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Tolkien, La caduta di Númenor | Maestri e discepoli, Divieto e morte

Aggiornamento: 2 gen 2023



L’avvento di Númenor segna una sorta di passo decisivo nel percorso narrativo di Tolkien da un mondo profondamente mitico, condizionato dalla presenza molto attiva di personaggi quali i Valar e costellato da molteplici regni di Elfi, a uno che comincia ad assumere la forma della nostra realtà più empirica.

Ma sebbene risulti necessaria una cesura, quale è la Guerra dell’Ira, che sancisca appunto tale trasformazione del mondo, evidentemente mutato, proprio come a sottolineare che quanto emerso a proposito delle strutture essenziali dell’esperienza del soggetto, osservato nelle sue azioni, nelle sue relazioni, nella sua psicologia con un punto di vista “elfocentrico”, invece non cambia nel contesto umano (se così non fosse, il Mito non rivelerebbe nulla dell’intima consistenza della Realtà), viene anche presentato un elemento di continuità nei protagonisti. Vengono infatti introdotte le figure dei Mezzelfi (“Half-elven” nell’originale): in questa “categoria” rientrano entrambi i figli di Eärendil ed Elwing, sia Elrond di Gran Burrone, sia Elros primo re degli Uomini di Númenor.

La storia dei Númenóreani, chiamati anche Dúnedain, conferma in maniera inequivocabile che certe dinamiche nelle loro strutture essenziali non sono affatto cambiate con il passaggio da protagonisti Elfi a protagonisti Uomini.



Tutto inizia con i Valar che nel mare a metà strada tra la Terra di Aman (a Ovest) e la Terra di Mezzo (a Est) donano agli Uomini un’isola, dove sorge il regno di Númenor, su cui regnano Elros e i suoi discendenti, e al tempo stesso vietano loro di navigare a Occidente, verso il Paese Beato.

In un primo periodo i Dúnedain accettano il Divieto, non covano invidia per i Valar e gli Elfi immortali che vivono nelle Terre Imperiture, e spinti a navigare a Oriente, verso la Terra di Mezzo, dove trovano Uomini vissuti sotto l’Ombra, «taught them many things». Si ripropone così ancora una volta quella relazione fondamentale in tutta la narrazione di Tolkien, che è essenzialmente un rapporto maestro-discepolo.

Come esso sia sempre la modalità non solo per tramandare sapienza, ma anche attraverso cui si costituiscono e crescono i soggetti coinvolti, emerge con maggiore evidenza nel momento in cui viene respinto e accade l’esatto contrario. La dinamica del rifiuto di un rapporto di interdipendenza positiva si ripete, sempre accompagnata da quella di una chiusura in sé («the Númenóreans began to murmur, at first in their hearts») per affermare la propria autonomia, illudendosi di poter acquisire una propria indipendente potenza, mentre in assenza di quella relazione che dava linfa alla crescita, la propria soggettività è esposta invece a una che la corrode fino all’autodistruzione.



Elemento di novità in questo caso è che sono i maestri e non i discepoli (come era stato per Melkor, Fëanor…) a tradire il legame: agli Uomini della Terra di Mezzo i Númenóreani «appeared now rather as lords and masters and gatherers of tribute than as helpers and teachers»; ma alla radice di questo voltafaccia si assiste sempre essenzialmente alla stessa dinamica.

Se a prima vista, infatti, ad accendere l’avidità nell’essere umano sembra essere indicato che sia la paura della morte, è solo per l’abitudine a concepire il soggetto come una monade, un “ente” da considerare nella sua individualità. Invece in tutti i racconti di Tolkien la psicologia dei personaggi, Elfi, Mezzelfi o Uomini che siano, è sempre plasmata innanzitutto dalle relazioni, che sono quindi costitutive in senso forte, e a ben guardare anche in questo non c’è eccezione.

I Dúnedain sono maestri degli Uomini della Terra di Mezzo, fin tanto che sono discepoli dei Valar e degli Elfi del Paese Beato. Il Divieto non è una punizione, ma pone quella distanza che “lascia spazio” alla fiducia. Tanto è vero che i Númenóreani smettono di essere distanti dalla Terra di Mezzo e la colonizzano, diventano invasivi, proprio quando smettono di essere maestri. E smettono di essere maestri, quando smettono di essere discepoli. Ma posta l’evidenza che essere discepoli è la condizione per essere maestri, il punto è: cosa interrompe il rapporto di discepolato? È davvero la paura della morte la radice ultima, che accende l’invidia per chi è immortale?

Eppure proprio i primi re di Númenor, che per la maggior vicinanza dal punto di vista genealogico avrebbero dovuto essere più esposti al desiderio di essere come gli Elfi, sono stati coloro che non hanno avuto scandalo della propria morte. Allora forse è vero l’esatto contrario: è la perdita di fiducia nei maestri (e in ultima istanza nel Maestro dei maestri, Ilúvatar, come viene puntualizzato nel racconto) a generare quella paura della morte. Alla radice c’è sempre la relazione.



Quando si tratta degli Uomini, Tolkien sembra avere la tendenza a rincarare la dose per sottolineare che tanto più si ostenta orgoglio e potenza, tanto più si cade nel più vile asservimento, forse non a causa di un pessimismo antropologico che lo porta a rimarcare un’inferiorità persino nell’errore rispetto a personaggi come gli Elfi, ma in risposta all’ideologia individualista imperante nella modernità che con aria di superiorità disprezza la sapienza racchiusa nelle antiche fiabe.

Dopo Túrin con Glaurung il Drago e Húrin con Morgoth, anche Ar-Pharazôn (che è detto «the mightiest and proudest» dei Re di Númenor) cade nella trappola; e come non pensare che essenzialmente egli non sia affatto una monade che in una solitudine esistenziale è angosciata dalla morte, ma un soggetto ossessionato dai suoi respinti maestri, quando per affermare la propria potenza indipendente da loro, muove guerra a Sauron nella Terra di Mezzo per contendergli il titolo di Re degli Uomini, eleggendolo in pratica a suo nuovo modello?



Questo servo di Morgoth, scampato alla Guerra dell’Ira, non è abile come il suo padrone (che infatti non è suo maestro) nei conflitti militari, in compenso ha una straordinaria capacità di manipolazione, incarna una forma di assoggettamento più raffinata, sottile, subdola. È l’avversario più temibile per gli Uomini, persuasi che i desideri scaturiscano autonomamente dal proprio monadico sé, colui che approfittando di questa cecità riesce a direzionarli secondo i propri scopi.

Sauron si umilia davanti ad Ar-Pharazôn senza neanche combattere. Si lascia portare come prigioniero nell’isola di Númenor. Eppure ben presto diviene consigliere del Re. E “maestro”. Cioè, in un contesto dove vigono ormai solo rapporti di dominio, padrone.



L’avidità si rivela il terreno ideale per edificare un sistema sacrale, attraverso cui i lacci dei rapporti di dominio acquisiscono indissolubilità nell’accecante propulsione alla venerazione della Tenebra.

Per quanto possa apparire paradossale, la paura della morte, lungi dallo spronare verso l’attaccamento alla vita, all’essere, mobilita tutte le forze dell’essere al servizio del nulla. Fonda il totalitarismo assoluto, in cui terrore e adorazione diventano un tutt’uno, in cui Sauron è più di un grande dittatore, più di un “Grande Fratello”: è un dio.



«Thereafter the fire and smoke went up without ceasing; for the power of Sauron daily increased, and in that temple, with spilling of blood and torment and great wickedness, men made sacrifice to Melkor that he should release them from Death. And most often from among the Faithful [to Valar] they chose their victims; yet never openly on the charge that they would not worship Melkor, the Giver of Freedom, rather was cause sought against them that they hated the King and were his rebels, or that they plotted against their kin, devising lies and poisons. These charges were for the most part false; yet those were bitter days, and hate brings forth hate.

[…]

And men took weapons in those days and slew one another for little cause; for they were become quick to anger, and Sauron, or those whom he had bound to himself, went about the land setting man against man, so that the people murmured against the King and the lords, or against any that had aught that they had not; and the men of power took cruel revenge»



La caduta di Númenor (che come Atlantide sprofonda in mare) a dispetto delle apparenze non è realmente l’effetto di una punizione divina, ma dell’azione manipolatoria di Sauron, che abituando a una logica sacrificale prima insinua una violenza rituale, apparentemente sotto controllo e in funzione dei desideri, ma già volta alla sacralizzazione del nulla, per poi lasciare che si diffonda incontrollata: i Númenóreani si autodistruggono da soli. Il folle tentativo finale di prendere con la forza il Paese Beato non è altro che l’espressione di una logica mortifera che contamina ormai tutto senza più misura né limiti.

Infatti all’Inabissamento di Númenor Sauron sopravvive (non certo perché Ilúvatar è “sbadato”). In compenso è di certo opera della grazia se riescono a fuggire nella Terra di Mezzo Elendil e i suoi figli, Isildur e Anárion. Alla storia dei Dúnedain non è messa la parola fine.



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