Nelle pagine precedenti abbiamo tentato, tra le altre cose, di mettere a fuoco filosoficamente, attraverso una ripresa di Rousseau e Hegel, la risposta che la libertà astratta, nella sua declinazione rivoluzionaria, concretamente trova nei confronti del nemico interno, cercando in particolar modo di evidenziare la natura aggressiva contenuta nell’idea metafisico-politica (ma, con Schmitt, dovremmo forse azzardare teologico-politica) di unità onnicomprensiva del genere umano, tema centrale nei discorsi del libellista Anacharsis Cloots riportati da Roman Schnur nel suo studio su rivoluzione e guerra civile.
Tuttavia, prima di tornare a rivolgerci con rinnovata consapevolezza verso Clausewitz nell’alveo segnato da Schmitt e Aron, con l’intenzione di concludere il presente capitolo offrendo al lettore una chiarificazione di eventuali elementi che nelle sezioni precedenti rischiavano di rimanere eccessivamente astratti, è necessario riprendere in mano un’ultima volta il testo di Schnur per tematizzare più attentamente la questione del nemico esterno. In fondo, non ci scostiamo di molto dal solco precedentemente tracciato: cambiamo verso senza modificare la direzione. In effetti, il nodo da cui riparte il saggio di Schnur (un’urgenza che già abbiamo affrontato, studiandola però da un punto di vista prettamente speculativo o, per meglio dire, secondo una declinazione volta a rivelare la cifra del dispositivo politico rousseauiano) è riassumibile grossomodo in questi termini: constatata per il pensiero utopico una congenita impossibilità di assurgere immediatamente al dominio del mondo, come potrà l’utopia collocarsi nello spazio storico? Come potrà superare l’ostacolo della realtà?
La questione pare riecheggiare lo spirito delle critiche kierkegaardiane rivolte all’idealismo hegeliano rispetto alla collocazione di un sempre eventuale inizio del sistema inevitabilmente posto all’esterno del sistema stesso. È, infatti, sin da subito fondamentale sottolineare la consistenza fattizia di questo inizio, la sua brutale storicità, perché in fondo la materia di cui si compone l’illusione dell’utopia è prima di tutto temporale: il desiderio dell’utopia consisterebbe, in questo senso, nel ripristinare la statica beatitudine dell’eternità edenica saldandola direttamente alla fondazione di un regno millenario il quale, se non vogliamo dirlo eterno, occorre quantomeno immaginarlo secondo l’ordine di una atemporale permanenza. Ad ogni modo, l’azione storica dell’utopia si potrebbe rendere con la metafora di un’operazione chirurgica: l’ascesso costituito dalla storia, espressione dell’eterna ripetizione di una violenza conforme alla mala voluntas degli uomini (ma il problema rimarrebbe irrisolvibile con dispositivi di potere umani se il male e la violenza fossero causati, per dirla con Agostino, dalla natura lapsa della massa perditionis, delegando la soluzione interamente al mistero della grazia), viene asportato e cauterizzato, così da ricongiungere i due lembi di eternità nel rinnovato corpo comunitario del genere umano, abile quindi a realizzare pienamente la propria ritrovata e incorrotta natura pre-adamitica al fine di una terrena beatitudine, una volta riconvertito tecnicamente il mondo storico in splendido Giardino. Ma poiché, come sottolinea ironicamente Schnur, «gli uomini non arrivano da soli al nuovo pensiero» e piuttosto «vi devono essere spinti»(1), risulta oltremodo inevitabile l’azione concreta di un soggetto politico-spirituale al fine di domare la resistenza dei malpensanti e quindi avviare il processo di effettiva realizzazione dell’utopia come unità onnicomprensiva del genere umano(2).
«La realizzazione dell’unica repubblica del genere umano inizia con l’edificazione della repubblica francese»(3): nell’inizio, per l’appunto, la contraddizione. Lo svolgimento storico di tale paradosso, come ha mostrato lo Schmitt di L’epoca delle neutralizzazioni e delle spoliticizzazioni, riproduce semplicemente, con un altro baricentro metafisico – ma comunque all’interno del processo di secolarizzazione –, lo scontro che aveva determinato la congiuntura storica precedente e che aveva richiesto una soluzione epocale per neutralizzare un conflitto pericolosamente contagioso: abbiamo già riferito il fatto che la natura confessionale delle guerre di religione aveva preteso una decisione per la rappresentazione in cui si realizzasse il principio «auctoritas, non veritas facit legem» e quindi l’evocazione di un sovrano simbolo di un ordine artificiale in grado di contenere la violenza.
Con la dissoluzione di un ordo medievale delimitato da un unico orizzonte cristiano che, al netto delle molteplici e sicuramente significative sfumature, riconosceva nella trascendenza del diritto divino dei re e nella visibilità della Chiesa l’elemento rappresentativo e formale in grado di incarnare l’autentica e intangibile trascendenza divina, l’Europa ha ridefinito il proprio nomos convivendo con la necessità di bandire fuori dal piano giuridico qualsiasi pretesa di avocazione veridica e autentica della trascendenza religiosa, la rivendicazione della quale diventava causa del misconoscimento e della criminalizzazione del nemico interno ed esterno e, conseguentemente, di una declinazione aggressiva e illimitata della justa causa in guerra.
Certo, il principio del «cuius regio eius religio» mostrava il fianco ad una serie di problemi strutturali quali il rischio della neutralizzazione passiva, tecnica, della decisione sovrana in semplice funzionamento degli apparati statali, causata da una progressiva positivizzazione del diritto, o anche una frattura sempre più profonda tra dimensione pubblica e dimensione privata. Tuttavia, l’imperativo di Alberico Gentili «silete theologi in munere alieno!», ricollocato da Schmitt nel Nomos della terra in posizione angolare per una corretta genealogia dello «jus publicum Europaeum», aveva effettivamente limitato l’esplosione incontrollata di violenza militare regolamentando, secondo il reciproco riconoscimento di «hostes aequaliter justi» i rapporti tra Stati sovrani: le guerre cadevano quindi nello spettro della relazione possibile tra Stati in funzione di pretese territoriali o ricollocazione nello scacchiere internazionale ma, in ogni caso, le limitazioni della guerra erano concepite per l’uomo, militare o civile che fosse.
Lo spirito rivoluzionario infrange la stabilità costruita dal razionalismo giuridico dei due secoli precedenti, spostando la conflittualità indifferenziante e quindi sempre più indifferenziata dall’ambito confessionale a quello politico-morale, annunciando la necessità di una nuova soggettività decidente e sovrana in grado di ricalibrare la polarizzazione differenziante del “politico”, quindi stabilendo concretamente i fronti del nemico e dell’amico. L’acume critico di Schnur sottolinea costantemente la natura contraddittoria dell’azione utopico-rivoluzionaria rispetto alla realtà: «Poiché i suoi principi costituzionali scaturiscono dal vero pensiero unitario, essi sono, secondo Cloots, universalmente applicabili» ma al contempo «La repubblica francese è (…) soltanto un sovrano ad interim, che attende la caduta dei tiranni per sottomettersi alla volontà suprema del vero sovrano, il genere umano, non appena tutti i sovrani provvisori saranno scomparsi davanti ad esso»(4).
Seguendo tale spunto, un elemento particolarmente interessante da rilevare è l’effettivo recupero, sia all’interno della carta costituzionale, sia appunto nei discorsi pubblici e nella libellistica del tempo, della dottrina dello ius resistentiae, termine polisemico spesso declinato secondo l’accezione di diritto di ribellione o diritto alla ribellione. Teorizzato in epoca medievale da pensatori quali Tommaso d’Aquino e Manegoldo di Lautenbach ma giuridicamente concesso anche in documenti ottriati dal sovrano, questo potente elemento del diritto di natura assume in prima battuta valore giuridico contribuendo a bilanciare e ad articolare la dialettica di potere tra Principe e ceti e concorrendo alla crescita delle potestates indirectae tra basso medioevo e pre-modernità, per poi acquistare una tonalità più polemica e aggressiva nel tardo Cinquecento in pamphlet quali Vindiciae contra tyrannos: qui, in termini ancora più radicali rispetto alla tradizione medioevale che pure figurava il tirannicidio come possibilità estrema ma legittima nel caso in cui il governo del Principe avesse apertamente violato l’ordine divino, vengono rimessi in discussione con forza significativamente maggiore, inserendosi quindi nel torrente scavato dalla Riforma, i legittimi poteri del Principe e del popolo nei confronti di quest’ultimo.
E se nella tradizione giusnaturalistica moderna la posizione rispetto al diritto di resistenza non è uniforme, per cui è possibile trovare giustificazione e rilevanza strategica in quanto diritto inalienabile dell’individuo contro l’eventuale esercizio illegittimo del potere sovrano nei Due trattati sul governo di Locke o, al contrario, dura opposizione nel pensiero di Kant il quale mette in evidenza la flagrante contraddizione di un diritto dell’individuo avente valore coattivo rispetto alla sovranità statale, l’articolo 35 della Costituzione francese del 1793 dice espressamente che «quando il governo viola i diritti del popolo, l’insurrezione è per il popolo e per ciascuna parte del popolo il più sacro dei diritti e il più indispensabile dei doveri».
In ogni caso, ripercorrendo questa linea di pensiero emerge chiaramente un problema: il diritto di natura non viene mai completamente esaurito dal diritto positivo e, in tale inestinguibile trascendenza rispetto all’ordine giuridificato, custodisce di fatto la sorgente del diritto stesso, un’origine che per definizione resta irrappresentabile e inattingibile. Ma nondimeno tale elemento resta determinante perché, in effetti, il luogo in cui viene collocata l’origine del diritto, punto di luce dal quale emerge la modalità in cui la convivenza umana viene razionalmente organizzata, è precisamente ciò che determina la direzione delle transizioni epocali.
Il richiamo nel presente saggio alla tradizione del diritto di resistenza che, in epoca rivoluzionaria, slitta in maniera evocativa verso il diritto di insurrezione, ha come puntuale scopo quello di evidenziare un movimento concettuale tanto interessante quanto gravido di conseguenze: se ancora nel medioevo l’illegittimità del governo del Principe si dava per contrasto ad un ordinamento divino del mondo e quindi la fonte della trascendenza illuminava dall’alto l’azione del sovrano, valutando l’esercizio del potere secondo analogia o disallineamento rispetto al modello divino, con il passare dei secoli la fonte della trascendenza tende a collocarsi sempre più in basso, fino a capovolgere completamente i criteri stessi di legittimità, tanto che quest’ultima da idea esemplare in qualche modo sempre assente e mai totalmente realizzabile (diversi interpreti di Schmitt parlano in tal senso di “mediazione dall’alto”) diventa piuttosto assimilabile ad un serbatoio di energia politica a disposizione di quel soggetto storico-politico in grado di canalizzarla (e contrario parliamo allora di “mediazione dal basso”).
Rivendicare il possesso della dimensione ulteriore e trascendente rispetto al diritto positivamente istituito significa, ad ogni modo, poter giustificare – ed è questo un elemento particolarmente rilevante per Schmitt e per le questioni discusse nel presente saggio – l’uso della violenza con il beneficio giuridico della posizione difensiva, generando uno strano cortocircuito tra diritto interno e diritto internazionale, secondo uno schema che, data l’indistinzione progressiva tra dimensione intra-statale e inter-statale, determina contemporaneamente l’estensione integrale della guerra civile e una militarizzazione dei rapporti tra le parti sociali che compongono il medesimo Stato.
La riflessione di Schnur coglie perfettamente le varie implicazioni agenti in tale congiuntura storica, riuscendo a mettere in evidenza in maniera puntuale la relazione che intercorre tra aggressione e difesa, riconoscimento del nemico e deregolamentazione della violenza, entrando peraltro in risonanza con alcune argomentazioni precedentemente analizzate. «Affermandosi nella politica francese, tali idee divennero un dato politico per la realtà internazionale dell’Europa, dando luogo ad una delle più difficili e pericolose costellazioni politiche, il cui controllo esigeva un’arte politica somma»(5).
Arte politica significa mediazione ma non è questo il linguaggio proprio dell’utopia, la cui irruzione storica prevede l’instaurazione di un dispositivo politico all’insegna dell’immediatezza. Per le frange più estremiste della Rivoluzione non si dà alcuna possibilità di transizione graduale: scartata la via “riformista” auspicante un’evoluzione del sistema europeo verso il costituzionalismo liberale come ponte tra monarchia e repubblica, quindi senza sconvolgimento integrale del pluriverso politico europeo, la sostanza del problema politico «doveva assumere l’aspetto di una sfida al modello costituzionale condiviso»(6). Posta dunque l’inconciliabilità del vecchio e del nuovo, l’ambizione della filosofia era appunto quella di plasmare la politica fino alla radice, esorcizzandone la consistenza resistente, la natura di conservazione e ostacolo.
In buona sostanza, con la volontà di demolire integralmente il modello costituzionale della monarchia, precisamente la monarchia assoluta come forma di sovranità responsabile della neutralizzazione delle guerre civili confessionali, cadeva anche il presupposto istituzionale per il funzionamento stesso dello Jus publicum Europaeum: se nel pluriverso politico di epoca vestfaliana lo Stato sovrano era ancora concettualmente assimilabile all’individuo nello stato di natura, con il ribaltamento utopico del modello assolutistico il senso di questa analogia decade completamente nella misura in cui, a questo punto, un singolo Stato si autoproclama rappresentazione dell’intero genere umano pretendendo un plusvalore giuridico per le sue azioni, anche in ambito internazionale.
Richiamandosi ad una formula schmittiana che dovrà essere tematizzata ricostruendo alcuni passaggi del pensiero del giurista tedesco, Schnur icasticamente afferma: «l’utopia entra nella realtà, il suo appello, pensato e come tale privato, diventa in Francia pubblico, ed anche se il sovrano regna solo ad interim, può nondimeno, davanti alle altre nazioni, agire in nome del vero sovrano, il genre humain – come custode della costituzione del genere umano»(7). È precisamente tale auto-attribuzione di una legittimità più autentica che sospende l’ordine giuridico precedente andando a ridefinire l’intensità strutturante la polarizzazione amico-nemico: il problema è che il gesto di auto-attribuzione diventa un tentativo di sostanziare e di appropriarsi dell’interpretazione della trascendenza intesa come dimensione “altra” rispetto al diritto. Il tentativo, cioè, di definire da una prospettiva parziale qualcosa come la giustizia che, per sua costituzione, si dà solo nella sua traccia e mai nella sua sostanza. Il senso di inscalfibile alterità custodito dalla giustizia emerge nella distanza, al contempo indeducibile da un ordinamento esistente ma insieme modello regolativo di razionalità; nell’impossibilità di realizzarsi completamente in un’idea di diritto capace di informare stabilmente un ordinamento che, al contrario, sarà sempre a-venire.
Ogni volta che la trascendenza giuridica, istituita con fatica nell’epoca precedente, viene risucchiata nelle pastoie del conflitto, la decisione sovrana ritorna ad essere quantomai urgente e necessaria per riaffermare la trascendenza giuridica (nel senso di stabile superiorità) di un nuovo ordinamento: neutralizzando la crisi e il disordine occorso con il riemergere di una situazione eccezionale, il sovrano impone una reinterpretazione e una ri-significazione di ciò che è norma e fuori-norma. E però, come Schmitt non smette mai di segnalare nell’arco teoretico della sua riflessione sul decisionismo, affinché si realizzi una stabile legalità è necessaria la leva di un’effettiva legittimità, la quale, in epoca rivoluzionaria, diverrà l’azione performativa di un potere costituente: proprio qui si annida l’elemento drammatico della sovranità in un mondo mancante di una trascendenza più comprensiva e “altra” rispetto a quella giuridica, la quale essendo progressivamente più spoliticizzata (incapace cioè di un neutralizzazione attiva del conflitto) diviene più facilmente e violentemente contendibile.
Può essere allora utile avviare un’ampia panoramica per ripercorrere l’evoluzione del pensiero del primo Schmitt sull’argomento, mantenendo sempre come obiettivo quello di comprendere più a fondo la torsione subita nelle manifestazioni di violenza dall’epoca rivoluzionaria in avanti, così da situare più accuratamente la prestazione intellettuale di Clausewitz.
Sin dai tempi di Gesetz und Urteil (1912), uno scritto dedicato a una materia puramente giuridica, emerge la centralità e l’originale impostazione che Schmitt suggerisce rispetto al tema della decisione: «fin dove il diritto positivo è in grado di garantire la certezza giuridica e suscita una prassi univoca, la “conformità alla legge” della decisione è una prova della sua giustezza. Ma non appena dati elementi al di fuori del contenuto della legge positiva scuotono questa prassi e riescono a modificare la legge nella sua validità fattuale, anche se per mezzo di una “interpretazione”, questa congruenza tra “conformità alla legge” e giustezza della decisione cade e un giudizio emanato contro il senso della legge può, ciononostante, essere giusto»(8).
Già a quest’altezza della produzione schmittiana emerge silenziosamente il concetto di eccezione, ossia della situazione in cui la normalità è sospesa e la normatività è impotente; per Schmitt l’eccezione diventa un luogo di rivelazione di una dimensione strutturale e costitutiva della realtà: tra normatività universale e realtà particolare si apre una frattura abissale, non ricomponibile come nella mediazione razionale hegeliana, dove la realizzazione storica dello Spirito rende conto delle interruzioni della realtà particolare e individuale. Come rileva lucidamente Nicoletti: «Dunque questa “rottura” non è un semplice prezzo da pagare in funzione della realizzazione dell’universale, un momento comunque limitato e da attribuirsi all’accidentalità quantitativa della realtà effettuale, essa ha un valore epistemologico più profondo, è cioè rivelatrice della verità e della struttura della realtà, capace di fondarne e avviarne una comprensione concettuale. Nel momento della “rottura”, dell’interruzione, della crisi la decisione viene ad assumere un valore fondativo in rapporto alla costituzione dell’ordine del reale e alla sua comprensione»(9).
È interessante notare però come, fin dal suo primo testo di spessore, Schmitt cerchi di sottrarre la dimensione fondativa della decisione all’assoluta discrezionalità della soggettività personale, collocandosi in una posizione equamente distante tanto da un’idea di decisione arbitraria quanto dalla mera aderenza alla norma universale. Schmitt parla in tal senso di un “altro giudice” funzionante come “finzione giuridica” che, traducendo in una sorta di consuetudine prevedibile e calcolabile l’imperativo morale kantiano, permette di non attribuire fondatività né all’interpretazione soggettiva del singolo giudice né ad un modello ideale da realizzare teleologicamente.
Continua Nicoletti: «La decisione così presa colma la rottura tra la norma e il caso concreto ri-istituendo nello spazio vuoto la corrente prassi giuridica, cioè l’ordine esistente»(10). Dirimente resta il fatto che, per Schmitt, il dover essere non emerge automaticamente dall’essere e l’attività primaria del giudice (ma il discorso si estende alla figura del sovrano) sarà il valutare, l’interpretare e il decidere manifestando una volontà: questa triplice attività rappresenta il tentativo di tessere una mediazione tra idea del diritto mai completamente positivizzata e una realtà giuridica spesso interrotta nella sua regolarità.
Adalgiso Amendola nel suo Carl Schmitt tra decisione e ordinamento concreto(11) imposta la sua argomentazione rilevando l’aporia originaria da cui muove la riflessione del giurista tedesco: il problema della sovranità si manifesta precisamente nella concretezza del fatto eccezionale, nella carne della situazione, senza poter essere previamente ricompreso da alcun dato normativo. Il “chi” della sovranità appare nel momento in cui l’ordinamento giuridico esistente non dà più alcuna risposta: non esiste bildung per il sovrano ma gemmazione improvvisa. Eppure la decisione, così come la norma, permangono nell’ambito del dato giuridico. La decisione è quindi un concetto-limite: è al contempo il punto cieco interno all’ordinamento ed insieme ciò che fonda propriamente il giuridico valutando interpretando e rispondendo ad una situazione eccezionale; tuttavia, senza la norma, la decisione non trova regolarità: ciò significa che, come sottolineano anche altri interpreti tra cui i già citati Nicoletti e Galli, non potendo autonomamente fondarsi essa risulta radicalmente infondata.
Il testo di Amendola si dipana visualizzando il percorso intellettuale schmittiano come un pendolo che ondeggia pericolosamente tra due estremi, un decisionismo esigente e carico di contraddizioni e la tensione verso il radicamento in un pensiero dell’ordinamento concreto: quest’ultimo, nella condivisibile prospettiva di Amendola, ha costituito la tentazione cui il giurista avrebbe finito, temporaneamente, per cedere (tentazione che porterà Schmitt ad appoggiare attivamente il partito nazista dal 1933 per poi venire allontanato nel 1936(12)) in fuga dalla drammatica problematicità aperta dalla prospettiva decisionista.
Un merito del testo di Amendola è senza dubbio quello di sottolineare l’aspetto segnatamente esistenziale del decisionismo schmittiano: più precisamente, è riconoscibile un ineliminabile dato esistenziale nel momento di traduzione della norma in attuazione concreta; solo nel caso d’eccezione l’individuazione della competenza coincide con l’individuazione della sovranità, mentre nella normalità del sistema tale problema rimane nascosto: attuare l’idea giuridica significa sempre aggiungervi un elemento altro che non può essere fatto derivare né dal contenuto dell’idea giuridica (la quale deve essere, come abbiamo visto, interpretata) né, nel caso di impiego di una qualsiasi norma giuridica positiva, dal semplice contenuto di quest’ultima.
Uno dei paradossi inerenti il concetto-limite di sovranità consiste nell’impossibilità di comprendere se il soggetto sovrano esista o meno prima della decisione che pone fine allo stato d’eccezione, quasi ci fosse una correlazione essenziale tra fondamento della sovranità e del sistema giuridico ed esclusione del soggetto pre-politico (un problema che spiega il decennale interesse di Schmitt per Hobbes). La posizione di Amendola riconduce tale paradosso “temporale” ad un’aporia ancora più lacerante dischiusa dalla riflessione schmittiana sulla soggettività sovrana: «l’eccezione ha rivelato che un ordinamento non elimina, ma presuppone un soggetto sovrano; allo stesso tempo, però, essa mostra come questo soggetto sovrano sia assolutamente indeducibile, infondabile, se non sul fatto di essere riuscito a decidere: fondato proprio da ciò che a lui richiederebbe fondazione»(13).
Di fatto, la decisione schmittiana, inserendosi in una tradizione di filosofia della crisi verosimilmente aperta da Kierkegaard, denuda ed espone l’insufficienza sostanziale del soggetto sovrano, rivelando la sovranità come un potere posto sul nulla di norme aperto dalla situazione eccezionale. Ogni razionalizzazione normativa rimane tragicamente esposta al rischio di un resto pericoloso, la caduta in una dimensione conflittuale che la sovranità può sì neutralizzare attraverso la decisione ma tenendo desta la consapevolezza dell’infondatezza radicale da cui emerge tale gesto.
È possibile discernere, nell’attività di studio del primo Schmitt, due orientamenti rispetto al tema dell’eccezione, dove resta comunque centrale la valorizzazione del momento della decisione per la rappresentazione del sovrano, per la ri-significazione dello Stato: il primo (ne parleremo nel prossimo articolo) è sviluppato all’interno de La dittatura e, in maniera ancora generale, possiamo dire esplori lo stato d’eccezione non tanto nel senso di origine infondata da cui sorge già sradicata la decisione sovrana quanto piuttosto concentrandosi sul momento in cui il sovrano (lo Stato) sospende il diritto, dichiarando appunto lo stato d’eccezione, per riaffermarsi (e quindi il sovrano è un soggetto già preesistente l’interruzione eccezionale che precede la decisione) nella pienezza dei suoi poteri, attribuendosi una superiorità esistenziale rispetto alle normativizzazioni che caratterizzano il suo funzionamento ordinario.
Il secondo orientamento, sviluppato in Teologia politica, si riferisce allo stato d’eccezione come ad un «concetto relativo alla sfera più estrema (…) un concetto generale della dottrina dello Stato, e non qualsiasi ordinanza d’emergenza o stato d’assedio», da cui si ricava, per converso, che «la decisione intorno all’eccezione è decisione in senso eminente» (14). Si manifesta qui radicalmente la caratteristica più vertiginosa della concezione della sovranità in Schmitt, il suo portato segnatamente esistenziale: la co-implicazione che lega il rischio del tracollo nella violenza all’idea assente del diritto esprime in modo eminente la natura dello stato d’eccezione che deve comunque essere preso di petto da una volontà coattiva, in grado di dare una forma allo Stato. La metodologia dell’eccezione, se applicata in maniera intransigente, svela la precarietà di tutte le decisioni ed insieme, di fatto, la natura perennemente labile e sospesa del sovrano: quest’ultimo, infatti, cercando di incarnare un’idea di diritto assolutamente trascendente e “altra” rimane per così dire “appeso” alla forma, anche per proteggere il suo fragile piede di terracotta dal conflitto sempre possibile che condiziona la realtà sociale.
È proprio lungo questa linea de-sostanzializzante della soggettività sovrana che si situa il Benjamin de Il dramma barocco tedesco: riconoscendo il valore della teologia politica schmittiana come chiave genealogica per comprendere l’origine e il destino della modernità, anche Benjamin coglie l’essenzialità dell’eccezione nell’elaborazione del concetto di sovranità. Anche nella sua ricostruzione, il filo rosso è dettato dal ri-centramento della soggettività sovrana rispetto alla trascendenza, dedicandosi in particolar modo al momento di rottura di una continuità da sempre concepita come autoevidente; una discontinuità da cui origina – posizione condivisa da Schmitt – l’esigenza d’artificio caratteristica del barocco (15): «Attraverso un ultimo confronto con le dottrine giuridiche del medioevo, nel diciassettesimo secolo si formò un nuovo concetto della sovranità. Al centro della disputa, il vecchio caso scolastico del tirannicidio. Tra i generi di tirannia che la vecchia dottrina dello Stato distingueva, quello dell’usurpatore era sempre stato trattato in maniera estremamente controversa. La Chiesa l’aveva abbandonato, ma il dibattito riguardava appunto questo: se il segnale dell’eliminazione dell’usurpatore dovesse venire dal popolo, dall’anti-re, oppure unicamente dalla curia. La presa di posizione della Chiesa non aveva perso d’attualità; proprio in un secolo di guerre di religione, il clero si atteneva a una dottrina che gli metteva a disposizione armi contro i principi ostili. Le pretese teocratiche di questi ultimi erano respinte dal protestantesimo, il quale dopo l’uccisione di Enrico IV era in grado di mettere alla berlina le conseguenze di quell’insegnamento»(16).
Per Benjamin il soggetto sovrano è quello che tenta di risolvere lo stato d’eccezione, imponendosi o re-imponendosi. Tuttavia non viene mai taciuta dall’eterodosso intellettuale marxista l’estrema fragilità di quel soggetto, inevitabilmente consegnato all’immanenza. Per ricostruire e re-istituire il potere, una volta sgretolato il corpo divino della sovranità medioevale, il sovrano impiega tutta la forza dispiegabile per restaurare un ordine mondano concentrando nell’esecutivo il peso della decisione ma, proprio in quanto orfano della trascendenza, egli/esso apparirà in tutta la sua nuda creaturalità, in tutta la sua fragilità.
L’essenza barocca della sovranità si manifesta per Benjamin nel fatto che, la costituzione dittatoriale del tiranno, a causa della contraddizione ineliminabile di essere allo stesso tempo frutto (perché in qualche modo legato indissolubilmente alla propria illegittimità) e argine dell’eccezionalità, diventa una sorta di pallida imitazione della creazione divina, un potere insomma condannato al fallimento.
Nello studio di Benjamin, l’inesorabilità di tale fallimento la vediamo testimoniata nel fatto che, in periodo barocco, assume una centralità tutta particolare la sovrapposizione tra sovrano/tiranno e martire e che quindi, da un punto di vista estetico, in ogni dramma della tirannia sia in fondo dissimulata una tragedia martirologica. Benjamin mostra quindi che alla decisione per la rappresentazione fa da contraltare un’idea tutta cristiana della creaturalità e della finitudine del tiranno, in un mondo peraltro in cui non si dà escatologia possibile perché «all’ideale storico di restaurazione» si contrappone come orizzonte «l’idea di catastrofe»(17): che il Principe sia sempre un martire significa pensarlo come sacrificabile, perennemente esposto ad una violenza che esonda dal controllo giuridico e che, infine, la decisione atta ad armonizzare la conflittualità sociale è sempre ostaggio dell’eccezione.
Per riassumere e concludere: «Se il moderno concetto di sovranità porta al supremo potere esecutivo da parte del principe, quello barocco si sviluppa sullo sfondo di una discussione sullo stato d’eccezione e implica che una delle principali funzioni del principe sia quella di evitarlo. Chi esercita il dominio e governa è già preliminarmente destinato ad essere il detentore di un potere dittatoriale nello stato d’eccezione, ove questo sia determinato dalla guerra, dalla rivolta e da altre catastrofi» ma «mentre il medioevo esibisce la precarietà degli eventi mondani e la transitorietà della creatura come stazioni lungo la via della salvezza, il dramma barocco tedesco si sprofonda completamente nella disperata desolazione della costituzione terrena»(18).
***
(1) Cfr. Roman Schnur, Rivoluzione e guerra civile, Giuffrè editore, Milano 1986, p. 72.
(2) Per rendere più probanti e situate quelle che, in apparenza, parrebbero forzature ermeneutiche di Schnur, risulta subito utile affidarsi alla disamina che Schmitt imposta ne La dittatura (di cui parleremo diffusamente nell'articolo di prossima uscita). Analizzando l’arco storico-filosofico che porta l’istituto giuridico della dittatura a perdere la sua natura “commissaria” o “mandataria” guadagnando invece una dimensione pienamente “sovrana” – segno evidente di un cambio di paradigma di sovranità e della forma-Stato –, Schmitt intravede nella «teoria cartesiana, secondo la quale Dio non ha che una volonté générale e alla sua natura ripugna il particolare» il modello traducibile sul piano politico «nell’idea che lo Stato possa attribuire valore di legge soltanto a regole generali e astratte, mentre il caso singolo può essere risolto unicamente per via di sussunzione sotto la legge generale e non immediatamente per legge»; cfr. Carl Schmitt, La dittatura, Settimo Sigillo, Roma 2006, pp. 138-139. In poco più di un secolo, all’interno di un processo che vorrebbe espellere totalmente l’imprevedibile unicità del momento della decisione personalistica del sovrano – centro fondativo e attuativo del diritto creatore dello Stato – a vantaggio di una integrale illuminazione dell’umano al fine di un perfetto autogoverno in cui il momento esecutivo è solo funzione declinata della legge generale, Schmitt fa riferimento all’opera di Le Mercier de la Rivière L’ordre naturel et essentiel des sociétés politiques quale modello di riferimento del cosiddetto despotisme légale. Sono qui riconoscibili diverse idee a conferma della ricostruzione offerta da Schnur: nel despotisme légale immaginato da Mercier «la ragione detta; il suo dispotismo non mira a rendere schiavi gli uomini, bensì a portare loro la libertà e la “cultura” autentiche. È questa finalità a distinguere il despotisme légale dal despotisme arbitraire. Rimane tuttavia un dispotismo personale, quello di chi conosce la verità evidente. Chi possiede la conoscenza retta, naturale ed essenziale ha anche diritto di essere despota su colui che non la possiede o vi si preclude. L’ostacolo più grave per questa egemonia della ragione è dato naturalmente, anche per Mercier, dalle passioni umane. È necessario quindi che esse vengano soggiogate con la forza, perché il diritto di dettare le leggi non basta da solo, senza la violenza fisica, a farle valere. Appare perciò detestabile e, in più, priva di senso la separazione tra esecutivo e legislativo. (…) "Unità" è la parola d’ordine in quest’universo di pensiero (…) È quindi legittimo che il potere del despota aumenti, perché il diffondersi dell’illuminazione delle menti produrrà automaticamente il correttivo dell’opinione pubblica. Un dispotismo del genere è dunque legale non perché vincolato a leggi positive, ma perché il suo potere estremamente centralizzato consente la transizione ad uno stato di cose in cui le leggi naturali si imporranno da sé e la cui giustificazione sta nell’evidenza razionale stessa.
Questa dittatura della ragione ha il suo fondamento in una distinzione tra filosofo illuminato e popolo da illuminare; fu questa distinzione a impedire che dagli orientamenti dell’epoca si traesse una conseguenza di per sé ovvia, e cioè di concepire la deduzione giusnaturalistica di tutti i poteri dello Stato dalla volontà del popolo in maniera da fondare l’assoluta potestà dell’unico governante su di una trasmissione formale da parte del popolo»; cfr. Carl Schmitt, ivi, pp. 142-143.
Come abbiamo visto, sarà Rousseau a portare ad estreme conseguenze teoriche gli indirizzi appena descritti.
(3) Cfr. Roman Schnur, Rivoluzione e guerra civile, p. 72.
(4) Cfr. Roman Schnur, Ibid., pp. 72-73.
(5) Cfr. Roman Schnur, Ibid., p. 73.
(6) Cfr. Roman Schnur, ivi, p. 74.
(7) Cfr. Roman Schnur, ivi, p. 73.
(8) Cfr. Michele Nicoletti, Trascendenza e potere: la teologia politica nel pensiero di Carl Schmitt, Morcelliana, Brescia 1990, p. 25.
(9) Cfr. Michele Nicoletti, ivi, pp. 26-27.
(10) Cfr. Michele Nicoletti, Ibid., pp. 27-28.
(11) Cfr. Adalgiso Amendola, Carl Schmitt tra decisione e ordinamento concreto, Edizioni Scientifiche Italiane, Salerno 1999.
(12) Contraddizione radicale che assorbe Schmitt dopo la scrittura de Il custode della Costituzione, conducendolo alla debacle concettuale con la fase di adesione al nazismo ma, al contempo, donando fascino e ambiguità ad alcune opere successive, in particolare agli scritti dedicati al pensiero di Hobbes (i quali, ammantati da una patina esoterica, paiono autentici “messaggi nella bottiglia”): si tratta della tensione fra l’individuazione nell’artificio della sovranità hobbesiana come momento più alto della capacità del Moderno di creare forma politica e il tentativo di recuperare nel Novecento quella possibilità costruttiva attraverso l’esaltazione dell’omogeneità offerta dal concetto di volk. Ma è lo stesso Schmitt ad aver visto anticipatamente la contraddizione aporetica: l’unità che un popolo, il volk appunto, rappresenta non ha carattere decisionistico, essendo un’unità organica; al contrario, l’unità creata e rappresentata dalle monarchie assolute, che aveva appunto carattere decisionistico, era un’unità artificiale. Dal problema di creare artificialmente un ente terzo che rappresenti l’unità, formandola dove essa è naturalmente assente, controllando i conflitti e neutralizzandoli, Schmitt sembra passare, rischiosamente, alla speranza che l’unità si crei non “sopra” il conflitto, neutralizzandolo e componendolo, quanto piuttosto portando il conflitto alle estreme conseguenze, ed estremizzando la logica di inclusione/esclusione che il conflitto porta con sé: ma così il senso delle neutralizzazioni è perduto. L’unità che si crea è quella di una parte in conflitto contro l’altra, il compattamento interno procede per composizione di parti omogenee tra loro. Schmitt sembra considerare il volk come il deposito dell’energia che può rinvigorire la forma stato europea ma, cercando di resuscitare il Leviatano, finisce per dare spazio a Behemoth, la guerra civile, il caos di una sostanzialità informe e conflittuale piuttosto che l’ordine formale della rappresentazione, come conseguenza della fondazione politica a partire dall’organicismo identitario.
(13) Cfr. Adalgiso Amendola, Op. cit., p. 52.
(14) Cfr. Carl Schmitt, Teologia politica, contenuto in Le categorie del "politico", Il mulino, Bologna 2012, p. 33.
(15) «L’aldilà è svuotato di tutto ciò in cui spira il benché minimo alito del mondo, e ad esso il barocco attinge una serie di cose che prima usavano sottrarsi a qualsiasi intervento formante e, al suo culmine, le espone alla luce del mondo in forma drastica, per sbarazzare un ultimo cielo e per porlo, quale un vuoto, nello stato di poter un giorno annientare dentro di sé, con catastrofica violenza, la terra»; cfr. Walter Benjamin, Il dramma barocco tedesco, Einaudi, Torino 1999, p. 48.
(16) Cfr. Walter Benjamin, ivi, pp. 47-48.
(17) Cfr. Walter Benjamin, Ibid., p. 48.
(18) Cfr. Walter Benjamin, ivi, p. 48 e p. 67.
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