Questo articolo è parte di un saggio ben più ampio in corso di scrittura che verrà progressivamente pubblicato sul blog. Gli obiettivi del saggio sono diversi: una critica all'interpretazione girardiana del pensiero di Clausewitz; proporre la filosofia politica di Carl Schmitt e le sue ricostruzioni genealogiche di alcuni concetti politico-militari come possibile alternativa; scegliere la soglia in cui le teorie di Girard e Schmitt si avvicinano per distinguersi con più forza, mantenendo come base di lavoro Clausewitz, come snodo da cui divergere con prospettive ermeneutiche differenti.
Nel 1795 Kant pubblicò il trattato Per la pace perpetua. Ai nostri occhi tale testo risulta particolarmente rilevante perché gli effetti prodotti dalla Rivoluzione, nonostante la vittoria dell’armata francese a Valmy, evento pressoché ierofanico per molte grandi menti dell’epoca, fosse datata 1792, e nonostante le grandi trasformazioni legate al reclutamento e alla riorganizzazione dell’esercito, adeguato a livelli di ostilità precedentemente raggiunti solo durante l’abisso delle guerre civili di religione o della guerra civile inglese, fossero già esecutive negli anni 1793-94, sono ben visibili nel discorso kantiano solo per ciò che riguarda l’evoluzione giuridico-politica degli Stati, sia dal lato della forma costituzionale che da quello del diritto internazionale, ma rimangono del tutto assenti proprio nell’ambito militare e nella percezione della trasformazione del livello di ostilità.
È come se il trattato di Kant si collocasse sul crinale di due epoche: se la sua speculazione in materia giuridico-politica è proiettata verso un mondo che, forse, sarà sempre a-venire, per ciò che concerne l’ambito militare il suo sguardo rimane invece ancorato al passato e il testo non sembra rilevare la portata della trasformazione in atto. Finché la guerra è stata una guerra tra regnanti, il diritto di guerra fungeva da strumento normante e difensivo (nel senso di trattenente la violenza del conflitto e di relativizzazione dell’ostilità): preveniva l’escalation in quanto i sovrani erano interessati soprattutto al guadagno territoriale, non certo alla distruzione della popolazione rivale (1). Lo stesso Girard lo ammette, in qualche modo contraddicendosi, all’inizio di Portando Clausewitz all’estremo: «la sua [si riferisce alla guerra] scomparsa in quanto istituzione, che fa tutt’uno con la coscrizione e poi con la mobilitazione totale, ha messo il mondo a ferro e fuoco» (2). Durante la Modernità l’inimicizia assoluta non si manifestava nella relazione conflittuale tra gli Stati di recente costituzione (impegnati peraltro nella centralizzazione e nella razionalizzazione dei propri apparati governativi, amministrativi, fiscali e giudiziari), piuttosto nella forma della guerra civile che squassava e nutriva di odio inesauribile la popolazione polarizzata in ramificazioni sempre più settarie e radicali a partire dallo scisma originario della Riforma, oppure nell’esibizione genocida dell’etnocentrismo europeo a discapito delle popolazioni indigene americane (alba di ogni futuro colonialismo).
La Rivoluzione traspone questo livello di ostilità e inimicizia all’interno del concerto europeo. Il nuovo e aggressivo universalismo rivoluzionario getta nell’anonimato le soggettività sovrane, riducendole a pezzi di antiquariato: trovando compattezza e unione nella fase di difesa della nazione, l’esercito rivoluzionario non diverrà però in alcun modo figura del partigiano tellurico e, sin da subito, diverrà, al contrario, espressione compiuta del partigiano ideologico, inaugurando qualcosa di inedito: il misconoscimento, l’esclusione e la criminalizzazione del nemico inteso come altro ostile, non saranno più esclusivamente rivolte verso individui privati (non importa se costituiti o meno in gruppi oppure se dotati o meno di diritti), bensì direttamente verso gli Stati. La piega aggressiva e universalistica attraverso cui l’illuminismo diviene Rivoluzione esautora ogni prassi relazionale dalla dimensione del senso e il nemico finisce così relegato in una dimensione extra-giuridica: un’assenza di riconoscimento mantenuta in tutta l’epoca successiva e correlata alla forza condizionante delle opposizioni strutturali completamente avvelenate dal mito (che sia questo di matrice rivoluzionaria o reazionaria).
La collocazione filosofico-politico-militare della Rivoluzione (non interessa quindi intraprendere un’approfondita ricognizione storica) nel panorama delle relazioni internazionali europee non può essere sottovalutata o dimenticata: nella prospettiva del presente scritto essa rappresenta un nodo cruciale perché è precisamente ciò che permetterà di legare la genealogia della figura del partigiano allo scarto decisivo che sussiste tra partigiano ideologico e partigiano tellurico.
Alle volte, nella storia delle idee, può accadere che due intellettuali avvertano pressoché simultaneamente l’esigenza di pensare o ripensare un medesimo nucleo problematico, e, instaurando tale dialogo più o meno indiretto, finiscano per fornire ponti concettuali che permettano di ottenere un quadro più comprensivo rispetto al problema suddetto: la lettura di Teoria del partigiano di Schmitt viene investita di nuovi significati se introdotta dal lacerante saggio di Roman Schnur Idee della pace mondiale e guerra civile mondiale 1791/92.
Carl Schmitt pubblica nel 1963 Teoria del partigiano con il preciso obiettivo di offrire uno schema interpretativo in grado di inquadrare l’evoluzione e il radicalizzarsi dell’ostilità e dell’inimicizia partendo da quei raccordi storici lasciati in ombra nel Nomos della terra pubblicato tredici anni prima. In effetti, nel Nomos della terra Schmitt opera il massimo sforzo concettuale per pensare e chiarificare l’origine moderna del diritto internazionale europeo teso all’equilibrio di potenza e alla regolamentazione della violenza tra gli Stati sovrani. Situando la genealogia dello jus publicum europaeum a livello geo-politico, i progressivi slittamenti e le inevitabili asimmetrie, sempre più incoercibili e ingovernabili, che scaturiscono con il cambiamento delle epoche vengono ricondotti, per ciò che concerne l’ostilità politica, a quella che possiamo definire una trasformazione “elementale” della guerra: il diritto tenta invano di normare quei conflitti che, nel passaggio o anche nella giustapposizione/contrapposizione tra terra, mare e poi aria (precisamente all’insegna di un’impossibilità di fissare confini, limiti e regole che cresce drammaticamente ed esponenzialmente con la creazione di nuove tecnologie belliche), acquistano spessore spirituale nella misura in cui traducono e realizzano in forma umana e politico-militare la forza archetipica degli elementi determinanti lo spazio della lotta.
In altre parole, l’operazione genealogica al centro del Nomos della terra ricostruisce con acribia l’origine giuridica del Moderno ma quando si tratta di slanciarsi verso la postmodernità bellica, inaugurata con l’incendio rivoluzionario, si rivolge da un lato verso il cambio di paradigma geo-politico introdotto dalla dottrina Monroe (1823) che va a riconfigurare i rapporti tra “emisfero occidentale” e continente europeo, dall’altro, in furente polemica con l’ordine internazionale delineatosi post conferenze di pace di Parigi e trattato di Versailles del 1919, verso l’uso discriminatorio che cominciano ad assumere i concetti di nemico e aggressione (una ricostruzione senza dubbio parziale ma che strabilia per coerenza, mole di documenti analizzati e spunti intellettuali offerti). In buona sostanza, diviene decisiva in Schmitt l’urgenza di re-inquadrare la sua impresa intellettuale di giurista in opposizione concreta al vero nemico e vero responsabile della dissoluzione dello jus publicum europaeum: l’ordine “marittimo” di marca atlantica.
Lo studio presentato in Teoria del partigiano illumina quindi il lato lasciato in ombra nel Nomos della terra: il crocevia a partire dal quale si dispiega la storia della deregolamentazione e dell’intensificazione dell’ostilità è sempre situato nel luogo sorgivo della postmodernità bellica, ma questa volta l’attenzione è totalmente rivolta al continente europeo. Il lavoro genealogico del giurista tedesco tiene sullo sfondo la “fredda” materia giuridica ma senza permettere al lettore di dimenticare la strettissima correlazione tra le trasformazioni che agiscono nel magma dell’ostilità politica e i criteri formali che ne definiscono il senso, sottolineando come, proprio in questo nesso, sia chiamata ad emergere la responsabilità politica nella forma di una decisione, perlopiù drammatica ed epocale, intorno al “politico”, intorno a chi sia concretamente amico o nemico.
In questo capolavoro dell’ultimo Schmitt, l’affresco genealogico restituisce vividi colori perché pone al centro della ricostruzione figure spirituali concrete secondo una strategia tipicamente hegeliana; tutto quel che viene abbandonato dal lato della dotta documentazione giuridica viene riscattato dal pathos e dalla concretezza drammatica dei personaggi protagonisti di questo scorcio di filosofia della storia.
Il punto d’avvio della personalissima teoria schmittiana consiste nella filiazione della figura del partigiano dalla guerra di guerriglia condotta dagli spagnoli tra il 1808 e il 1813 in opposizione all’occupazione napoleonica. Il partigiano, sostiene Schmitt, combatte da irregolare ma tale definizione di irregolarità scaturisce in antitesi al concetto di “regolare” emergente dalle moderne forme di guerra rivoluzionarie (3): solo post incendio rivoluzionario tale opposizione concettuale regolare-irregolare conosce una riconfigurazione e diventa concreta. La regolarità che il partigiano mette in discussione è precisamente quella regolarità dello Stato e dell’esercito che riceve da Napoleone una nuova definizione. «La nuova arte bellica delle armate regolari di Napoleone era il portato di un nuovo modo di combattere» (4), un modo figlio della Rivoluzione.
Alcune notazioni vergate da un ufficiale prussiano e pubblicista contemporaneo di Clausewitz, Julius Von Voß, avvalorano l’idea che, con la campagna napoleonica del 1806 e gli sconvolgimenti in terra prussiana, ci si trovasse di fronte ad un fenomeno del tutto nuovo: «una guerriglia in grande». Schmitt vede con chiarezza che la declinazione napoleonica del furore rivoluzionario rappresenta il punto in cui l’energia potenziale offerta dal cambio di paradigma dell’ostilità si traduce in violenta energia cinetica, quasi fosse il dirupo da cui s’abbatte l’acqua di una cascata. Tuttavia decide di non tematizzare la nuova configurazione aggressiva (l’imperialismo napoleonico) dell’ostilità rivoluzionaria e preferisce dedicarsi allo studio delle risposte ad essa, affidandosi prima di tutto alla teoria della guerra presentata da Clausewitz.
In questa mancata tematizzazione riconosciamo il problema principale della genealogia offerta da Schmitt, la quale, in ogni caso, resta un inevitabile caposaldo. La principale conseguenza derivante dalla scelta schmittiana di lasciare sullo sfondo l’analisi della “nuova regolarità” trova forma nell’attribuire esclusivamente al lato difensivo prima (Clausewitz) e neo-rivoluzionario poi (Lenin e Mao su tutti) la responsabilità dell’ascesa esponenziale e indifferenziante dei livelli di ostilità e inimicizia. Ma tale percorso - dal nostro punto di vista oltremodo affascinante perché colloca l’evoluzione delle teorie, strategie e tattiche militari o degli impianti filosofico-politici all’interno di una complessa rete di rispondenze mimetiche - finisce per smarrire per strada un’intuizione che comunque resiste in filigrana nella Teoria del partigiano: la positiva valutazione del carattere tellurico del partigiano.
L’elemento tellurico risulta dirimente per circostanziare e definire l’irregolarità del partigiano: il problema consiste tuttavia nel fatto che, bypassando la tematizzazione dell’essenza aggressiva della “nuova regolarità” occorsa all’ostilità e alla sua declinazione strategica post rivoluzionaria, di tale elemento viene soprattutto sottolineata da Schmitt la matrice di radicamento dell’ostilità, ossia, richiamandoci alle categorie di Clausewitz, una violenza che si fonda e si nutre del sentimento ostile della popolazione piuttosto che fare perno sull’intenzione ostile dello stratega.
Il radicamento tellurico dell’ostilità fungerebbe da serbatoio per il prolungamento ad oltranza di una guerra, specie di una guerra difensiva condotta contro un esercito aggressore; collocandosi poi hors-la-loi, il partigiano finirebbe per incrementare, rilanciando ogni volta mimeticamente, con recrudescenze e rappresaglie sempre più illimitate, il livello di ostilità del conflitto, costringendo anche l’aggressore a fare altrettanto. Nell’ottica di Schmitt, nella prospettiva del suo realismo politico, il carattere tellurico del partigiano acquista dunque una sfumatura negativa perché costantemente strumentalizzabile in una prospettiva ideologica e aggressiva. La genealogia tracciata nella Teoria del partigiano intende svilupparsi quindi all’insegna della prudenza: Schmitt vuole mostrare come un sentimento ostile che cresce plasmato dallo sforzo bellico dell’aggressore e che si apre ad una violenza fuorilegge spinta fino al sacrificio di sé per la protezione della propria patria, può infine ribaltarsi nella peggior macchina da guerra una volta che si presta ad essere sostrato di un’ideologia aggressiva informata da un’ostilità assoluta.
I crocevia che segnano il passaggio tra differenti epoche storiche sono quindi da leggere come dei momenti-soglia in cui si manifesta una struttura ben specifica: 1- i criteri differenziali, prendiamo ad esempio una determinata definizione e rapporto tra soldato regolare e irregolare, collassano di fronte alle trasformazioni culturali, politiche e sociali che un agente storico mette a sistema imponendo l’assoluta novità; 2- in questo passaggio, vero e proprio momento d’indifferenziazione, chi risponde a tali trasformazioni lo fa immaginando contro-tattiche che declinano in un senso differente le medesime trasformazioni al fine di non soccombere, di resistere; 3- una volta conclusasi la stagione violenta, il nesso d’indifferenziazione che ha significativamente intaccato e danneggiato le strutture socio-politico-istituzionali precedenti e, soprattutto, condizionato i rapporti tra queste, verrà sciolto in direzione di una nuova definizione di “regolarità” e “irregolarità”, laddove però la rinnovata “regolarità” porterà con sé tutte le contro-tattiche di risposta che ha dovuto affrontare nel momento antitetico precedente, portando a nuova intensità una violenza sempre più allergica all’esistenza della differenza, dell’irregolarità.
Anche Schmitt quindi, proprio come Girard, imputa al partigiano la responsabilità di una violenza sempre più indifferenziante, essenzialmente reattiva (perché intrisa di mimetismo e strutturata in risposta ad un ostacolo, secondo la lettura girardiana) costitutivamente sbilanciata verso un’ostilità assoluta incapace di riconoscere al nemico alcun tipo di diritto: questo è il senso della traiettoria genealogica che, secondo Schmitt, lega Clausewitz, Lenin (lettore ossessivo del Vom Kriege), Mao e Ho Chi Minh.
Ribadiamo però che, in filigrana, r/esiste all’interno di Teoria del partigiano la possibilità di pensare altrimenti il carattere tellurico, cifra del combattente irregolare: ecco perché occorre leggere controluce il testo di Schmitt e spingere il pensiero del giurista tedesco oltre i limiti del suo stesso conservatorismo, senza privarci però del suo realismo politico, obbligandoci a rimanere saldi al principio formale del “politico” come via d’accesso privilegiata alla differenza dell’altro.
Sempre nel 1963 Roman Schnur pubblica il saggio Idea della pace mondiale e guerra civile mondiale 1791/92 (5), disponibile in traduzione italiana all’interno di un volume del 1986 edito Giuffré intitolato Rivoluzione e guerra civile contenente altri due preziosi contributi dell’autore redatti nell’arco del ventennio successivo: «La Révolution est finie». Su un dilemma del diritto positivo nella fattispecie del positivismo giuridico borghese e Per la teoria della guerra civile. Considerazioni su un soggetto trascurato. Non solo è curioso che Teoria del partigiano e Idea della pace mondiale e guerra civile mondiale 1791/92 siano stati pubblicati nello stesso anno ma, dal nostro punto di vista, risulta ancor più significativo il fatto che l’urgenza genealogica da cui scaturiscono i due testi sia la medesima. L’effetto di tale convergenza è paradossale, doppio: da un lato il saggio di Schnur si configura precisamente come il tassello mancante che salda Il Nomos della terra e Teoria del partigiano donando allo studioso una linearità quasi narrativa; dall’altro lato, leggendo in parallelo i due testi e notando l’ovvia assenza di reciproci riferimenti, non possiamo fare a meno di immaginarci in cammino all’interno dello stesso edificio speculativo, abitato dalle stesse esigenze, curato da un affine realismo politico e agitato dai medesimi fantasmi.
«In un’opera influente di storia del diritto internazionale, Der Nomos der Erde im Völkerrecht des Jus Publicum Europaeum di Carl Schmitt, si è richiamata con energia l’attenzione su quella dissoluzione dello «Jus Publicum Europaeum» che si delineò attorno al 1900 con il prevalere di un pensiero ignaro della dimensione spaziale e che condusse anche ad una trasformazione del senso della guerra. Questo mutamento di senso, dal concetto di guerra limitata al concetto discriminatorio di guerra, aveva però un precedente, che da Schmitt è menzionato solo di sfuggita e che comunque viene solitamente trascurato: la guerra, nella sua fase iniziale, della Rivoluzione francese». (6) Ciò che interessa a Schnur è la subitanea trasformazione della guerra come modalità di relazione all’interno dello scacchiere internazionale in autentica guerra civile mondiale con le sue nefaste conseguenze in materia di discriminazione del nemico ed esplosione di un livello inedito di ostilità. Il suo intento non è certamente quello di criticare frontalmente la genealogia proposta da Schmitt: del resto, da parte di Schnur, vi è piena consapevolezza della rilevanza dei concetti teorizzati dal giurista tedesco sia dal lato del diritto interno (in particolare l’idea che la sovranità derivi dalla decisione sul caso d’eccezione e che l’eccezione sempre possibile, autentico fantasma che non permette all’edificio razionale dello Stato di chiudersi definitivamente cristallizzandosi nell’ordine positivizzato, sia la guerra civile) sia da quello del diritto internazionale (dove il criterio formale del “politico”, così come nel pensiero di Julien Freund, è il faro per ogni realismo politico futuro).
Il valore epigonale del lavoro di Schnur consiste nel procedere parallelamente all’impresa intellettuale di Schmitt, integrando semplicemente le questioni glissate dal pensatore originario di Plettenberg con un altro palinsesto genealogico che, in maniera altrettanto efficace, prova a spiegare l’evoluzione del diritto internazionale novecentesco come il frutto di una progressiva normalizzazione e positivizzazione dello sconvolgimento dell’ostilità politico-militare con cui finisce il diciottesimo secolo e con cui si apre il diciannovesimo. Secondo Schnur, “l’errore di valutazione” compiuto da Schmitt nel Nomos della terra consiste in un’eccessiva attenzione attribuita al significato della dottrina kantiana del nemico ingiusto «sorvolando invece su quello della guerra rivoluzionaria», soprattutto perché, sottolinea Schnur, le idee presenti nel diritto delle genti rivoluzionario e la loro realizzazione nel campo delle relazioni internazionali hanno trovato grande risonanza tra molti studiosi dell’epoca relativa alla Prima Guerra Mondiale venendo salutate «come un progresso per l’umanità sulla via per la pace perpetua».
E tuttavia, spezzando una lancia a favore di Schmitt, occorre segnalare come, effettivamente, il brevissimo capitolo contenuto nella Parte seconda (Il diritto pubblico) Sezione Seconda (Il diritto dei popoli) del suo Principi metafisici della dottrina del diritto (1797), dedicato da Kant alla questione del nemico ingiusto, sia oltremodo uno dei momenti più complessi e scivolosi della dottrina kantiana (7).
Non sarà dunque inutile riportarlo nella sua interezza: «Il diritto di uno Stato contro un nemico ingiusto non ha limite (ben inteso quanto alla qualità, ma non quanto alla quantità, cioè al grado), vale a dire che, per difendere ciò che gli appartiene, lo Stato offeso può servirsi, non già senza dubbio di tutti i mezzi in generale, ma, nella misura che può, di tutti quelli che non hanno in sé nulla d’illecito. Ma che cosa è mai un nemico ingiusto secondo il concetto del diritto dei popoli, nel quale, come in generale nello stato di natura, ogni Stato è giudice nella sua propria causa? Egli è colui, la cui volontà pubblicamente manifestata (sia a parole, sia a fatti) tradisce una massima, che, se fosse eretta a regola universale, renderebbe ogni stato di pace impossibile tra i popoli e perpetuerebbe lo stato di natura. Tale è la violazione di trattati pubblici, la quale si può ammettere che riguardi tutti i popoli, la cui libertà si trova da ciò minacciata, talché essi sono così obbligati ad unirsi contro un tale disordine per togliere a questo Stato il potere di commetterlo; ma il loro diritto non va fino a dividersi tra loro il paese e a fare in qualche modo sparire uno Stato dalla terra, perché questo sarebbe una vera ingiustizia verso il popolo, che non può perdere il suo diritto originario a formare uno Stato; ma si può imporgli una nuova costituzione, che per la sua natura reprima la tendenza di questo popolo verso la guerra. Per altro l’espressione di «un nemico ingiusto» è un pleonasmo applicato allo stato di natura, perché lo stato di natura è esso stesso uno stato d’ingiustizia. Un nemico giusto sarebbe quello, al quale sarebbe ingiustizia che io resistessi da parte mia, ma allora egli non sarebbe più mio nemico» (8).
Questa pagina, nella prospettiva del presente saggio, ha la capacità di condensare clamorosamente e reificare in concetto il lato oscuro di ogni progetto per la pace perpetua. Immaginando la pace come uno stato di cose, come un’attuale e luminosa realizzazione, necessariamente emerge anche il correlato da cui non può prescindere l’esistenza di un concreto ordine cosmopolitico: una profonda allergia alla differenza, all’opposizione, alla resistenza. Vi è infatti una sinistra analogia tra il silenzio clamorosamente udibile che rimbomba dalla pace dei cimiteri frutto della violenza aggressiva e il placido silenzio con cui una prospettiva differente e indomita viene anestetizzata e ortopedizzata al fine d’essere conforme all’universalismo cosmopolitico di riferimento, che certo sarà repubblicano e confederativo ma che, preso nella sua concreta e situata interezza, necessiterebbe comunque di un nemico da correggere per affermare la propria identità, per riscoprire la sostanza del proprio valore.
La filosofica rimozione del concetto di nemico giusto sottende già un potenzialmente indiscriminato esercizio della violenza: dicendo che il nemico o è ingiusto oppure, più semplicemente, non è un nemico (ma, occorre sottolinearlo, Kant non dice nemmeno essere un amico), ciò che viene infine compromessa è la possibilità di un mondo plurale in cui le differenze possano articolarsi secondo la loro, certo anche rischiosa, libertà e potenza. In questo passaggio Kant tradisce dunque l’inevitabile teleologia che informa ogni universalismo normativistico: nel diritto internazionale, il passaggio dallo stato di natura ad uno stato completamente giuridificato consisterebbe nel sacrificio del singolo stato, dell’elemento concreto perché unico e differente, sull’altare di una più alta e astratta unità.
Uno dei grandi lasciti del pensiero schmittiano consiste nella convinzione che, eliminando l’esistenza del nemico giusto, non sorgerà ex nihilo un pacifico Eden, al contrario, si assisterà ad una progressiva reintroduzione della justa causa in guerra: un’esponenziale estensione del dominio della violenza che, appunto, crescerà proporzionalmente alla discriminazione del nemico. Non è infatti il crudo realismo politico di Schmitt ad affermare in tutta la sua ambigua vaghezza che «il diritto di uno Stato contro un nemico ingiusto non ha limite (ben inteso quanto alla qualità, ma non quanto alla quantità, cioè al grado)». Tra le varie pieghe problematiche del discorso kantiano, una rischia di passare sottotraccia: la vaghezza con cui Kant non circoscrive lo jus in bello degli Stati minacciati virtualmente si traduce, con un salto logico vertiginoso, nella giustificazione indiscriminata della guerra preventiva. E questo perché, come sottolinea Schmitt, con il concetto di nemico ingiusto, sorprendentemente, non ci si riferisce «all’avversario che viola le regole della guerra e che infrange il diritto bellico, compiendo crimini e crudeltà» (9) quanto piuttosto allo Stato che attua un comportamento contrario alla pace, producendo una ricaduta nello stato di natura (e bisognerebbe subito sottolineare come, in realtà, sia proprio Kant ad ammettere che nello jus gentium ogni Stato è giudice nella sua propria causa, proprio come lo è il singolo individuo nello stato di natura). L’astrattezza della questione rimane sostanzialmente irrisolta quando dalla domanda che dovrebbe chiarire chi sia il nemico ingiusto, Kant finisce per parlare di una massima, quella della violazione di trattati pubblici, che, se generalizzata, minaccerebbe la libertà di tutti i popoli. Lo scarto che puntualmente sussiste tra il piano dello stato di natura e quello di uno stato pienamente giuridificato conosce, spaventosamente, il suo raccordo nella violenza che dal potenziale tutti contro tutti converge verso il tutti contro uno, ribadendo la radice comune tra diritto e meccanismo vittimario. Rimangono inevase le domande che da una prospettiva strettamente giuridica sono essenziali: quando la libertà è concretamente minacciata? Da chi è minacciata? Chi in concreto decide in questa fattispecie? Nell’impossibilità di esaurire l’eccezione, l’eterna possibilità dell’eccezione, Kant, nel punto più fragile della parte del sistema dedicata al diritto dei popoli, si limita a rispondere che, a causa di ciò, cioè a causa delle parole o delle azioni del nemico ingiusto tali da minacciare l’altrui libertà, gli Stati sono chiamati «ad unirsi contro un tale disordine per togliere» allo Stato canaglia il potere di commettere ingiustizia: in sostanza sono chiamati ad espellere la violenza con la violenza (10).
L’eco del meccanismo vittimario non smette di risuonare quando Schmitt ipotizza che «forse Kant ha pensato ad una guerra contro uno Stato che minacci l’ordinamento spaziale stesso nel suo equilibrio e contro il quale gli altri Stati conducano una guerra di coalizione al fine di ristabilire l’equilibrio» (11). Ma prontamente il giurista tedesco segnala come tale tipo di guerra rappresentasse un caso particolare nel XVIII secolo per quanto riguarda la riabilitazione della justa causa a discapito del perturbatore del concreto ordinamento spaziale su cui poggiava lo Jus Publicum Europaeum. E, ad ogni modo, «certamente i giuristi del secolo XVIII non hanno pensato, come invece ha fatto il filosofo, a contestare all’avversario di una simile guerra di coalizione il carattere di justus hostis» (12).
Schmitt mette a nudo il moralismo e l’astrattezza dell’impostazione normativistica kantiana criticando due specifici punti: 1- quando Kant sostiene che i popoli sono chiamati ad agire preventivamente per togliere ad uno Stato canaglia la possibilità di minacciare la loro libertà, non fa altro che riabilitare un pensiero vicino all’antica dottrina della guerra giusta, il cui risultato principale, dice Schmitt, «consistette nel fornire il titolo giuridico per una conquista territoriale» (13). Ma la prospettiva della conquista territoriale rappresenterebbe nell’ottica kantiana un’insostenibile macchia di violenza e utilitarismo e finirebbe per lordare l’intento pedagogico-moralistico -carattere essenziale dell’aufklärung- della sua filosofia del diritto. Tuttavia il vincitore può far accettare al popolo vinto «un’altra costituzione, che per sua natura sia sfavorevole alla propensione per la guerra»: in questa proposizione kantiana è possibile intravedere, nell’ambito del diritto internazionale, lo stesso movimento che la genealogia foucaultiana dispiega per ciò che concerne il diritto interno parlando del progressivo passaggio da un paradigma pubblico della condanna e della pena ad uno securitario che agisce biopoliticamente sul corpo dei viventi, con il preciso obiettivo di limitare preventivamente i rischi e le minacce all’ordine costituito plasmando e allevando le soggettività ad immagine e somiglianza del dispositivo di sapere-potere che informa il funzionamento della comunità. La sovrascrittura della costituzione imposta dai popoli vincitori al popolo vinto, l’incisione di un nuovo potere costituito sul corpo del potere costituente che risponda all’imperativo “bisogna difendere la società (internazionale) futura”, pare in qualche modo analogo al lavorio dell’erpice sulla schiena del soldato inconsapevolmente condannato vittima-protagonista del capolavoro kafkiano Nella colonia penale. Il passaggio dalla roboante violenza punitiva alla pedagogica violenza preventiva, per cui il soggetto viene corretto alla radice, tradisce paradossalmente un’accresciuta intolleranza verso l’opposizione e la resistenza ad un modello di ragione che deve costituire il presupposto di ogni possibile modalità di relazione, che deve quindi essere esteso anche all’ambito dello jus gentium.
2- Schmitt imputa alla vaghezza delle formule kantiane la responsabilità di aver suggerito una traiettoria per un possibile nuovo sviluppo della teoria della guerra giusta e di aver, forse inconsapevolmente, aperto la strada alla perfetta identificazione di nemico e criminale col rischio di vedere rimossi gli ultimi ostacoli che ancora sbarravano la strada al “giusto” vincitore. Giustapponendo accanto al concetto di justus hostis l’immagine del nemico ingiusto, ossia un concetto che porta in sé una valenza ancor più discriminante rispetto a quella insita nella teoria della guerra giusta o nella riabilitazione della justa causa in guerra, Kant pone le basi teoriche per una polarizzazione ancor più potenzialmente terrificante della violenza che tanto più apparirà astratta nella sua essenza normativa quanto più diverrà concreta nella sostanzializzazione del disallineamento, della colpa, sul corpo del nemico.
La vibrazione di fondo del normativismo kantiano, attraverso la mediazione del diritto delle genti rivoluzionario, viene rilevata da Schnur negli scritti di diversi giuristi di inizio Novecento, per esempio in alcuni lavori di Robert Redslob, uno studioso tedesco di diritto e professore a Strasburgo negli anni del primo conflitto mondiale: «secondo lui [Redslob], il diritto internazionale dello Jus Publicum Europaeum è di valore morale inferiore, perché non riconosce alcuna lotta delle idee, bensì soltanto la lotta tra potenze» (14). Accettando supinamente l’opera moralmente civilizzante che la guerra civile rivoluzionaria ha prodotto per lo Stato e «riconoscendo nella dottrina del concetto discriminatorio di guerra, così come la Rivoluzione l’aveva fissata anche nelle sue costituzioni, un contributo alla filosofia politica della democrazia», un autore come Redslob, dice Schnur, rinuncia «al tentativo di considerare criticamente le idee del diritto internazionale della Rivoluzione», non chiedendosi nemmeno «se il prezzo richiesto dalla realizzazione di queste idee non sia stato troppo alto» (15), cosicché rimane un mistero come le dottrine della pace mondiale totale si siano potute trasformare in guerra civile mondiale totale.
È comprensibile dunque il desiderio di Schnur di scavare nel pensiero dei libellisti e agitatori del periodo rivoluzionario per valutare l’esistenza di un’esplicita declinazione aggressiva di una filosofia del diritto, quella kantiana, che, come abbiamo visto, introduce la figura del nemico ingiusto in uno schema ancora “difensivo”, di protezione del diritto cosmopolitico a venire. È come se Schnur passasse al setaccio le astrazioni del normativismo kantiano per meglio mettere in evidenza l’effettiva mistura con cui sono state poste le fondamenta giuridiche della postmodernità bellica e della contemporaneità, perché «soltanto allora la relazione tra idea dello Stato mondiale e dissoluzione dello Stato, tra pacifismo radicale e impiego radicale della violenza, sarebbe correttamente riconoscibile» (16).
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(1) La polemologia di Freund, unendo l’impianto teorico schmittiano, in particolare quello inerente il concetto di “politico”, alla sociologia di Weber e Simmel, è strumento utile per situare le tesi del presente scritto: «Lo sforzo destinato a sostituire le regole del duello alla violenza disordinata della lotta si è sviluppato su due piani, quello della politica interna e quello della politica estera. In politica interna, soprattutto con la nascita dello Stato moderno, attraverso il lento processo che ha condotto a quello che Max Weber definiva il trasferimento ai pubblici poteri del monopolio dell’uso legittimo della violenza. Si trattava da un lato di proscrivere qualunque violenza privata (divieto del duello privato o dell’assedio condotto contro le piazzeforti detenute dai partigiani di una certa religione), dall’altro di eliminare il nemico interno e di sostituirlo con il nemico esterno, rappresentato da un altro Stato sovrano. È evidente che la costituzione degli Stati moderni, dalle frontiere fisse e stabili, ha contribuito in modo determinante alla definizione di convenzioni internazionali in grado di regolamentare quanto meno alcuni aspetti della violenza bellica interstatuale» (Cfr. Il conflitto, contenuto in Julien Freund, Il terzo, il nemico, il conflitto - Materiali per una teoria del Politico, Giuffré editore, 1995, Milano, pp. 168-169).
(2) René Girard, Portando Clausewitz all'estremo, Adelphi, 2007, Milano.
(3) Anche Julien Freund, disambiguando la genealogia proposta da Schmitt, vede nell’approccio bellico rivoluzionario l’alba di una nuova stagione dell’ostilità davanti alla quale sarà proprio la politica, paradossalmente, a fare un passo indietro perché dimentica della sua essenza: la responsabilità intorno al “politico”, un dovere che inerisce quindi all’organizzazione e alla protezione di un pluriverso in cui le differenze co-esistono. Dice Freund: «A mio giudizio occorre rivolgere un’attenzione particolare all’ideologia rivoluzionaria che consiste, nella maggior parte dei casi, in una regressione dal duello verso la lotta. Alla vigilia della Rivoluzione francese le guerre consistevano in abili manovre (…) il cui obiettivo era quello di evitare per quanto possibile che si spargesse sangue sul campo di battaglia. Alcuni teorici militari dell’epoca ritenevano perfino che il generale costretto a dare battaglia avesse per prima cosa commesso un errore nel comando. È questo uno degli esempi più eloquenti di addomesticamento della violenza guerriera. Valmy è stata l’ultima dimostrazione di questo genere; qualche settimana dopo furono gettati nella carneficina delle battaglie masse crescenti di uomini. Al generale sconfitto non si lasciava di solito altra opportunità che la ghigliottina. Le rivoluzioni che abbiamo conosciuto hanno perpetuato questa esaltazione della violenza, arrivando persino a giustificare il terrorismo più cieco. (…) Per meglio giudicare i nostri tempi, occorre valutare in parallelo lo sforzo, fatto grazie alle convenzioni internazionali, per trasformare la lotta in duello, e le giustificazioni rivoluzionarie, che al contrario hanno teso a far degenerare i duelli in lotte spesso sanguinarie o in una violenza ancora più subdola, quella dei campi di concentramento o degli ospedali psichiatrici» (Cfr. Julien Freund, Ibidem, p. 168).
(4) Cfr. Carl Schmitt, Teoria del partigiano - Integrazione al concetto del Politico, Adelphi, 2005, Milano, p. 14.
(5) Cfr. Roman Schnur, Rivoluzione e guerra civile, Giuffré editore, 1986, Milano.
(6) Cfr. Roman Schnur, Ibidem, p. 59.
(7) Cfr. Immanuel Kant, Principi metafisici della dottrina del diritto contenuto in Scritti politici (a cura di Norberto Bobbio, Luigi Firpo, Vittorio Mathieu), Utet, 2010, Torino.
(8) Cfr. Immanuel Kant, Ibidem, p. 541.
(9) Cfr. Carl Schmitt, Il nomos della terra nel diritto internazionale dello "Jus publicum europaeum", Adelphi, 1991, Milano, p. 203. (10) Tutto ciò suona ancora più paradossale perché poche pagine prima Kant così si esprime: «Nessuna guerra tra Stati indipendenti tra di loro può essere una guerra di punizione (bellum punitivum). Infatti la punizione non è possibile che nei rapporti di un superiore (imperantis) verso un inferiore (subditum), il quale rapporto non è quello degli Stati tra di loro. La guerra non deve essere nemmeno né una guerra di sterminio (bellum internecinum), né una guerra di conquista (bellum sibiugatorium), che avrebbe per effetto l’annientamento morale di uno Stato (il cui popolo o si fonderebbe nella massa del popolo vincitore o cadrebbe in schiavitù). Non che questo mezzo, che uno Stato può essere costretto d’impiegare per arrivare alla pace, contraddica in se stesso al diritto di uno Stato, ma perché l’idea del diritto dei popoli implica soltanto il concetto di un antagonismo secondo i principi della libertà esterna, per il quale concetto si conservi a ciascuno ciò che gli appartiene e non si estendano le possessioni, perché l’accrescimento della potenza di uno Stato può essere minacciosa per gli altri.
Tutti i mezzi di difesa di ogni sorta sono permessi a uno Stato a cui si muove guerra, eccettuati quelli il cui impiego renderebbe i sudditi indegni del rango di cittadini, perché allora un tale Stato si renderebbe nello stesso tempo indegno di valere per una persona (che partecipi degli stessi diritti degli altri) nei rapporti degli Stati, quali li regola il diritto dei popoli. Al numero di questi mezzi illeciti appartengono: adoperare i propri sudditi come spie, servirsi di essi, come anche degli stranieri, quali assassini e avvelenatori (si può benissimo anche comprendere in questa classe i così detti franchi tiratori, i quali spiano gli individui nelle imboscate), o anche soltanto adoperarli per diffondere false notizie, in una parola servirsi di tali mezzi perfidi, che distruggerebbero la fiducia che è necessaria per fissare le future fondamenta di una pace durevole».
Ed ancora nel capitoletto successivo: «Il diritto dopo la guerra, vale a dire al momento del trattato di pace e in rapporto alle conseguenze della guerra, consiste di ciò: il vincitore pone le condizioni, alle quali devono essere conchiusi trattati col vinto per accordarsi e arrivare alla pace. In verità egli non si conforma a un diritto, che gli verrebbe dal preteso danno ricevuto dal suo avversario, ma, riservandosi la facoltà di decidere questa questione, egli s’appoggia sulla sua forza. Quindi il vincitore non può esigere il rimborso delle spese di guerra, perché egli dovrebbe far passare come ingiusta la guerra del suo avversario; e se egli anche può pensare a questo argomento, non gli è lecito però invocarlo, perché egli darebbe alla guerra un carattere penale e così di nuovo eserciterebbe un’offesa. (…) Lo Stato vinto, o i sudditi di questo Stato, non perdono con la conquista del paese la libertà civile, al punto che l’uno discenda al grado di colonia e gli altri a quello di schiavi, perché allora la guerra sarebbe stata guerra di punizione, ciò che è contraddittorio in se stesso. Una colonia o una provincia è un popolo che ha, è vero, la sua costituzione propria, la sua legislazione, il suo territorio, sul quale quelli che appartengono a un altro Stato non sono che stranieri, ma che per altro è soggetto al supremo potere esecutivo di un altro Stato.
(…) Risulta già dal concetto di un trattato di pace, che l’amnistia deve esservi compresa» Cfr. Immanuel Kant, Principi metafisici della dottrina del diritto in Scritti politici, Utet, 2010, Torino, pp. 538-539-540).
(11) Cfr. Carl Schmitt, Il nomos della terra nel diritto internazionale dello "Jus publicum europaeum", Adelphi, 1991, Milano, pp. 205-206.
(12) Cfr. Carl Schmitt, Ibidem, p. 206.
(13) Cfr. Carl Schmitt, Ibidem, p. 204.
(14) Cfr. Roman Schnur, Rivoluzione e guerra civile, Giuffré editore, 1986, Milano, p. 61.
(15) Cfr. Roman Schnur, Ibidem, p. 61.
(16) Cfr. Roman Schnur, Ibidem, p. 62.
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