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Immagine del redattoreGruppo Studi Girard

Tolkien, I figli di Húrin | Comprendere la tragedia, comprendere il male

Aggiornamento: 2 gen 2023


Túrin Turambar di Alan Lee

Dopo la massima manifestazione dell’azione della grazia, dopo il ritorno alla vita (addirittura) dell’Uomo Beren e la sua unione con l’Elfa Lúthien, dovrebbe esserci il lieto fine. E invece no.

Nella narrazione di Tolkien non si assiste all’intervento di un deus ex machina come negli antichi miti, accade piuttosto il miracolo, che differisce da esso non per la minore o maggiore potenza che dischiude (il professore non sembra interessato a riprendere le bibliche gare di forza tra il Dio degli Ebrei e gli dèi degli altri popoli), ma per la diversa funzione che svolge all’interno delle trame della storia. Come racconta la parabola evangelica, è simile a un seme, che invece di stravolgere la situazione e indirizzare deterministicamente la successione degli eventi verso un buon esito finale, viene deposto e a seconda del terreno darà o meno frutti.

Il successo della prova di Beren e Lúthien, la dimostrazione che Morgoth non è infallibile, riaccendono l’orgoglio dei figli di Fëanor, che prendono iniziativa e, riuniti gli eserciti di Elfi, Uomini e Nani, sferrano l’assalto che vuole essere definitivo contro Angband, la roccaforte del nemico. A dispetto di qualsiasi segno, il mondo imperterrito continua a credere nella guerra per risolvere il male e, per logica conseguenza, a confidare in legami che non sono altro che alleanze militari, fondate sulla rivalità contro lo stesso. Dopo il miracolo la tragedia.


«Then in the plain of Anfauglith, on the fourth day of the war, there began Nirnaeth Arnoediad, Unnumbered Tears, for no song or tale can contain all its grief»


Of the fifth battle - Nirnaeth Arnoediad di Ted Nasmith

A Morgoth viene consegnato prigioniero l’Uomo di nome Húrin e questi al cospetto del suo odiato nemico sfoggia orgoglio e fiero disprezzo. Agli occhi del mondo niente di più corretto per rimarcare la distanza, ma la verità è che niente è più fragile. Dopo i precedenti molteplici esempi di come la rivalità, lungi dal differenziare, plasmi le soggettività, che restano influenzate da quella stessa contrapposizione, che solo in teoria dovrebbe mantenerle ben separate, Tolkien lancia la massima sfida al senso comune con un caso emblematico e massimamente tragico. L’apparentemente indubbia distanza tra Húrin e Morgoth è subito dissolta e la condanna che questi infligge al suo prigioniero è quanto gli preannuncia:


«Therefore with my eyes thou shalt see, and with my ears thou shalt hear; and never shalt thou move from this place until all is fulfilled unto its bitter end»


Inizia il racconto della storia di Túrin e si insinua la tentazione di vedere nella tragica sorte del figlio di Húrin la dimostrazione della tremenda quanto ingiusta ineluttabilità della maledizione scagliata da Morgoth. Il peso dell’azione della grazia, che prima sembrava addirittura esagerata con il miracolo di riportare in vita un Uomo, ora è ridotto a nulla. E nel convincersi di guardare la vittima di un destino crudelmente avverso non viene il sospetto che si sta osservando tutto con gli occhi del nemico.


Húrin di Alan Lee

La vita di Túrin è segnata fin dall’infanzia dal dolore: una pestilenza uccide la sua prima sorella, suo padre non torna più dalla Battaglia delle Innumerevoli Lacrime. Poi l’esilio: la sua terra è occupata da uomini alleati di Morgoth, perciò la madre lo manda al sicuro da Re Thingol del Doriath.

Lì egli incontra il suo primo rivale, l’Elfo Saeros, che disprezza la sua gente, e involontariamente ne causa la morte. Fugge per non essere imprigionato dal Re, diventando così un fuorilegge, quando invece Thingol lo avrebbe perdonato. Anche nel momento in cui lo viene a sapere dall’amico Beleg andato a cercarlo, l’orgoglio gli impedisce di tornare e riconciliarsi.

Per comprendere davvero questa prima parte del racconto è utile cogliere alcune curiose analogie e differenze con la famosa tragedia di Edipo. La pestilenza e la perdita del padre sono presenti, ma causano l’esilio non perché il protagonista sia colpevole, egli invece è in fuga per non essere vittima degli altri. Come il personaggio della Tebaide, Túrin trova un padre adottivo e il fatto di essere straniero lo rende oggetto delle offese di un rivale. In questo caso però il delitto è contro costui e non contro il vero genitore. Inoltre il gesto non è oggetto di scandalo, ma di un perdono che viene respinto, con il risultato che il nuovo esilio volontario è dovuto all’orgoglio, non è una forma di espiazione:


«in the pride of his heart Túrin refused the pardon of the King»


Insomma Tolkien ribalta la più celebre tragedia greca e il suo sotteso significato: all’orrore di fronte al pericoloso parricida e incestuoso che appesta i suoi vicini sostituisce il problema della rivalità e dell’odio, allo scandalo verso l’orgoglio di chi non accetta la colpa sostituisce il problema dell’orgoglio di chi non accoglie il perdono.

Il bene non può essere troncare la relazione con chi commette il male, se il male in ultima istanza è sempre riconducibile al rifiuto della relazione.



È respingendo la riconciliazione e in definitiva la possibilità di lasciarsi influenzare da un legame positivo, che il protagonista si espone ad essere in balia delle avversità e al persistere del proliferare del male: egli finisce per causare la morte prima del figlio del Nano Mîm, poi per errore dell’Elfo Beleg, che per lui nutriva una profonda amicizia al punto da essergli rimasto accanto, dopo che quello aveva rifiutato il perdono del Re.

Eppure una nuova possibilità gli viene offerta alla corte del Re Orodreth di Nargothrond (uno dei Noldor). Ma l’orgoglio continua ad accecare l’Uomo. Con rinnovata enfasi viene ribadito da Tolkien che muovere battaglia contro il male non coincide affatto con il bene, anzi in questo frangente viene suggerito piuttosto che rivaleggiare contro il nemico alla sua stessa maniera, attraverso la forza bruta e la guerra aperta, significa stare al suo gioco, assecondare in ultima istanza i suoi piani, essere già fin dal principio succube, perciò destinato a favorire il suo trionfo invece che provocare il suo annientamento.

Interessante a questo proposito che per portare avanti lo scontro Túrin faccia costruire un ponte sul fiume Narog: un segno ben visibile che contrapporsi vuol dire istituire un legame con il rivale. A quel punto cosa impedisce che quel legame sia sfruttato dal rivale per i suoi di fini? Cosa impedisce a Morgoth di usufruire di quello stesso ponte per dispiegare la sua piena potenza bellica per distruggere il regno del Nargothrond?

In questo senso il tragico esito di questa seconda parte del racconto è prevedibile in anticipo (non perché sia all’opera un magico e ineluttabile potere maligno) dal saggio Vala Ulmo, che si premura di mandare un avvertimento.

Tuttavia come Húrin è condannato non solo a vedere la vicenda con gli occhi di Morgoth, ma anche sentire con le sue orecchie, così l’orgoglio del figlio testardamente convinto di essere dalla parte del bene è sordo oltre che cieco.



In compenso Túrin non ha remore a guardare negli occhi Glaurung il Drago: così colui che aveva tanto esibito in combattimento il suo fervido odio per Morgoth ora si ritrova paralizzato, ora come il padre è manifestamente succube del suo nemico. Quello di Glaurung è chiamato “incantesimo” (“spell” nell’originale), ma in Tolkien la magia non serve a contraffare la realtà, al contrario ne rivela la vera consistenza. Túrin già da tempo come soggetto si lascia determinare dalla rivalità verso i suoi avversari e da essi si lascia definire. Tutto ciò diventa semplicemente e massimamente esplicito in quel frangente, in cui egli fissa la sua immagine (distorta) negli occhi di Glaurung:


«he saw himself as in a mirror misshapen by malice, and loathed that which he saw»

Túrin, che non ha mai dato ascolto alle parole degli amici, ora si ritrova ossessionato da quelle del suo nemico e ad esse presta fede:


«he might not stop his ears against that voice that haunted him after»

Glaurung non lo uccide e lo lascia “libero”, proprio perché sa che in realtà Túrin libero non è, perciò confida che la sorte dell’Uomo sarà ancora più tragica. Non si sbaglia, benché infine il suo rivale riuscirà a ucciderlo. Dopotutto anche il drago è in fondo solo uno strumento dell’Oscuro Signore, che deve attenersi al compito affidatogli dal suo Padrone e in ultima istanza sacrificabile.



Conclusasi con la morte la storia di Túrin e di sua sorella Nienor, Morgoth “libera” Húrin dalla prigionia: non ha bisogno di esigere segni esteriori di sottomissione né di promesse a parole, lo lascia semplicemente andare, consapevole di aver a tale profondità plasmato la sua soggettività da averlo in pugno molto più di quanto Glaurung con il suo “incantesimo” avesse Túrin.

Infatti a differenza del suo drago l’Oscuro Signore otterrà solo servigi dall’Uomo, il cui odio lasciato libero di aggirarsi sarà il principio che porterà alla tragedia ultima, il crollo degli ultimi due fulgidi baluardi degli Elfi della regione del Beleriand, il regno del Doriath e la città di Gondolin.

L’aver sviluppato l’analisi dell’elemento tragico in Tolkien offre la giusta occasione per un’ultima puntualizzazione sull’idea che Morgoth sia figura del maligno. A dispetto del fatto che la designazione è corretta, proprio gli eventi più tristi e dolorosi mostrano chiaramente che non per questo c’è alcuna demonizzazione del male in questa mitologia. Ciò che caratterizza Morgoth, infatti, non è l’essere l’unico a compiere delitti o che i suoi sono in qualche senso più “gravi”. Non c’è nessun ingenuo moralismo. Egli è diabolico in senso etimologico. È colui che, massimamente corroso dall’invidia per la potenza generativa di una relazione (di cui lui ha assistito alla massima espressività) di cui non può avere monopolio, perché è essenzialmente un accogliere l’interdipendenza con l’altro, si dedica totalmente a istigare in maniera pianificata e sistematica divisione e rivalità (anche contro di sé), per diffondere nel mondo una logica basata su rapporti di forza, attraverso cui ergersi al di sopra di tutti ed esserne lui Signore.



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