogni modo, proprio come toccò in sorte ad Anacharsis Cloots, anche Brissot venne giustiziato e ghigliottinato nel 1793: evidentemente, Robespierre non dimenticò l’aspra dialettica con il “rivale” girondino che, in fondo, divergeva sull’interpretazione di chi fosse, con urgenza, il reale nemico: il nemico esterno come voleva Brissot o il nemico interno?

Intrecciare la linea argomentativa di Schnur con il movimento dello Spirito illustrato da Hegel ci permetterà di seguire simultaneamente la dialettica che articola la relazione tra rivoluzione quale nuova figura della coscienza e realtà intesa come concretezza dell’opposizione e della resistenza (interna ed esterna).

Tuttavia, ulteriori coordinate potrebbero rivelarsi utili per districarsi al meglio fra gli snodi concettuali che costituiscono tale ordito: dai riferimenti che Schnur ricava dalle pubblicazioni di Cloots e dai discorsi pubblici di Brissot il lettore può acclarare in maniera inequivocabile la declinazione aggressiva che la coscienza astratta della rivoluzione (la disincarnata libertà assoluta) assume una volta che il nuovo dispositivo di sovranità e ragione si realizza politicamente in macchina da guerra internazionale; dalle pagine di Hegel, invece, una volta spiegata l’essenza astratta (lontana cioè dalla concretezza del vero) della coscienza, che si pone e identifica come libertà assoluta, è possibile apprezzare, quasi fosse un commento più o meno cifrato a Il contratto sociale di Rousseau, come l’opera della rivoluzione realizzi, prescrivendosi la sua stessa fine, l’inedito dispositivo di sovranità, con particolare riferimento alla gestione governamentale della differenza interna.

Come anticipavamo precedentemente, Schnur inquadra il problema della guerra e della pace, da cui, ricordiamolo, rimbalzano mimeticamente e genealogicamente le risposte e le contro-risposte giuridico-politico-militari dei secoli successivi, partendo da una significativa ricorrenza presente nelle concezioni di questi pensatori “ai margini” della transizione storica rivoluzionaria: il primo nucleo argomentativo è l’idea di un’unità onnicomprensiva.

Ogni idea porta con sé una precisa configurazione del concetto di “politico”, più o meno relativa, più o meno sostanzializzata. Schnur segnala opportunamente che l’idea di un’unità onnicomprensiva quale rappresentazione dell’umanità in generale «si pone in fondamentale opposizione con le dottrine precedenti del diritto internazionale, orientate a stabilire regole per la convivenza di Stati diversi» (5).

Il pluriverso politico normato dallo jus publicum europaeum in epoca vestfaliana era infatti un ordine parcellizzato in sovranità politiche multipolari che trovava unità nella stabile articolazione delle reciproche differenze e opposizioni: il termine unità non era quindi il precipitato di un’immagine astratta utile a modellare e correggere il divenire storico ma, al contrario, era proprio la molteplicità storica, nella sua insuperabile co-relazione, a fornire un orizzonte di unità al mondo. Ecco allora che Cloots rivendica per il mondo un’unità essenzialmente differente, di diverso valore, un’unità insieme archetipica e superiore, in cui tutte le differenze devono essere eliminate. Schnur ne desume l’inevitabile corollario: «ciò significa anche che tutte le istituzioni esistenti saranno eliminate, perché l’uomo deve stare, senza mediazioni, di fronte a se stesso e alla natura» (6).

Il miracolo di un pluriverso che custodisce in sé la traccia analogica di un’unità che rimanda ad una trascendenza altra e inappropriabile diventa, nel pensiero degli ideologi illuministico-rivoluzionari, l’inquietante utopia in cui ogni individuo è frattale di un’unità composta da singoli fra loro eguali: ogni singolo uomo deve necessariamente assumere in sé e per sé il modello dell’umanità in generale immaginata dalla pedagogica ragione illuminista, la quale non funge solamente da impronta per la malleabile natura umana ma insieme da tribunale di riferimento nel gioco di rispecchiamento della coscienza.


Ma torniamo ad impugnare il filo politico del ragionamento: «La liquidazione di uno stato storico contro-natura a favore di un’unità esclusiva porterà con sé, secondo Cloots, la supremazia di un nuovo mondo: una volta instaurata l’unità, il problema politico apparirà risolto, in quanto la politica verrà abolita. Essa ha infatti, nella concezione degli utopisti, il suo fondamento nel fatto che l’uomo ha rinnegato la natura, è diventato moralmente cattivo, al punto che ciascuno è nemico di ciascuno. Nel mondo unificato, invece, la politica diventa obsoleta, perché il suo fondamento è eliminato. Regnerà pertanto la pace mondiale totale» (7).

La sostituzione integrale della realtà storica, interpretabile come l’irriducibile resistenza all’instaurarsi di un modello ideale e originario di società che desidera attuarsi in dispositivo di sapere-potere, finisce per abolire il senso della politica. Ancor più radicalmente dovremmo dire che la coazione esercitata dal nuovo mondo, quale precipitato dell’ideale e del dover essere derivante da una trascendenza arbitrariamente posta, liquida non solo la politica bensì il concetto stesso del “politico”, cioè la possibilità di riconoscere un nemico, una differenza che legittimamente resiste.

Il “politico” quale principio formale che definisce l’intrinseca relazionalità di un mondo composto da realtà storico-politiche differenti, in questo senso, si dà precisamente come condizione di possibilità per l’esistere di un mondo plurale, condannato ad una costitutiva finitudine, aperto talvolta allo scontro per affermare o difendere la propria stessa esistenza.

Al contrario, l’unità che si auto-pone fagocitando ed esorcizzando l’esistente, conservatore e per questo colpevole, nega all’altro, al custode di un resto e di una differenza, la possibilità stessa di accesso ad un’esistenza politica, proprio perché quest’ultima implicherebbe quale presupposto il preliminare riconoscimento di una differente e opposta prospettiva. E quindi, se la declinazione filosofica dell’unità illuministico-rivoluzionaria, sistematica traduzione dell’utopica coscienza astratta, consiste nella liquidazione del “politico” in quanto premessa di ogni ordinamento concreto, la liquidazione della politica ne deriva quale sua conseguente declinazione tecnica. A cosa dovrebbe servire in effetti la politica in un mondo dominato dalla legge universale intesa come dominio del genere umano (una sorta di apostolato della ragione) sull’esistente?

La politica infatti è l’arte del compromesso, della ricerca di un bilanciamento tra spinte centrifughe che trascinano l’ordinamento verso la possibilità sempre presente dell’eccezione, del nulla-di-norme, della legalità infranta, e spinte centripete che tentano di riaffermare un ordine, una forma stabile al dominio, con l’obiettivo di appropriarsi e conservare eternamente la legittimità quale fonte imperitura del diritto. Politica si dà per la composizione delle divergenze, per concepire sistemi in cui sussistono tensioni contrastanti, al limite, per decidere di intraprendere uno scontro e quindi discriminare il nemico dall’amico.

Il dramma della politica consiste, tuttavia, nell’essere comunque coartata ad una decisione mai ultimativa e sempre fallibile; ed è precisamente tale decisione che costituisce la sovranità e il suo drammatico assestarsi a metà tra trascendenza e immanenza. Una decisione che il sovrano non dovrà (ma in realtà nemmeno potrà) prendere limitatamente e una volta per tutte rispetto alla costituzione e all’assetto formale dell’ordinamento (a tutti gli effetti un’archi-decisione), ma che, nella concreta evoluzione degli eventi e nel presentarsi di casi concreti più o meno eccezionali, egli sarà costantemente chiamato a ripetere reinterpretando gli stessi principi che vanno a codificare l’idea costitutiva di ordinamento e sovranità.

Ma questa umile e scadente idea di politica, la cui massima aspirazione è appunto quella di regolamentare lo scontro ideologico e limitare per quanto possibile la violenza (virtualità sempre presente nella relazione), risulta inaccettabile in quanto “scienza” che assume l’uomo per come realmente è: una creatura dimentica dell’Eden originario che ha rinnegato la sua natura angelica, perfetta e disincarnata, facendosi nemico di se stesso e di tutti gli altri esseri umani. Per l’intellighenzia rivoluzionaria di cui Cloots è sublime espressione, se la politica non ha la forza di redimere integralmente l’umano, se non ha la capacità di realizzare il dover essere purificando ogni impenitente residuo di realtà, allora anche la politica è da considerarsi come qualcosa che deve essere superato e annichilito nella sua essenza.

La natura dell’ordine instaurato dalla legge universale, al cospetto della quale l’umano verrà giudicato dall’idea stessa di umanità, dovrà essere puramente tecnico: un impianto di conversione del reale a rispecchiamento della coscienza. La politica sarà dunque unicamente concepita come intralcio, come il segnale di una pugnace resistenza, come la protezione di un’imperfezione che rifiuta di essere redenta.

«Cloots riconosceva che nella storia era stato fatto una tentativo di produrre un’unità globale: la Chiesa cattolica. Ma per lui quest’ultima è un’unità ineffettuale, che deve far posto alla repubblica globale degli uomini, alla vera unità» (8). L’aggettivo “ineffettuale”, scelto da Schnur, sottolinea in maniera particolarmente calzante la dimensione tecnica del prometeismo illuministico-rivoluzionario. Il carattere ecumenico della Chiesa è ineffettuale perché differisce e disloca in un Regno che non è di questo mondo il momento del trasumanare (senza destinare all’umano alcuna capacità trasformativa nel processo, solo responsabilità nella forma di un’accoglienza) mentre, per ciò che compete le vicende terrene, l’urgenza diviene quella della conversione (peraltro indissolubilmente legata con il momento della confessione che, come insegna Agostino, è sempre uno slancio verso la lode (9)), e non della trasformazione di sé intesa come reinvenzione ad imitazione di una téchne. Il rivolgersi dentro di sé della conversione è infatti l’occasione di una riapertura verso l’altro, il mondo “creato”, per celebrarlo nella sua essenza di traccia di una trascendenza irriproducibile. Al contrario, come già avevamo anticipato, la natura prepotentemente effettuale e trasformativa della coscienza astratta illuministico-rivoluzionaria si impone a dominio dell’immanenza per sostituire (cercando in tutti i modi di non manifestare lo scandalo di un’imitazione) l’autentica trascendenza, la cui signoria è invisibile e non può essere dominio del mondo. Convertita la trascendenza in combustibile, viene azionata a pieno regime la prometeica fucina in cui l’uomo progetta e fabbrica l’umano a venire, a immagine della Ragione.





***


(1) Cfr. Roman Schnur, Rivoluzione e guerra civile, Giuffré editore, 1986, Milano, p. 63.

(2) Cfr. Roman Schnur, Ibidem, p. 64.

(3) Cfr. Carl Schmitt, Scritti su Thomas Hobbes, Giuffré editore, 1986, Milano; ma anche Carl Schmitt, Dottrina della Costituzione, Giuffré editore, 1984, Milano.

(4) Cfr. Roman Schnur, Ibidem, p. 65.

(5) Cfr. Roman Schnur, Ibidem, p. 66.

(6) Cfr. Roman Schnur, Ibidem, p. 67.

(7) Cfr. Roman Schnur, Ibidem, p. 68.

(8) Cfr. Roman Schnur, Ibidem, p. 67.

(9) Cfr. Jean Luc Marion, Sant'Agostino In luogo di sé, Jaca Book, 2014, Milano; con particolare attenzione al Capitolo I.

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