Un dettaglio mi ha incuriosito e spinto a scrivere questo piccolo testo sul narcisismo: in The king of comedy troviamo una sola ma rivelativa scena in cui compare uno specchio; al contrario, Joker è una pellicola contraddistinta dalla loro presenza. Questa annotazione che può sembrare marginale concede tuttavia una chiave di lettura interessante e consequenziale ai precedenti argomenti. Se possiamo legittimamente parlare di The king of comedy come di una tragedia della lotta per l'accesso all'immagine, a quell'immagine televisiva che tutto potenzia e in cui l'identità di Rupert Pupkin potrebbe smaterializzarsi per poi riconciliarsi con lo sguardo degli spettatori (un'immagine da cui tuttavia egli si sente bandito proprio da quei modelli-ostacolo che, come in Kafka, paventano come più lontano e ricco di promesse precisamente ciò che la loro presenza rende più reale e vicino), diventa allora sensato parlare di Joker come di una tragedia della lotta per la trasformazione dell'immagine, in particolare di quell'immagine riflessa nello specchio in cui l'antieroe si sente intrappolato. Chiaramente, questa schematizzazione di massima trova valore proprio nel suo essere soglia permeabile.
Nelle prime inquadrature di Joker troviamo quindi compendiato il problema del suo narcisismo originario: la macchina da presa si affianca lentamente al volto di Joaquin Phoenix inquadrandolo nello specchio; il montaggio è attento ai dettagli e, misurando le attese tra uno stacco e l'altro, diventiamo da subito empatici con l'evidente lotta di Arthur. La sua espressione non lascia dubbio alcuno: davanti allo specchio soffre perché non è quella l'immagine in cui si riconosce, non può essere lui quell'individuo intento a truccarsi da clown. Arthur prova a sorridere con sincerità, deve essere possibile agire con la propria volontà sull'immagine. Niente. Tenta allora di modificarla in maniera meccanica; ma la tetraggine della sua tonalità emotiva è tale che solo la lacrima può divenir del sorriso mensura.
Può essere forse utile, a questo punto, affidarci al pensiero di Lacan, immaginandolo, intorno al tema del narcisismo, quale interlocutore mediano tra Freud e Girard. Per Lacan vi è una differenza strutturale tra l'Io e il soggetto dell'inconscio; la lezione freudiana viene interpretata da Lacan proprio nella direzione di una radicale eterogeneità del soggetto dell'inconscio dall'Io, una non estinguibile trascendenza interna che ri-vela la presenza spettrale dell'Altro al cuore dello Stesso. L'obiettivo di molti testi di Lacan è quello di illustrare «la costituzione narcisistico-speculare dell'Io di fronte al funzionamento simbolico del soggetto dell'inconscio (…) si tratta di reperire la genesi della formazione immaginaria dell'Io (moi) per evidenziare la sua dimensione alienante rispetto al soggetto (je)» (1). «L'Io, rispetto al soggetto dell'inconscio, si mostra, nel discorso freudiano, come una riduzione, una cristallizzazione alienata del soggetto, e non come il suo nucleo sintetico-sostanziale» (2). Venendo incontro alle esigenze esegetiche del presente testo, possiamo più esplicitamente parlare dell'Io come di quell'immagine che può potenzialmente portare alla derelizione del soggetto. La sua genesi narcisistica evidenzia il suo carattere puramente immaginario-identificatorio; la soluzione, tuttavia, non può essere quella di riposizionare l'ontogenesi dell'Io in luogo dell'Es, piuttosto occorre «ricondurre la padronanza dell'Io alla sua radice immaginaria per indicare che il luogo sorgivo della soggettività, al di là dell'Io, è il luogo dell'inconscio, del desiderio inconscio come desiderio dell'Altro» (3). (*)
Lo “stadio dello specchio” è, dunque, il modo in cui Lacan ripensa la funzione strutturante che Freud assegna al narcisismo e all'identificazione nella produzione del soggetto umano. «Per Freud il narcisismo indica, in una prospettiva generale, il rapporto del soggetto con la propria immagine ideale, o, più precisamente, la funzione che l'immagine ideale di sé svolge nella formazione dell'io» (4). Gli oggetti d'amore che, secondo Freud, nutrono la costituzione del soggetto (e che sono all'origine di quella differenziazione della pulsione libidica che abbiamo già precedentemente criticato con il contributo di Girard) sono: il corpo della madre (e le cure da questa profuse) e l'immagine del proprio corpo (funzione idealizzante dell'oggetto che è amato solo in quanto restituisce al soggetto un'immagine ideale di sé). «La passione narcisistica del bambino (…) si specifica come una passione per l'immagine ideale del proprio corpo la quale, per Freud, si produce primariamente attraverso le attese immaginarie dei genitori e dal loro modo di rappresentarsi il bambino, ovvero la tendenza ad attribuirgli tutte le perfezioni possibili e a cancellarne i difetti» (5). Tale eco narcisistica che immerge la soggettività nascente in un labirinto di specchi e idealizzazioni, finisce per dar luogo all'edificazione di una sorta di monumento con il quale il soggetto, alienandosi in esso, si identifica. Proprio a questo livello bisogna collocare la formazione immaginaria dell'Io ideale, espressione di un narcisismo infantile, originario, fissato ad un'immagine esaltata di sé. Non è inessenziale sottolineare il fatto che, per Freud, «l'identificazione non indica né un semplice condizionamento esterno, né un rapporto di imitazione in esteriorità del soggetto nei confronti di un'immagine situata come ideale» (6). Piuttosto l'identificazione si configura come il luogo di una precisa causalità psichica, che indica come l'assunzione inconscia di un'immagine esprima un potere di trasformazione sull'essere del soggetto. In Discorso sulla causalità psichica (contenuto negli Scritti (7)), Lacan può allora parlare della funzione dell'immagine come di una funzione «morfogena» (8). Il filo rosso che, tuttavia, deve sempre essere tenuto presente nella linea genealogica che procede da Freud a Girard passando per Lacan è la crescente centralità e concretezza dell'Altro: il narcisismo è terreno fertilissimo per poter sperimentare «il carattere non autofondato ma eterofondato dell'io» (9), un'origine eteronoma che rimanda alla sua natura alienata, scismatica, sdoppiata (solo da tale “discordanza primordiale” esplode l'urgenza di quel desiderio di riconoscimento, consustanziale ad ogni identità, che può tradursi nell'incontro salubre con l'altro, all'insegna forse di una passività e ospitalità più antica).
Freud e Lacan valorizzano l'aspetto attivo e produttivo dell'identificazione: «il potere morfogeno dell'identificazione si manifesta innanzitutto come potere di cattura, di trasformazione, di risucchio, di plasmazione dell'immagine dell'altro sul soggetto» (10). Ciò che deve particolarmente interessare nel tentativo di interpretazione di Joker e The king of comedy è il fatto che l'effetto fondamentale dell'identificazione è quello di produrre uno spossessamento essenziale dell'io, un'alienazione che rende l'io “doppio”, maschera o miraggio. Nel tentativo da parte del soggetto di realizzare “oggettivamente” l'io, il rischio è quello di rimanere impaniati nel regime immaginario, ossia di rimanere irretiti nel gioco di rispecchiamenti delle immagini, perdere contatto con quello che effettivamente siamo e con la realtà dell'altro, immergere tutto quanto in un delirio allucinatorio che dissolve l'identità nel mare delle identificazioni possibili.
Come è noto Lacan, nella sua teorizzazione dello “stadio dello specchio” (passaggio fondamentale per l'ontogenesi del Sé), utilizza due diverse fonti: gli studi di Wallon sulla percezione in psicologia evolutiva e il commento kojeviano del momento dell'autocoscienza contenuto nella Fenomenologia dello Spiritodi Hegel. Così facendo, viene saldato quel momento in cui il bambino riconosce la propria identità attraverso l'individuazione della propria immagine che lo specchio rende possibile con il desiderio di riconoscimento quale passaggio essenziale nella dialettica servo-signore. Lo specchio permette al bambino di riconoscersi producendo uno sdoppiamento nel soggetto per cui quest'ultimo, divenendo nell'immagine altro da sé, può riconoscersi in una alterità che lo identifica e lo individua, donando unità al corpo in frammenti: qui sorge l'unità ideale dell'io. La sua natura è squisitamente narcisistica poiché essa si produce nell'istante della fascinazione che l'immagine produce sul soggetto e attraverso la quale lo cattura e lo costituisce come frutto di “misconoscimento”, di illusione. L'ideale dell'io rappresenta allora, per Lacan, quell'effetto ottico che sprigiona nell'immagine tutto il suo potere narcisistico-incantatorio, trascrive quel sogno di unità perfetta che è tuttavia solo illusorio e fantasmagorico. «Il soggetto trova nella sua immagine-oggetto una rappresentazione narcisistica di sé che compensa (nell'infatuazione ed esaltazione per la propria immagine) lo stato di “discordanza primordiale” che segna il proprio essere in un periodo evolutivo segnato dall'onnipotenza dell'Altro e dall'impotenza fondamentale del soggetto» (11). «L'immagine del corpo proprio sutura la mancanza che affligge il soggetto, supplemento narcisistico che offre nell'immaginario la soluzione alla frammentazione reale del soggetto» (12). Ma tutto questo è appunto solo un “gioco di specchi”: l'io si rivela come un derivato dell'immagine, una misera ombra dell'immagine dell'altro (o proiettata dall'altro). Tra l'impossibilità di realizzare l'unità immaginaria dell'io e l'originaria frammentazione del soggetto, scorre il tempo dello sviluppo e della crescita. Al crescere delle tendenze reali dissocianti e frammentanti l'identità, corrisponde una fascinazione tragica per l'immagine di quell'unità mai realizzata. Se così possiamo esprimerci: nel regime immaginario l'io potrà sorgere solo al prezzo del sacrificio del soggetto. Questo è già di per sé manifesto nella misura in cui l'immagine è comunque sempre esteriore al soggetto: l'unità alienata che prende il nome di “io” alla fine del processo di individuazione custodirà nel suo cuore la frattura tra l'io e l'altro e tra il soggetto stesso e l'io. La ferita non è rimarginabile in seno all'autocoscienza; il soggetto non arriverà mai a congiungersi con l'immagine ideale che lo rappresenta. Tale ferita si dispone all'incontro con l'altro proprio in quanto l'io, nel momento sorgivo della sua creazione, è già abitato dall'altro, dal suo fantasma, dal suo desiderio. Nella forma del desiderio come desiderio dell'Altro, al di là del godimento (la Begierde hegeliana), passa il confine tra l'immaginario e il simbolico.
La frattura da ricomporre sorge quindi tra il soggetto e l'immagine ideale dell'Io: un fatto, questo, che avvicina senz'altro la pellicola diretta da Phillips a quella di Scorsese.
Dove s'annida allora la differenza? In The king of comedy la figura del modello-ostacolo, centro del sistema di relazioni e della fissazione del desiderio di Rupert, pur essendo dinamica e mutevole, è quantomeno stabilmente tracciabile e apprezzabile dallo spettatore in almeno due direzioni: verso Jerry Langford ovviamente e verso tutti coloro presso i quali Rupert desidererebbe verificare un flusso di ammirazione e riconoscimento che lo coinvolga. In Joker, al contrario, è come se non ci fosse mai il tempo per restituire lo scandalo della relazione col modello-ostacolo perché, da un lato l'energia cinematografica è tutta tesa a rendere l'involuzione del personaggio a livello dello “stadio dello specchio”, dall'altro i personaggi terzi paiono avere nel film un valore meramente strumentale, quasi fossero semplici occorrenze che assolvono la funzione dello sterile ostacolo da abbattere, o comunque istanze già precostituite in maniera luminosa e corrusca, utili solo per esprimere un potere di negazione “unilaterale”.
In Joker, insomma, pare che non vi sia né lotta né dialogo al di fuori della dialettica narcisistica che assorbe Arthur, di cui il momento sopra descritto è simbolo.
Lo specchio dunque è in Joker figura della separazione piuttosto che dell'identità. Tuttavia, dalla breccia aperta in tale frattura, Phillips, con una sceneggiatura ripetitiva e ridondante e una regia attenta più che altro a valorizzare la recitazione sublime di Phoenix, ricava uno schema assai paraculo, che semplifica al massimo la latenza psicologico-mimetica del personaggio: concentrare negli “Altri” la responsabilità delle sofferenze di Arthur (automatica sineddoche del male e dell'indifferenza della società tutta). Ogni evoluzione narrativa ha un ché di reattivo e programmatico, quasi fosse la tappa di un calvario che non rende giustizia al potenziale narrativo del personaggio e che culmina nella trasformazione di Arthur in un perfetto capro espiatorio, vittima di una persecuzione che stringe in un solo demoniaco abbraccio le diverse schiatte sociali (dai teppisti di quartiere, alla psicologa, agli yuppies rampanti, al comico-presentatore Murray Franklin, fino al candidato sindaco Thomas Wayne). L'unico modo per risollevarsi e ritrovare un sorriso sincero e identico a sé stesso, sarà dunque quello di diventare un idolo carnefice, una vittima divinizzata per la sua vendetta, seducente proprio in quanto scaccia col male i mali della società.
Ne avevamo già parlato in passato: il movimento della narrazione di Joker è prevedibile e deterministico quanto il moto di un pendolo, per cui alla tensione verso l'idealizzazione corrisponde sempre il ritorno di una castrazione uguale e contraria. Questa dialettica contrastiva tra immagine ideale dell'Io e principio di realtà che incide nel soggetto attuale trova nella risata la sua eco più perturbante. L'ironia dell'infinito rispecchiamento in cui Arthur sprofonda consiste proprio nel fatto che il suo desiderio narcisistico ancora inespresso sarebbe quello di diventare a tutti gli effetti uno stand-up comedian, una figura cioè in grado di attirare e manovrare il flusso di desiderio del pubblico nella forma della risata. Ma la situazione in cui Arthur è costretto a vivere pare invece essere la terrificante caricatura di una tale forma “autonoma” del desiderio, una sorta di suo specchio deformato. La risata del nostro antieroe traduce, infatti, l'impossibilità di aderenza a sé stessi, sottolinea la patologica incapacità di trovare l'armonico equilibrio tra interiorità ed esteriorità, tra volontà e prassi, per cui, quasi necessariamente, il desiderio incontrerà solo la più brutale frustrazione. Arthur vorrebbe controllare la risata dell'altro nonostante non riesca a controllare la propria. Quest'ultima esplode inconsulta nei momenti di disagio e sofferenza emotiva, esponendo il personaggio a una forma di crudele incomprensione. La risata funge quindi, ancora una volta, da principio differenziale: l'Io si oppone ad Altri tanto quanto gli altri resistono all'Io (al contrario, con l'andare della pellicola, sempre meno verrà sottolineato l'aspetto di lotta del soggetto contro quel se stesso (dis)incarnato nell'Io ideale proprio nella misura in cui verrà a mancare la relazione mimetica con l'Altro).
L'effetto perturbante che domina per esempio la scena iniziale dell'autobus, quella zona grigia che indistingue e indifferenzia il ridere grazie a Arthur dal ridere di Arthur (del resto non sarebbe difficile ricavare una genealogia sacrificale della figura del clown, bersaglio di un ludibrio che sfiora la crudeltà diventando maschera perturbante), è esattamente quel terreno accidentato che Phillips non è intenzionato ad elaborare con attenzione. Scindere il tragico dal comico, esorcizzare la presenza spettrale dell'Altro separando l'indurre alla risata dall'essere deriso, funziona precisamente quale formula, tra le altre, di polarizzazione, che “nobiliterà” l'insurrezione di Arthur da vittima incompresa a idolo omicida simbolo della rivolta sociale. Nel film vengono chirurgicamente inanellate una serie di scene che ripetono il refrain della tragicomica incomprensione tra Arthur e il mondo: ad ogni nuova tappa, però, la presenza scandalosa dell'Altro (la quale deve essere sempre adombrata in quanto traccia di un chiasmo che slega l'unità narcisistica desiderata) viene sempre più esternalizzata, di modo che la regressione autodistruttiva possa “sanarsi” in una logica farmaceutica, distruttiva ed espiatoria: l'Altro deve essere quindi sacrificato e introiettato. Per cui, come nei riti di passaggio indagati da Van Gennep, dalla battuta riassuntiva del primo blocco narrativo «il lato peggiore della malattia mentale è che la gente si aspetta che ti comporti come se non l'avessi» si arriva alla consapevolezza catartica del dialogo immediatamente precedente l'omicidio della madre (dialogo nel quale viene pure tematizzato l'abbandono del nome) «sai quando mi dicevi che la mia risata era una malattia? Che avevo qualcosa che non andava? Non è vero. Quello è il vero me stesso. Happy... non sono stato felice un solo minuto in tutta la mia cazzo di vita. Sai cosa è buffo? Sai cosa mi fa ridere veramente? Io pensavo che la mia vita fosse una tragedia. Ma ora mi rendo conto che è una cazzo di commedia!».
Eppure la risata di Arthur non è costantemente fuori sincrono rispetto al mondo. Sono almeno tre i momenti essenziali in cui la spontaneità della risata rivela la conversione verso l'unità narcisistica; ciò che deve essere messo in evidenza è come questi episodi siano tutti accomunati da un meccanismo di identificazione legato a doppio filo con l'immagine idealizzata del Sé, ossia, detto con il lessico girardiano, il momento in cui nel desiderio dell'Altro è riconosciuta la propria posizione di modello: 1- Arthur, davanti al notiziario televisivo, sorride impercettibilmente quando comprende la correlazione tra l'omicidio da lui perpetrato a danno degli yuppies in metropolitana e le ragioni della rivolta sociale contro l'indifferente opulenza della società e lo sfacciato paternalismo di Thomas Wayne (il transfert funziona ugualmente quando è spettatore della folla travestita da clown che massacra i due poliziotti in metropolitana); 2- durante la proiezione di Modern times, la risata di Arthur coincide con quella del pubblico in sala e risponde a tempo alle evoluzioni funamboliche di Charlie Chaplin, come se il cinema avesse il taumaturgico potere di restituire al nostro sguardo il mondo che desideriamo (del resto, peraltro, fu proprio Charlot a sostenere che «la vita non è una tragedia in primo piano ma una commedia in campo lungo») - (questa risata di fronte allo schermo cinematografico in realtà è analoga a quella sguaiata di inizio pellicola quando Arthur è immerso nello schermo televisivo del Murray Franklin Show: come a rimarcare il fatto che la risata spontanea, segno della struttura identitaria Io-soggetto-Mondo, sia delimitata comunque al campo dell'immaginario); 3- infine la “sanguinante” risata del Joker beatificato dalla folla, quando finalmente, e per la prima volta, il personaggio presidia il lato dell'immagine da lui desiderato senza che nessuno sia più in grado di umiliarlo e dove può mediatamente riconciliarsi e riconoscersi come centro del flusso di identificazione: Joker è ormai il modello carismatico adorato dalla folla in rivolta, si trova nella medesima posizione del comico sul palco, trickster della nuova palingenesi sociale. Della sofferenza di Arthur rimane solo l'oscuro ricordo.
Torniamo a questo punto alla differenza originaria da cui siamo partiti per la nostra lettura comparata. L'imponente presenza del modello-ostacolo in The king of comedy comporta un'evoluzione narrativa sempre attenta a mantenere al centro l'elemento relazionale, anche nel delirio narcisistico più derealizzante. In Joker, al contrario, la tensione relazionale è tutta interna al solo Arthur, in quanto il suo desiderio pare non si misuri con reali interlocutori, quasi fossero i riflessi d'un teatro d'ombre: questi possono essere il frutto di una immaginazione che estremizza il processo di idealizzazione del Sé desiderato (generando un cortocircuito di sopravvalutazione in quanto l'ideale dell'Io, ossia l'immagine che si desidera riconoscere e imitare nello sguardo altrui, viene collocato al posto del soggetto) oppure ostacoli minacciosi che si stagliano su un paesaggio inquadrato secondo tonalità maniaco-depressive, fantasmi di oggetti erotici o madri castranti, figure paterne che negano la propria paternità o modelli magistrali che umiliano il discepolo.
Se il narcisismo può essere affrontato come un arresto dello sviluppo del Sé che comprenda lo sforzo del legame relazionale funzionante come principio di realtà (parafrasando il Freud di Al di là del principio di piacere), allora diventa possibile riconoscere in Joker il decorso di un processo di derealizzazione che scorre nell'alveo di una certa “chiusura” freudiana eminentemente legata al solo individuo (la componente psicologica interindividuale, tipicamente girardiana, finisce dunque sullo sfondo).
Arthur Fleck utilizza due tipi di transfert: il transfert dello specchio e il transfert idealizzante. Che cosa nasconde dunque lo specchio? L'immagine ideale con cui la soggettività di Arthur lotta fino alle lacrime è in realtà la proiezione di un narcisismo altrettanto delirante, quello della madre: lo specchio restituisce quindi il desiderio della madre di avere al suo fianco una persona che possa mantenere intatto il delirio prodotto dalla sua sindrome da celebrità riflessa, nel quale ella si raffigura come ex compagna e madre del figlio di Thomas Wayne. La fuga dalla realtà, l'isolamento, l'inazione e il deperimento, sono direttamente proporzionali alla sua dipendenza da Thomas Wayne, totemico modello assoluto ed insieme oggetto del desiderio. Un legame fittizio che Penny Fleck struttura esclusivamente come domanda di soddisfazione di quell'amae che, per imitazione, riverbera anche nel desiderio di Arthur. Il legame epistolare come dispositivo per il differimento e la procrastinazione potenzialmente infinita di un desiderio che non incontrerà mai la realtà, è scelta metaforica azzeccata. Arthur viene coinvolto in questo materno cerchio di derealizzazione (corrispondente in realtà ad uno stadio profondo della mediazione interna): sarà allora lui a dover accogliere in maniera surrogata la promessa di dedizione, di cura, di vicinanza; il tutto però all'insegna del «put on a happy face and smile!».
L'origine del trauma, della frattura tra soggetto e Io ideale, sorge precisamente da quell'intrico confusivo di immagini contrastanti che sporcano la dialettica narcisistica che Arthur crede di vivere in purezza. L'Io ideale che vorrebbe incarnare non può essere semplicemente quello del comico, poiché quello non sarebbe altro che la sublimazione del ruolo ritagliatogli dalla madre. L'immagine che offusca lo specchio è quella del Figlio perfetto. Il problema di Joker è che, da tale potenziale drammaturgico, viene partorito uno schema risolutivo ingenuo, di un vittimismo al limite del ricattatorio. Se Joker non fosse un film così furbo e paraculo lo spettatore dovrebbe, infatti, empatizzare indifferentemente con Arthur e con Penny mentre, al contrario, il trattamento che viene riservato alla seconda è, da un punto di vista registico e di scrittura, aberrante per il suo moralismo.
Il transfert idealizzante pare invece animato da una contraddizione che confonde e drammatizza la storia di Arthur. Si capisce sin da subito che le due immagini rappresentanti il suo Io ideale rischiano di collidere provocando come forma reattiva di difesa una certa pulsione auto-immunitaria (che dovremo tematizzare). La scena che rivela, qui davvero in maniera brillante, la funesta contraddizione è ovviamente l'immersione immaginaria nel Murray Franklin Show (ossia il calco del Jerry Langford Show con De Niro questa volta nelle vesti del mattatore). Dopo aver svolto la solita routine per accudire la madre -ma dopo aver anche usato con lei una certa arroganza riguardo la reale percezione di Thomas Wayne come candidato sindaco-, entrambi si dispongono davanti allo schermo-specchio televisivo nel buio della camera da letto. La macchina da presa stringe sul volto di Arthur che cambia impercepibilmente espressione. Lo stacco di montaggio ci porta dentro lo Show proprio mentre Murray esce con stile da dietro le quinte. Phillips utilizza inquadrature da varie angolazioni per suggerire una sorta di connessione tra il presentatore e un Arthur rapito dall'entusiasmo, radioso in mezzo al pubblico. A questa altezza, lo spettatore pensa ancora che questo tuffo nell'immaginario sia legato al desiderio del protagonista di diventare un comico (espresso poco prima nel grigio colloquio con la psicologa), desiderio che troverebbe in Murray Franklin il modello ideale. Ma in un attimo accade lo slittamento impensato: una voce dal pubblico si differenzia dalle altre con un «ti amo, Murray!»; Murray allora vuole donare un volto alla voce e coinvolge Arthur in un piccolo ma significativo dialogo; Arthur a questo punto si alza in piedi mentre con un movimento in avanti la macchina da presa si avvicina morbidamente andando a riprendere dal basso un Arthur baciato dalle luci del set, un poco in imbarazzo ma felice, vestito da bravo ragazzo e ben pettinato: «Come ti chiami? - Ciao Murray, Arthur. Mi chiamo Arthur. - Tu hai un che di speciale, me lo sento. Di dove sei? - Abito qui in città, con mia madre [risate di scherno si alzano dal pubblico] - Aspettate, non c'è niente da ridere. Io vivevo con mia madre prima di avere successo, solo io e lei. Sono uno di quei bambini il cui padre è uscito a prendere le sigarette e non è mai più tornato. - So cosa vuol dire, Murray. Sono l'uomo di casa da che mi ricordo. Mi prendo cura di mia madre. - Con il grande sacrificio che fai, deve volerti molto bene. - Infatti. Mi dice sempre di sorridere e di fare la faccia felice. Dice che sono venuto al mondo per diffondere gioia e risate [con un tocco registico notevole, Phillips sfalsa il campo-controcampo fino ad allora impostato per riprendere il volto fiero e sorridente di Arthur nel video della registrazione in diretta, a testimoniare nuovamente quanto lo schermo televisivo sia protesi dello specchio] - Coraggio. Per le tue parole, devi venire qui. Forza!». La scena è ricca e significativa perché l'identificazione che avviene tra i due personaggi, fulcro del transfert idealizzante, è estremamente stratificata. Una specie di duplice riconoscimento salda il momento magico mentre il flusso di desiderio scorre agilmente tra i due attanti riflettendosi in forme insperate: si passa dall'adorazione per il modello, all'empatia privata di chi ha vissuto la medesima difficile esperienza in gioventù e comprende il dolore dell'altro, al riconoscimento pubblico delle qualità di buon Figlio confermate dal sostegno del proprio modello di fronte al tripudio del pubblico (interessante l'inquadratura da dietro che fa sparire in controluce la platea, analogamente a quanto accadrà nel locale per l'esordio come stand up comedian), fino al trionfo finale in cui i rapporti iniziali vengono sovvertiti. È Murray ora che desidera ritagliarsi un attimo di intimità per confessare un desiderio ad Arthur: «Mi sono piaciute le tue parole, mi hai fatto felice. - Grazie, Murray. - Vedi tutto questo? Le luci, lo spettacolo, il pubblico? Darei via tutto in un attimo per avere un figlio come te». Il triste sorriso di Arthur si distende in un abbraccio semplice e commovente. Quella che doveva essere una scena centrata sul desiderio di Arthur di diventare un comico, quello che doveva essere un incontro con il proprio modello sul piano della realizzazione professionale si trasforma nella riconciliazione immaginaria della “parte in ombra” del desiderio di Arthur, quella proiettata dal narcisismo divorante della madre. La paternità del Padre sorge a partire dal riconoscimento della bontà e della sofferenza di Arthur in quanto figlio. Ecco allora che si palesa in altra effigie quell'intrico confusivo che sporca il narcisismo che Arthur vorrebbe realizzare: l'immagine dell'Io ideale ricercata nell'unità immaginaria porta già in sé la contraddizione del voler essere un comico di talento (libero, autonomo, brillante) unita alla trappola del dover essere un buon Figlio. Questo comporta necessariamente anche la perversione del modello, il quale non rappresenterà più solamente quella particolare qualità o porzione di desiderio in cui identificarsi, ma diventerà pericolosamente anche un surrogato della figura paterna e quindi parte del cerchio narcisistico delirante della madre.
Joker è un film che fa del mondo uno “stadio dello specchio”. Arthur è pertanto sempre alla ricerca della propria immagine rappresentante l'Io ideale in schermi e superfici riflettenti, anche se l'unico riconoscimento desiderato sarà sempre custodito nello sguardo dell'Altro (come illustra magnificamente la scena sopra descritta). Le cause patologiche dell'estensione del dominio narcisistico sarebbero da rilevare a livello della «lacerazione originale» tra soggetto e Io, come mostra Lacan, da cui conseguirebbero i disagi con l'Altro. Ma il film di Phillips perde il filo del discorso e non regge alle aspettative create dalla splendida scena dell'identificazione immaginaria, che replica con una variazione significativa e originale le varie fantasticherie di The king of comedy. Raccordando il volto assorto e sorridente di Arthur, spettatore dell'abbraccio immaginario con il modello-Padre, con il corpo consunto e scheletrico nella tenue luce dello spogliatoio ritroviamo per un attimo l'io scisso, sdoppiato e alienato di Lacan. Lì si nasconde la potenza nascosta della pellicola di Phillips. Le crepe e le criticità le riconosciamo invece nel processo che porterà Arthur all'unità mitica incarnata da Joker.
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(1) Antonio Di Ciaccia - Massimo Recalcati, Jacques Lacan, Bruno Mondadori, Milano, 2000, p. 7.
(2) Ibid. p. 8.
(3) Ibid. p. 10.
(4) Ibid. p. 11.
(5) Ibid. p. 12.
(6) Ibid. pp. 12-13.
(7) Jacques Lacan, Scritti, Einaudi, Torino, 1974. Cfr. in particolare Lo stadio dello specchio; L'aggressività in psicoanalisi; Discorso sulla causalità psichica; La Cosa freudiana.
(8) Cfr. Scritti, p. 185.
(9) Antonio Di Ciaccia - Massimo Recalcati, op. cit., p. 13.
(10) Ibid. p. 13.
(11) Ibid. pp. 23-24.
(12) Ibid. p. 24.
(*) Il desiderio come desiderio dell'Altro non ha un contenuto univoco in Lacan, ma tende a sintetizzare una serie di significazioni che, attraverso la mediazione di Kojéve, permettono al lettore di avventurarsi con mani piene verso Lévinas e Derrida e il pensiero di una differenza che fa dell'etica il suo dis-dire.
Il desiderio come desiderio dell'Altro può essere declinato in quattro modi differenti.
Il primo è quello propriamente hegeliano secondo il quale il desiderio dell'uomo non è desiderio di un oggetto ma è ciò che fa del desiderio dell'Altro il suo stesso oggetto. Secondo questa significazione l'essere del soggetto vive immerso in una intersoggettività fondamentale, nel senso che il suo essere dipende costitutivamente dall'essere dell'Altro.
Il secondo mette in evidenza il valore della risposta simbolica dell'Altro alla domanda di riconoscimento del soggetto. Come desiderio dell'Altro il soggetto dipende infatti nel proprio essere dal desiderio dell'Altro nel senso in cui, per esempio, l'essere del bambino dipende dalle risposte che trova nel desiderio dell'Altro materno. Ovvero da come il desiderio dell'Altro lo sostiene o meno, lo particolarizza o meno nel suo essere soggetto.
Il terzo riprende più propriamente il significato freudiano del desiderio dell'Altro come desiderio inconscio, iscritto in un'“altra scena” rispetto a quella della coscienza, come desiderio indistruttibile, come voto del soggetto. Qui il desiderio dell'Altro eccede la dialettica intersoggetiva per indicare una trascendenza interna al soggetto, un Altro interno che si costituisce come matrice del desiderio.
Il quarto apre, infine, alla definizione del desiderio come metonimia. Qui il desiderio dell'Altro va preso come desiderio d'Altro, d'Altra Cosa. Il desiderio infatti è al di là del bisogno in quanto destinato per struttura a non potersi mai soddisfare di un solo oggetto. L'isteria è la figura clinica che più illumina questo carattere infinito, trascendente del desiderio, ovvero la sua eccedenza rispetto all'oggetto del soddisfacimento, essendo il desiderio isterico votato, per struttura, a ricercare nient'altro che la propria insoddisfazione. (op. cit., pp. 169-170)
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